Renato Venturelli
Cine 2009
BASTARDI SENZA GLORIA (Usa, 2009) di Quentin Tarantino, con Brad Pitt,
Christoph Waltz, Melanie Laurent
La stagione entra
finalmente nel vivo e il grande cinema comincia a calare i suoi assi. In attesa
dei prossimi Michael Mann o Scorsese, ecco intanto il Tarantino in versione
war-adventure che qualcuno ha accolto freddamente all’ultimo festival di
Cannes, ma che offre invece uno dei suoi film più eccitanti. La vicenda si
colloca nella Francia occupata dai nazisti, si sviluppa attraverso l’intreccio
linguistico dei suoi protagonisti (francesi, americani, tedeschi…), costruisce
attorno ai dialoghi scene di suspense strepitosa e fa poi bruciare la Storia,
quella vera, al fuoco della pellicola.
Lasciamo perdere i giochetti cinefili, i citazionismi, il pulp e tutte
le altre sciocchezze che hanno costruito per anni il mito superficiale di
Tarantino, ostacolandone la comprensione: “Bastardi senza gloria” è un film che
vampirizza la Storia per costruire nell’assoluto delle singole sequenze un
mondo fatto di cinema, di potenza visiva, di immagini e di parole, di spazi e
di tempi tutti suoi. Forse discutibile nella poetica, sempre stupefacente per
talento. E con almeno due sequenze da antologia: quella iniziale nella fattoria
di M.Lapadit e quella lunga e complessa nella taverna. Cultori del racconto
umanistico, astenersi: per gli altri, consigliata la versione originale
sottotitolata. Oppure, prima l’una e poi l’altra…
NEMICO PUBBLICO (Usa, 2009) di Michael Mann, con Johnny Depp,
Christian Bale
Riecco Dillinger, il
nemico pubblico numero uno, l’eroe popolare che rapinava le banche cattive
negli anni della Depressione. Era l’erede di Jesse James e dei fuorilegge
rurali, l’incarnazione di un’America destinata ad essere spazzata via dal ‘900,
dalla repressione centralizzata dell’FBI e dalla mafia organizzata nel
Capitale. Così lo aveva cantato Milius nel bellissimo film del 1973, con Warren
Oates e Ben Johnson ultimi rappresentanti dell’epos pionieristico. In modo meno
diretto lo rievoca adesso Michael Mann, sublimando il Mito nell’astratto
splendore della Forma. Ci sono alcuni temi prediletti dal regista, a cominciare
dai due protagonisti che tendono continuamente a scambiarsi di ruolo, ma c’è
soprattutto l’immersione in un universo schiettamente visivo: il penitenziario
iniziale è un trionfo dei suoi tipici azzurri, tra linee rette e superfici
geometriche; la sparatoria notturna nel bosco è un pezzo strepitoso tutto
fondato sulla notte, il buio e le luci abbaglianti. E pazienza se il racconto
resta raggelato: questo è il film di un grande stilista, dove il melò sfocia in
un piacere sontuoso e astratto di cinema. Per appassionati: le emozioni ci
sono, ma sono emozioni di cinema.
GRAN TORINO (Usa, 2008) di e con Clint Eastwood
Clint Eastwood continua
ad usare fordianamente la commedia per raccontarci la tragedia, e in questo suo
ultimo film da protagonista mette in scena l’angoscia e la solitudine di un
vecchio chiamato a compiere un bilancio della propria vita. L’uomo è un
ex-operaio della Ford, nutrito di una cultura xenofoba da blue collar, ma con
un suo rigoroso codice morale: e la vicenda è al tempo stesso la storia di un
razzista che si sacrifica per i suoi vicini asiatici, di un padre che comprende
il proprio fallimento, di una star che riflette sul proprio personaggio di eroe
e sul rapporto con la violenza. Il tutto raccontato per sferzanti vignette
umoristiche, dove l’ispettore Callaghan dei quartieri poveri esibisce a
grugniti e occhiatacce il suo disprezzo per chiunque, nel solco del miglior
understatement americano: ma anche con momenti fulminei che rivelano
all’improvviso la trama più profonda e disperata, nascosta dietro l’apparente
semplicità della commedia o del patetismo buonista. Non siamo ai livelli di un
“Mystic River”, anche perché qui la costruzione sa un po’ di astuzia: ma la
riflessione di Clint procede con assoluta coerenza, trasmettendo il piacere di
un cinema intenso, meravigliosamente vivo anche se intriso della presenza della
morte.
