Jean Montalbano
le fatiche del sepolto vivo Gravenites di recente ristampate
Pubblicato sul finire del decennio aureo del
rock-blues ( Columbia 1969 ), My Labors di Nick Gravenites torna ad essere disponibile grazie
all’Evangeline (2001) aumentato altresì di alcune tracce estratte dal “gemello”
LIVE at Bill Graham’s Fillmore West:
detto che l’amico Mike Bloomfield vi svolge quel ruolo di co-protagonista che
gli Electric Flag avevano ratificato
un paio d’anni prima, ricordiamo solo come i due chicagoani, uno greco, l’altro
ebreo, avessero trovato nel giro folk-blues della città ventosa il modo più
rapido per strapparsi dal corpo di due culture del vecchio mondo apparentemente
immobili. Nel dopoguerra, ricordava Musselwhite, le radio trasmettevano
rembetiko, particolare forma-canzone greca che col blues condivideva luoghi di
nascita e fruitori, oltre che soggetti,
e dunque il salto di Gravenites, sulle orme di Johnny Otis (Giannis
Veliotis), nel crogiolo di “cose americane” non sembri solo un espatrio, come
lui stesso avrebbe ricordato nelle pagine autobiografiche di cui qui di seguito
diamo un assaggio.
“ Ho letto molti articoli sul blues
ed è credenza unanime che la musica derivi dal gospel o dalla musica
chiesastica afro-americana. Sono sicuro che molto blues provenga dalla chiesa
nera, ma non è il blues con cui ho più familiarità. Il blues che mi rapì non
era da chiesa, ma quel che la chiesa chiamava musica del diavolo. Questa “musica
del diavolo” era suonata in bordelli e bettole popolate da peccatori,
ubriaconi, debosciati e tossici, l’elemento sotterraneo della società. E’
con tale elemento underground che
entrai in sintonia. Mi sentivo a casa in questa società sotterranea perché,
diciamolo, sono un chicagoano.
Sono nato nel 1938 nella trentacinquesima
strada nell’area di Brighton Park nella zona di Bridgeport. Era ciò che
definiamo un ghetto bianco. Il miscuglio etnico del vicinato era tedesco,
irlandese, polacco, ungherese e greco. Eravamo coatti. Mentre crescevo, non
incontrai mai un ebreo e la sola persona di pelle nera che vedevo in giro era
lo spiantato “Smiley” che ogni mattina passava lo straccio sul pavimento della
pasticceria della mia famiglia. So dalla tradizionale vulgata blues che la
famiglia del bluesman era costituita da neri del sud, mezzadri i cui genitori
erano probabilmente schiavi, e il loro primo strumento musicale era di strisce
di camere d’aria inchiodate alla porta del granaio.
La mia era una famiglia di immigranti
greco-americani, e io sono figlio di un dolciere…Di nome faceva Gravenites, che
in greco è Grevenitis o I Greveniti, “originari di Grevena”. Grevena è una
città della Grecia settentrionale nota come una città del “massacro”, un luogo
dove i turchi macellarono la popolazione e quelli che riuscirono a fuggire e
insediarsi in altri villaggi erano chiamati Greveniti. Il villaggio greco dove
ócappò la mia famiglia, Paleohoriton, letteralmente “città antica”, era situato
giù tra le inaccessibili montagne del Peloponneso, in Arcadia. La mia famiglia
sopravvisse nell’isolamento di un paese così remoto e pericoloso da
raggiungere, adiacente al secondo più largo buco sulla terra, che nessun
estraneo, nessun nemico avrebbe potuto avvicinarvisi senza danno. Il buco, il
“tripa”, era dove i corpi andavano, svanendo dalla faccia della terra. Mia
madre fu allevata in una società che considerava le donne come bestie da soma,
che non valeva la pena educare e buone solo per lavorare.
