Giuliano Galletta
due interviste
L’intervista a Maurizio Bettini,
autore fra l’altro del recente Contro le
Radici pubblicato da il Mulino, si è svolta in occasione della conferenza
tenuta in gennaio a Genova per il ciclo “Lezioni di storia: noi e gli Antichi”,
organizzato dalla fondazione Garrone e dalla Fondazione Palazzo Ducale. Quella
a Massimo Cacciari (“Figure della Morte”) si è svolta in occasione
dell’apertura di un trittico (Cacciari-Curi-Marramao) dedicato, sempre presso
il Palazzo Ducale di Genova, al volume di Giorgio Pigafetta La più vuota delle immagini (Bollati
Boringhieri). Ringraziamo “il Secolo XIX”
per la concessione.
1. Maurizio Bettini
«La differenza” principale tra l’uomo delle società
arcaiche e tradizionali e l’uomo delle società moderne, fortemente segnato dal
giudeocristianesimo, consiste nel fatto che il primo si sente solidale con il
cosmo e con i ritmi cosmici, mentre il secondo si considera solidale solamente
con la storia». Così si esprimeva il grande storico delle religioni Mircea
Eliade nel suo famoso saggio Il mito
dell’eterno ritorno.
L’idea antichissima, e per l’appunto mitica, della
ciclicità del tempo aveva trovato negli stoici la sua elaborazione filosofica.
«I filosofi stoici credevano che, alla fine di una lunga rivoluzione, gli astri
sarebbero tornati nella posizione in cui si trovavano al momento in cui il
cosmo aveva avuto inizio» spiega Maurizio Bettini, docente di filologia
classica all’università di Siena, «ciascuno di questi cicli sarebbe culminato
in una conflagrazione universale. Da questo fuoco, poi, si sarebbe ricostituita
la struttura del cosmo, tale e quale a prima».
«Gli stoici pensavano che tutto si sarebbe ripetuto
uguale ma senza che gli uomini ne avessero memoria» prosegue Bettini «sarebbero
tornati ancora Socrate e Platone e ciascuno degli uomini che sono già vissuti:
essi avranno gli stessi amici e concittadini, le stesse convinzioni, si
imbatteranno negli stessi casi e intraprenderanno le stesse azioni».
«Secondo questa teoria, il tempo consisterebbe in
una riproduzione di quanto è già accaduto, quasi che un cinefilo proiettasse
all’infinito lo stesso film. Se si desse loro retta, il futuro consisterebbe in
un eterno riprodursi di doppi e di controfigure, un ritorno di “noi” che nello
stesso tempo, però, saremo “altri».
Il problema diventa quindi quello dell’identità e la
domanda: quanto di “noi” resisterà nelle nostre riproduzioni? Per raccontare
questa suggestiva teoria, Bettini prenderà spunto da uno dei testi più
enigmatici di tutta la cultura antica: la quarta ecloga di Virgilio, quella del
bambino divino. Lo stesso testo che, a partire da Costantino, i cristiani hanno
ritenuto una profezia della nascita di Gesù Cristo.
Recita il testo virgiliano, poi ripreso anche da
Dante: “È arrivata l’ultima età dell’oracolo cumano: il grande ordine dei
secoli nasce di nuovo, e già ritorna la vergine, ritornano i regni di Saturno,
già la nuova progenie discende dall’alto del cielo. Tu, o casta Lucina,
proteggi il fanciullo che sta per nascere, con cui finirà la generazione del
ferro e in tutto il mondo sorgerà quella dell’oro”.
«Anche Virgilio, nel I secolo avanti Cristo, si
ispirava agli stoici» aggiunge Bettini «e alla loro filosofia che era un po’
come quella marxista che parla delle contraddizioni del capitalismo che portano
alla rivoluzione proletaria». Il tema del mondo che ritorna era stato ripreso
da molti altri filosofi proprio perché legato al tema dell’identità. «Anche
Lucrezio» spiega Bettini «a un certo punto dice: ”Ammettiamo pure che gli atomi
che costituiscono il mio corpo si ricompongano allo stesso modo dopo la mia
morte, il risultato sarei sempre io?”. Lucrezio risponde di no perchè fra le
due identità si sarebbe interrotto il flusso della memoria. È una risposta di
straordinario interesse e attualità».
Il Cristianesimo avrebbe modificato radicalmente
questa impostazione perché «si dice che ci sarà un evento, la fine del mondo,
con la resurrezione della carne e tutto ricomincerà come prima ma una volta
sola e non infinite volte; ma forse le due teorie un po’ si assomigliano»
conclude Bettini «il motivo per cui il Cristianesimo insiste tanto sulla
resurrezione della carne e proprio per garantire che a risorgere sarà veramente
ogni singolo individuo e non un sosia o un doppio».
8 gennaio 2012
2. Massimo Cacciari
“IVAN Ilic’ capiva che stava morendo ed era in uno
stato di continua disperazione. Nel profondo del suo cuore sapeva che stava
morendo ma non solo non era abituato al pensiero, semplicemente non arrivava a
farlo suo”. Così Tolstoj nel celebre racconto del 1886. «Sulla morte si tende a
mentire. A questo proposito non c’è molto da aggiungere a quanto lo scrittore
dice nella “Morte di Ivan Ilic’. »... É accertato che la morte, nel mondo
contemporaneo più che in altre epoche, è un tabù. «Non vi è dubbio che la
nostra società non affronti il problema. La morte viene occultata. Per questo
non ci si prepara a morire» prosegue Cacciari «pensiamo la morte sia un fatto,
nudo, crudo, che nulla avrebbe a che fare con la vita e fingiamo che non
esista. Questo rende il morire terribilmente solitario e cupo. Alla fine si
crepa, non si muore». Ma un atteggiamento diverso è possibile? Si può guardare
in faccia la propria morte? «Il difficile è, per dirla con Platone, è prendersi
cura della propria morte» spiega ancora il filosofo «il che non significa
restare incantati o disperati perché moriamo ma pensare, ad ogni nostro momento
come fosse l’ultimo, il decisivo, come quello di cui dobbiamo rendere conto
della nostra vita. Con tutta la responsabilità, la serietà e la gravità di
questa situazione». «In realtà non posso parlare della mia morte» conclude
Cacciari «posso parlare di una vita, in cui mi prendo cura della mia morte. La
mia morte resta indicibile, si rappresenta sempre la morte degli altri. In
sostanza quando si pensa la morte si pensa sempre e soltanto la vita. Non a
caso, classicamente, morte va sempre insieme ad amore».
20 gennaio 2012