WO LOVERS (Usa, 2008) di James Gray, con Joaquim Phoenix, Gwyneth
Paltrow, Vinessa Shaw, Isabella Rossellini
Dopo averlo ignorato
otto anni fa per l’ottimo “The Yards” e averlo addirittura fisciato per
l’eccellente “I padroni della notte”, all’ultimo festival di Cannes tutti hanno
finalmente scoperto James Gray, il grande regista americano che in ogni suo
film ruota attorno al tormentone della famiglia, dell’impossibile libertà
dell’individuo, dei sogni di emancipazione che devono sempre fare i conti col
gruppo di appartenenza. La novità sta nel fatto che stavolta sviluppa i suoi
incubi noir in forma di racconto sentimentale, guardando alle dostoevskiane
notti bianche: al centro, un trentenne che vive ancora coi genitori, dovrebbe
sposare la figlia di un socio del padre, ma s’innamora della bella vicina di
casa che spia dalla finestra e con cui s’incontra furtivamente sui tetti. La
forza di Gray sta nel modo classico in cui delinea i personaggi, dirige gli
attori e racconta una storia, ma soprattutto sa comunicare attraverso le
immagini: cupe, soffocanti, dolorose. Qui senza la potenza degli altri suoi
film, ma sempre intenso. E chissà che non comincino a capirlo anche gli
sciagurati che avevano accusato “I padroni della notte” di essere banalmente
reazionario, semplicemente perché si ostinavano a non voler guardare e capire
le immagini.
PONYO SULLA SCOGLIERA (Giappone, 2008) di Hayao Miyazaki – film
d’animazione
I bambini anni ‘70 hanno
cominciato a conoscerlo in tv ai tempi di “Lupin III”, molti cinefili adulti lo
hanno scoperto nelle sale in tempi più recenti, grazie a “La città incantata” o
“Il castello errante di Howl”: Hayao Miyazaki, classe 1941, è ormai celebrato
come uno dei grandi maestri del cinema d’animazione, ma continua a restare
testardamente fedele ai suoi metodi artigianali, rifiutando le scorciatoie
digitali all’interno del suo leggendario Studio Ghibli. Stavolta dicono che ha
rielaborato il mito della sirenetta rivolgendosi a un pubblico più infantile,
ma come sempre siamo davanti ad una complessità e a un fascino che non può essere
confinato a questioni d’età. Al centro della vicenda, una buffa creatura marina
dal viso umano e dal corpo di pesce, che un giorno viene salvata da un bambino,
si trasforma e stringe con lui un fortissimo rapporto affettivo. Intorno a lei,
un padre stizzoso che vive negli abissi marini, una Grande Madre delle acque
profonde, un universo umano costellato di vecchiette da ospizio: ma soprattutto
gigantesche onde marine, che aggrediscono furiosamente coste e scogliere,
minacciano le persone, trasmettono un senso potente ed ossessivo della natura
dentro e fuori di noi. Semplice all’apparenza, ma di grande finezza e
suggestione simbolica.
UP! (Usa, 2009) di Pete Docter e Bob Peterson – film d’animazione
Ormai è chiaro,
Hollywood procede da tempo su due binari distinti. Da una parte produce
blockbuster sempre più tediosi, che si rivolgono al grande pubblico con le loro
vicende action-fantasy ma risultano irrimediabilmente infantili. Dall’altra, ci
sono invece i film d’animazione tradizionalmente rivolti ai bambini, e che
invece sono diventati gli unici eredi dell’antico cinema hollywoodiano medio,
quello fatto dai produttori e capace di dosare alla perfezione spettacolo e
morale, risate e patetismi. Qui c’è un bambino che ha come idolo un
esploratore, cresce, s’innamora, si sposa, invecchia, resta solo: e un bel
giorno decolla con la sua casetta sollevata da centinaia di palloncini
colorati, dirigendosi verso quei luoghi mitici che ha sognato per tutta la vita
insieme alla sua compagna. Si ritroverà al fianco nell’impresa un ragazzino
ciccione in stile Giovani Marmotte e incontrerà animali di ogni tipo, rifilando
al pubblico le solite invettive da vecchietto arteriosclerotico, ma costruendo
un racconto a base di azione, sorprese, divertimento e purtroppo anche banalità
patetiche. Calibrato sui nonni al cinema coi nipotini, anche se avranno il
problema degli occhialoni per l’ormai stucchevole 3D.