Ricordo
mia madre mentre mi diceva che la sua mamma le raccontava di avere
“cinque figli- due maschi e tre cammelli”…La cosa che mi ha sempre divertito è
che mia madre e mio padre potessero trovarsi così bene a Chicago. Là avevano
portato il loro linguaggio, la loro chiesa, le proprie scuole, la propria
società praticamente intatti dalla Grecia, e non pareva strano dal momento gli
immigrati di tutto il mondo facevano esattamente lo stesso.
Chicago è una città di quartieri distinti, separati e isolati l’un l’altro da religione, razza, lingua, paese d’origine, e ci furono molti immigrati che non lasciarono mai la propria zona se non per fare acquisti nei grandi negozi sul Loop. Questo isolamento dei quartieri non era limitato alla sola esperienza dell’immigrato, ma condiviso dalla maggioranza degli abitanti. Le linee che dividevano i quartieri non erano affatto vaghe, ma distinti punti di separazione. Potevate avere un quartiere tutto polacco ed uno tutto nero che vivevano dalle due parti di una stessa strada, ma quella strada sarebbe stata come un muro tra loro, attraversato solo per affari. Anche la mia famiglia portò con sé antiche superstizioni, stregonerie e pregiudizi. Ricordo che mia madre mi condusse a casa di amici per farmi dire la fortuna tramite un processo di sgocciolatura d’olio d’oliva in un tegame con acqua e relativa lettura di come le gocce si raccogliessero. Non so quel che l’indovina disse a mia madre, ma ricordo che lei si arrabbiò parecchio, lasciando la casa di cattivo umore…I pregiudizi della mia famiglia potrebbero essere meglio spiegati come xenofobia, vale a dire, se non eri un greco eri un outsider, non contavi davvero niente. Non era come se essi odiassero gli altri, erano solo indifferenti verso di loro, con l’eccezione dei turchi. Mia madre avrebbe sputato e detto la parola turco contemporaneamente. Chicago è una città di vicoli e seminterrati, e la mia famiglia faceva molte cose nel seminterrato. Avevo sette anni quando finì la seconda guerra mondiale, ma ricordo ancora la tessera necessaria per comprare da mangiare. Nel seminterrato facevamo il sapone, facevamo il vino, macellavamo le pecore e le appendevamo al soffitto per cavarne il sangue e facevamo salsicce con le budella, inscatolavamo le pesche e le pere, imbottigliavamo il “white lightning” greco, laggiù era la nostra stanza tenebrosa. Quel che si dice un posto trafficato!
Mio padre morì che avevo undici anni, e assaggiai il primo sorso di blues greco. Mia madre era contadina greca fino all’osso e pianse come tale. Vestì abiti neri per dieci anni. Sedeva da sola in sala e cantava e piangeva il suo dolore nel triste, melismatico stile che noi greci chiamiamo “Metaloya”, ed era musica che non dimenticherò mai. Andai a lavorare nel laboratorio di famiglia subito dopo la morte di mio padre, e fu là che sviluppai il mio personaggio pubblico, là che s’avviò la mia americanizzazione. Il negozio si chiamava Candyland ed era un mondo brillante di specchi e vetri, marmo, legno, acciaio inossidabile e piastrelle. Facevamo il nostro gelato, i nostri dolci, i nostri sciroppi e aromi, avevamo un grande scaffale per i sigari, vetrine su misura, scaffali con ogni ben di dio, un grande jukebox Rock-ola. Leggevo qualsiasi fumetto, ascoltavo tutti i successi nel jukebox, indossavo un grembiule e servivo la gente di Chicago, e cominciai a provare qualcosa verso tutto ciò che era americano. Fu mentre lavoravo in negozio che presi a sentirmi come un alieno intrappolato nella cultura di un mondo vecchio, il ragazzo che guardava all’America da dietro il banco. Non volevo stare dietro il banco, volevo stare dall’altra parte. La mia famiglia mi mise in guardia verso gli estranei, beh, gli estranei erano Americani.”