Giuseppe Cava (1870-1940). Così il Ministero dell’interno: “Cava Giuseppe ha animo ribelle, indomito. Dotato di naturale ingegno e di discreta istruzione, è il più esaltato ed efficace conferenziere del partito anarchico in Savona”. Tipografo e artigiano giocattolaio, il regime fascista lo sottopose ai vincoli dell'ammonizione. Ebbe una vita segnata da eventi dolorosi come la morte di un figlio e di una figlia. Operaio diciottenne, in un incidente in fabbrica perse una gamba. Poeta, la sua raccolta In to remoin (nel vortice della vita), ricevette molte lodi e fu apprezzata, in particolare, da Camillo Sbarbaro e Angelo Barile. Savona, la sua città, gli ha dedicato una via. Fu definito “l’anarchico celeste”. (dalla premessa a Carnevaleide e vecchie maschere pubblicato sulla “circolare” 2023)

Giuseppe Cava

L'impiccagione di Giovanni Cerro detto “il Giabbe

Da quanto appresi nella mia giovinezza e anche recentemente, intorno a Giovanni Cerro detto il «Giabbe», nato e residente nella borgata di Lavagnola, mi sono formata la convinzione che fosse un individuo dal congegno cerebrale mancante di qualche ruota; a ciò va aggiunta una avarizia sordida e una feroce gelosia, due tare sufficienti a rendere pazzo l'uomo più equilibrato.

Il delitto, ricordato ancora attualmente, di cui si macchiò la notte del 2 febbraio 1865, uccidendo la propria moglie, certa Bonifacino, destò immenso raccapriccio nella popolosa borgata e in tutta la città, per il modo feroce con cui venne consumato. Secondo l'accusa, basata sulle perizie necroscopiche egli l'avrebbe soffocata mediante lo schiacciamento dell'esofago, dopo di averle turata la bocca con terriccio per impedirle di gridare. Tuttavia i vicini affermarono di aver udito lungamente la poveretta implorare pietà al bestiale marito, senza però decidersi a intervenire, credendo a una delle solite scenate di gelosia, a cui da tempo li aveva assuefatti il Cerro.

All'epoca del delitto il Giabbe aveva 45 anni e la Bonifacino 30. La differenza d'età fra i due coniugi potrebbe indurre a sospettare che la gelosia dell'uxoricida non fosse completamente infondata, se la unanime deposizione di tutta la borgata a favore dell'infelice donna, non l'avesse recisamente escluso. L'uccisa era onestissima, di carattere molto timido e mansueto, una di quelle povere mogli maltrattate, che dolorano e piangono in silenzio, senza osar di ribellarsi nemmeno col pensiero alle continue sevizie maritali.

Nonostante le evidenti prove di colpabilità – tanto in istruttoria quanto durante il pubblico dibattito, svoltosi alla nostra Corte di Assise il 25 marzo dello stesso anno, con una sorprendente sollecitudine – il Giabbe si mantenne sempre negativo, sostenendo essere la Bonifacino morta senza sua colpa, in seguito a forti dolori alla bocca dello stomaco.

— Se l'avessi uccisa – disse in udienza, incespicando nel parlare, perché affetto da balbuzie – non mi sarei lasciato prendere in casa vicino al cadavere. Io l'ho assistita per quanto ho potuto e le feci persino il caffè. (Testuale).

— Bel modo di soccorrerla! – gli contestò il marchese Franzoni che presiedeva la Corte. – Altro che caffè! gli avete riempito la bocca di terra.

— Si lamentava in un modo così straziante da non poter resistere, e io le ho riempita la bocca di terra perché non penasse più.

— Sfido! si lamentava di sicuro. Le schiacciavate l'esofago coi pugni.

— Non è vero! Le praticai soltanto alcune fregagioni per farle andare via il male.