DRAG ME TO HELL (Usa, 2009) di Sam Raimi, con Alison Lohmann
Dopo la trilogia di
“Spider-man”, Sam Raimi abbandona il blockbuster e torna alle origini: quella
del piccolo horror a basso costo, basato su un folle crescendo di effettacci e
di grottesco. Stavolta inserisce anche uno spunto molto più “politico” del
solito, perché la protagonista è una brava ragazza che lavora in banca e si
ritrova intrappolata in un mondo di rampanti cinici, di colleghi lecchini, di
superiori che le chiedono ferocia sul posto di lavoro e di suocere che
disprezzano le sue origini popolari. E così, quando una vecchia gitana va a
chiederle una proroga sul mutuo, lei fa la spietata e gliela nega: spera le
frutti una promozione, e invece si ritrova vittima di una terribile
maledizione, preda di un demone deciso a trascinarla all’inferno. L’apologo
morale su ipocrisie e sensi di colpa della rampantina contemporanea è però lo
spunto per mettere in moto il vorticoso spettacolone alla Raimi: dettagli
ripugnanti, vomiti e schizzi di sangue, insetti che s’infilano nel corpo della
protagonista, capre parlanti, disgusto e risate, perché nel regista della
“Casa” l’orrore si mescola sempre al comico. E dietro a tutto, una truce
rappresentazione dell’America d’oggi: cinema disinvolto e iperdinamico, ma con
una sua idea molto classica di ciò che deve essere un vero film di genere.
THE WRESTLER (Usa, 2008) di Darren Aronofsky, con Mickey Rourke,
Marisa Tomei
Lasciamo perdere i
soliti inni alla poesia del loser. La vicenda del lottatore stanco, ex-star dei
ring anni ’80 ridotto a scenari sempre più squallidi, con la carne ferita e
l’anima a pezzi, rifiutato dal mondo, immerso nella solitudine e nel
fallimento… tutte cose già raccontate tante volte, e spesso anche meglio: basti
pensare allo struggente Aldrich d’addio di “California Dolls”, uno che
l’estetismo degli Aronofsky se lo fa a fette. E lasciamo perdere pure gli elogi
per Mickey Rourke, il bello autodistruttivo dei patinati anni ’80 ridottosi a
freak dal volto tumefatto, dissipatosi in ruoli e film infimi come una parodia
cheap di Marlon Brando: dopo Venezia, anche questi sembrano ormai argomenti da
gossip. Lasciamo perdere tutto questo, e tutte le citazioni cristologiche, e
consegnamoci alle immagini: per capire come Randy “the Ram” una sua forza ce
l’abbia, eccome. Una forza che non passa attraverso il racconto e la
definizione tradizionale dei personaggi, ma sta stampata nell’urgenza delle
immagini, nell’impatto dei corpi, dei ritmi e delle luci. Un cinema
artificiosamente brutale, ma capace di colpire il cuore e lo stomaco dello
spettatore. Tra l’irruenza B e l’inganno arty, un personaggio che resta.
IL MIO VICINO TOTORO (Giappone, 1988) di Hayao Miyazaki – film d’animazione
Per la gioia di tutti i
fan dell’animazione giapponese, arriva finalmente in Italia questo piccolo film
che il grande Hayao Miyazaki realizzò oltre vent’anni fa ma che era sempre
rimasto inedito nelle nostre sale. Chi si aspetta un’opera ampia e complessa
come “La città incantata” o “Il castello errante di Howl” stia però attento a
non giudicare troppo frettolosamente: “Il mio vicino Totoro” è un film dalla
struttura molto più semplice e raccolta, ma dove la sensibilità del suo autore
è altrettanto presente e forse ancor più intensa. Al centro, due sorelline che
si recano a vivere col padre in una casa di campagna, mentre la mamma si trova
ricoverata in sanatorio. Appena giunte sul posto, le bambine avranno modo di
immergersi in una dolce sintonia con la natura, liberando la fantasia e
smarrendosi tra scenari campestri e creature mitologiche: dai ciuffi scuri dei
Susuwatari al gigante soffice Totoro, alla meraviglia del Gattobus capace di
attraversare a grandi balzi boschi, prati e colline. Gli stupori e le paure,
gli entusiasmi e le fantasie dell’infanzia raccontati con apparente semplicità
narrativa e visiva, frutto di una grande complessità: sembra confezionato su
misura per uno spettatore infantile, si rivolge a un pubblico senza età.
IL CATTIVO TENENTE – ULTIMA CHIAMATA NEW ORLEANS (Usa, 2009) di Werner
Herzog, con Nicolas Cage, Eva Mendes
Accoglienze contrastate
a Venezia per questo pseudo-remake del capolavoro di Abel Ferrara con Harvey
Keitel. Qualcuno lo ha accusato di essere un lavoro su commissione poco sentito
e scritto con mano televisiva, altri hanno invece elogiato il modo in cui
Herzog riesce ad imprimere un proprio stile e un proprio universo espressivo in
un cinema di genere che non gli appartiene. Di certo, si tratta di un film
originale e discontinuo. Nicolas Cage è un poliziotto di New Orleans uscito con
la schiena a pezzi dall’uragano Katrina: completamente dedito a droghe di ogni
tipo, indaga su una strage di afroamericani, ma gestisce un’idea di giustizia
tutta sua, s’impadronisce di ogni bustina di eroina, crack o coca che trova in
giro, si appiccica a qualunque collega possa procurargli droga sequestrata. Con
una spalla disassata, l’andatura claudicante, lo sguardo folle, è quasi una
marionetta espressionista in un mondo senza senso: e Herzog racconta il
convenzionale intreccio thrilling prendendo ostentatamente le distanze,
inserendo punti di vista eccentrici, iguane e coccodrilli. Il risultato è un
film brusco, narrativamente incoerente, ma con una sua libera e personalissima
energia espressiva: da vedere, insomma.
APPALOOSA (Usa, 2008) di Ed Harris, con Ed Harris, Viggo Mortensen,
Jeremy Irons, Renée Zellweger
Il remake di “Quel treno
per Yuma” era anonimo e inspido come un action qualsiasi? “L’assassinio di
Jesse James” con Brad Pitt ci parlava degli eroi delle praterie in modo troppo
snob e fighetto? Per tutti gli amanti del western classico, ecco arrivare
adesso Ed Harris a rimettere le cose a posto. Il suo “Appaloosa” racconta la
storia di due pistole in affitto del vecchio West, abituate a farsi ingaggiare
dagli abitanti di città turbolente per riportare l’ordine alla loro maniera:
una volta che diventa sceriffo di Appaloosa, però, il ruvido pistolero Ed
Harris non dovrà vedersela soltanto col cattivo Jeremy Irons e la sua banda di
bovari assassini, ma affrontare pure l’avventuriera Renée Zellweger e quel
desiderio di accasarsi che prima o poi cattura il cuore di qualsiasi westerner
solitario. Amicizia virile, tensione morale, dilemma tra wilderness e civiltà:
il romanzo originario di Robert B. Parker offre astutamente tutto o quasi il
repertorio del genere, che Harris porta sullo schermo con stile solido e
sobrio, capace di conquistare lo spettatore attraverso l’inesorabile pacatezza
della narrazione e dei personaggi. Probabilmente è solo l’imitazione di un bel
film, un po’ nella scia del Kevin Costner di “Terra di confine”: di questi
tempi basta e avanza.
FROST/NIXON – IL DUELLO (Usa, 2008) di Ron Howard, con Frank Langella,
Michael Sheen, Kevin Bacon
Da ragazzino ha fatto
l’attore con Minnelli, John Wayne o Don Siegel, poi ha esordito nella regia con
Roger Corman: e da molti anni, Ron Howard è ormai uno dei registi più classici
della Hollywood contemporanea. Classico per il modo in cui dirige gli attori,
si rapporta con storie e personaggi, costruisce le inquadrature con una
complessità nascosta dietro l’apparente naturalezza narrativa. Classico anche
per il modo in cui sa sempre mantenere una sua nitidezza di regia all’interno
di produzioni mainstream. Qui si confronta con temi ambiziosi, raccontando la
celebre intervista in cui un frivolo conduttore tv sfidò l’ex-presidente Nixon
per fargli confessare le sue colpe nel Watergate. Il racconto ripercorre gli
schemi di una pièce teatrale, ma sullo schermo vive come solidissimo cinema: ci
sono temi importanti, ci sono i meccanismi psicologici dello spettacolo e del
suo allestimento, c’è l’intuizione della nuova tv che supera l’antico giornalismo,
ma soprattutto ci sono veri personaggi e non semplici figurine storiche. Film
assolutamente tradizionale, ma solido, ben raccontato e ben recitato al di là
dei pregi un po’ scontati del testo. E col Nixon di superFrank Langella.