— Già, chiamatele pure fregagioni, ma non potete negare che fossero abbastanza energiche. Anzi per renderle più efficaci, l'avete tolta dal letto e distesa sulla panca, su cui venne trovata esanime. L'elasticità del letto vi impediva di gravare in pieno su di lei, e allora ricorreste alla panca, la cui superficie rigida si prestava meglio a finirla in maniera più spiccia.

— Non è vero! La distesi sulla panca per curarla con maggiore comodo: il letto era assai alto.

Nessuna sottigliezza inquisitoria riuscì a confonderlo e a strappargli la confessione intera del suo crimine. Rispondeva con leggerezza inaudita, spesso sorridendo, quasi si trattasse di un fatto qualsiasi, senza gravità alcuna, guardando attorno come a cercare approvazioni nell'aula rigurgitante di pubblico ostile.

Simile contegno fu ritenuto cinico e ripugnante. Io credo che il Cerro non abbia mai avuto coscienza esatta del suo delitto, e si sia rivelato maggiormente meritevole delle cure di un frenocomio, anzichè dei rigori della legge.

Ma a quel tempo la scuola criminale positiva balbettava appena... e imperava codificata la legge del taglione: chi uccide deve essere ucciso. E affinché il collo del colpevole non sfuggisse al capestro, venne espressamente da Genova, quale pubblico accusatore, il conte Tullio Pinelli, contro la di cui requisitoria si batté strenuamente e calorosamente il giovane avvocato Rossi di Finalmarina, senza riuscire a stornare dal capo del suo difeso un verdetto di piena ed intera responsabilità, quale venne reso a maggioranza dai giurati la sera stessa.

***

Poco dopo l'alba del 13 luglio 1865, il Giabbe venne tratto dalle carceri di S. Agostino e in mezzo a un forte drappello di carabinieri avviato al luogo del supplizio, lungo le vie affollate di curiosi. Camminava, per quanto glielo permettevano i lacci in cui era avvinto, assai di buon passo a fianco del cappellano delle carceri, che lo esortava al pentimento.

Nessun segno di emozione gli appariva in volto, sembrava curarsi delle imprecazioni e delle ingiurie che specialmente le donne gli urlavano al suo passaggio. Giunto sulla strada della Foce, vedendo un gruppo di persone affannarsi per correre avanti al lugubre corteo, testimoni presenti mi assicurarono che il Cerro uscisse in questa ironica esclamazione, la quale è una ulteriore prova della di lui incoscienza:

— «Cose camminn-a a ? T'anto se non ghe son mi a festa a no se !».

La forca era stata eretta nella notte sullo spiazzo davanti al vecchio Cimitero e cioè nei pressi dov'è attualmente via degli Arenili. Nessun savonese volle prestarsi ad aiutare il boia nella repugnante bisogna, e per piantare il sinistro istrumento si dovettero chiedere a Genova due facchini; il quale fatto venne riportato dall'avvocato Giacomo Borgonovo, celebre penalista, in un suo libro contro la pena di morte, a tutto onore dei popolani savonesi, dei quali invitava a seguire l'esempio.

Alle ore 5 in punto, Giovanni Cerro detto il «Giabbe», uxoricida, pagava il suo debito alla società offesa.

L'esecuzione fu lunga e atroce: il paziente era di complessione tozza e muscolosa e il boia ufficiale, Pietro Pantani, dovette saltargli sulle spalle e squassarlo più volte prima di riuscire a rompegli la vertebra cervicale per affrettargli la morte, mentre l'aiutante Porro lo tirava in giù per i piedi. Un urlo di indignazione si levò dalla folla e le imprecazioni e gli insulti con cui essa pochi momenti prima aveva accolto il condannato, con la instabilità di cui ha sempre dato prova, li riversò sugli esecutori di giustizia, i quali dovettero essere validamente difesi dalla forza armata, per non venir malmenati e percossi.

Così, si concluse l'ultima esecuzione capitale che ebbe luogo a Savona.