VINCERE (Italia, 2009) di Marco Bellocchio, con Giovanna Mezzogiorno,
Filippo Timi
In un cinema italiano troppo spesso
dominato da uno sguardo televisivo o da un approccio irrimediabilmente piccolo
e modesto, Marco Bellocchio si staglia da anni come uno dei pochissimi registi
in grado di imporre ancora un’idea di cinema forte e intellettualmente
complessa. In questo caso, rievoca il destino di Ida Dalser, la sposa segreta
di Mussolini, la donna che credette in lui fin dagli inizi e vendette tutti i
propri beni per sostenerlo: ma una volta divenuto Duce, Mussolini fece
internare lei e il loro figlio, fino a farli morire in manicomio, cancellarne
l’identità e la storia, farli seppellire in fosse comuni senza più nomi né
memoria. Non pensiate però all’ennesimo sceneggiato tv in libera uscita nelle
sale, perché Bellocchio parte dallo spunto storico per tornare sui suoi
tormentoni personali, sempre d’attualità nell’Italia di oggi: la famiglia e le
sue ipocrisie, il potere e la sua retorica, l’annientamento fisico e morale dell’individuo
all’ombra degli accordi tra chiesa e fascismi. Inizialmente un po’ freddo nella
sua analisi, poi con immagini sempre più intense: memorabili quelle di Giovanna
Mezzogiorno che tenta un’impossibile fuga arrampicandosi tra sbarre e griglie
del potere.
KILLSHOT (Usa, 2008) di John Madden, con Mickey Rourke, Diane Lane, Rosario
Dawson
Piccole sorprese d’estate.
Tra un film insignificante e l’altro, ecco uscire questo thriller che
originariamente aveva parecchie ambizioni, è prodotto dai fratelli Weinstein ed
è tratto da un bel romanzo noir di Elmore Leonard. Qualcosa non ha poi
funzionato, anche perché alla regia c’è il mediocre John Madden (“Shakespeare
in love”) e sullo schermo il racconto risulta terribilmente pasticciato. Ma al
centro di tutto c’è uno strepitoso Mickey Rourke, killer solitario di origine
pellerossa, viso tumefatto, modi taciturni, misteriosi e spietati: spara solo
quando è sicuro di uccidere e non permette che resti in vita nessuno che lo ha
visto in faccia. Per motivi che la sceneggiatura rende stiracchiati, fa coppia
con un giovane criminale insopportabile (un petulante Joseph Gordon-Levitt) e
insieme a lui perseguita una coppia di testimoni da eliminare, formata da Diane
Lane e Thomas Jane. La tendenza neo-noir di risolvere il racconto in una serie
di scene di forte impatto sfocia poi sullo schermo in un succedersi di segmenti
narrativi disordinatamente ammucchiati: ma con qualche bel momento, un pizzico
di tensione erotica attorno alla stagionata Diane Lane e un Mickey Rourke che
merita alla grande.
LA BATTAGLIA DEI TRE REGNI (Cina, 2009) di John Woo, con Tony Leung,
Takeshi Kaneshiro
Grandi battaglie, duelli
furibondi, violenza e amicizia virile, rapacità ed eroismo. Il regista di
“Face/Off” torna in Asia e realizza un kolossal ispirato a uno dei grandi poemi
epici cinesi, addirittura il film più costoso mai realizzato in Cina,
esplicitamente ispirato ai modelli hollywoodiani per puntare al mercato
internazionale. La vicenda è ambientata nel III secolo, quando la Cina è divisa
in tre grandi regioni e il condottiero del Nord muove alla conquista dei regni
del sud e dell’occidente, spingendoli così a coalizzarsi per resistere
all’enormità delle sue forze. In origine si trattava di un dittico da cinque
ore, mentre questa uscita da noi è la versione “international” dimezzata: dove
John Woo dispiega tutto il suo talento epico, presentando forse personaggi e
situazioni in modo schematico, ma immettendo in ogni scena un suo senso di
cinema vivo, pulsante ed energico. Da non confondere con operazioni banalmente
estetizzanti come quelle di Zhang Yimou (“Hero”) o Ang Lee (il sopravvalutato
“La tigre e il dragone”): questo sarà un kolossal un po’ prolisso e digitale,
ma è soprattutto un film vero. Ai cinesi John Woo, a noi il Barbarossa di
Martinelli: a ciascuno i suoi cantori.
DISTRICT 9 (Usa-Nuova Zelanda, 2009) di Neill Blomkamp, con Sharito
Copey
Li chiamano gamberoni, a
causa del loro aspetto fisico. Sono arrivati su un’astronave sopra il cielo di
Johannesburg, sono stati portati a terra e rinchiusi in un centro di prima
accoglienza aliena chiamato Disctrict 9, alla maniera dei vecchi ghetti
dell’apartheid sudafricano. Da allora si sono moltiplicati, diventando quasi
due milioni: rubano, frugano nella spazzatura, spaccano tutto, sono golosi di
cibo per gatti, sembrano irriducibili a qualsiasi principio di civiltà. Solo i
nigeriani si sono installati fra loro, gestendo traffici illeciti di scatolette
per gatti, armi o prostituzione. Finché il governo decide di spostarli in un
altro centro, anche perché interessato alle loro misteriose armi: e un
funzionario stupidotto finisce contagiato durante un’irruzione, ritrovandosi
così di colpo dall’altra parte della barricata. I temi in ballo sono evidenti
(caccia al diverso, occidente militarizzato ecc.), lo stile è purtroppo quello
atroce da mockumentary adottato dai registi indipendenti a corto di idee e
gonfi di cattiva tv. Ma l’insieme ha una sua vena anarcoide simpaticamente “B”,
ed è stato prodotto da Peter Jackson pensando forse ai suoi primi lavori.
Futuro cult da pubblico giovanile, c’è da giurarci.
GIU’ AL NORD (Francia, 2008) di Dany Boon, con Kad Merad, Dany Boon
Una delle commedie più
simpaticamente demenziali della stagione? Senz’altro questo bizzarro film
francese, dove un funzionario delle poste sogna il trasferimento in Costa
Azzurra e si ritrova invece destinato a un paesino vicino a Lille: giunto sul
posto pieno di pregiudizi sul clima, il cibo, le abitudini alcooliche e
l’ostilità caratteriale del profondo Nord, scoprirà a poco a poco i piaceri di
quella regressione a una sana vita provinciale d’altri tempi. Il tutto
raccontato come in un prodotto anni ’50, perché si tratta di una commedia
assolutamente convenzionale nella sua antica costruzione farsesca. Ma lo
spettatore avrà modo di precipitare insieme al protagonista in questo universo
a sé stante, con i suoi formaggi puzzolenti, i suoi cicchetti mattutini e le
bevute interminabili, i suoi popolani burberi e scontrosi. E soprattutto con un
linguaggio che i poveri doppiatori cercano disperatamente di tradurre in
qualche modo in italiano: si tratta del “ch’timi”, variante nordica del
francese tutta aspirate e distorsioni fonetiche. Occhio al regista, che è anche
attore: qui fa il postino ubriacone, in “Il mio migliore amico” faceva il
tassista al fianco di Daniel Auteuil.
CORALINE E LA PORTA MAGICA (Usa, 2009) di Henry Selick – film
d’animazione
Dal regista di
“Nightmare Before Christmas”, un altro film d’animazione costruito come
un’affascinante fiaba dark, rivolta in fondo più ad un pubblico adulto che
infantile. Protagonista, una ragazzina che vive in una vecchia villa coi suoi
genitori, si sente trascurata e varca così la soglia di una misteriosa
porticina, avventurandosi in un mondo parallelo: dove vivono i “doppi” dei suoi
genitori, molto più gentili e premurosi di quelli autentici, ma con gli occhi
sostituiti da monete che sanno tanto di funerea minaccia… La vicenda si ispira
ad un libro di Neil Gaiman, il viaggio di questa nuova Alice si snoda tra gli
inganni e le inquietudini di doppi e finzioni, e il film è realizzato in stop
motion con una cura minuziosa del dettaglio grafico. Non aspettatevi quel senso
avvolgente e poetico del racconto tipico di Tim Burton che rendeva “Nightmare
Before Christmas” un capolavoro unico, ma siamo comunque da quelle parti e il
risultato è un film raffinato e suggestivo, destinato ad un probabile futuro
cult. E per godervelo al meglio nella sua immagine smagliante, cercate la sala
in cui viene proiettato in tre dimensioni: non sarà indispensabile, ma è più
efficace.
IL NASTRO BIANCO (Austria, 2009) di Michael Haneke, con Christian
Friedel, Leonie Benesch
Dal regista di “Niente
da nascondere”, ecco il nuovo film che ha vinto la Palma d’oro a Cannes:
rigoroso, gelido, minuziosamente calcolato in ogni dettaglio come un teorema.
Stavolta siamo in un villaggio prussiano alla vigilia della prima guerra
mondiale, dove vige l’Ordine di una società chiusa e feroce: il Barone presiede
all’ordine sociale, il Pastore vigila sull’ipocrisia morale, il Dottore
esercita il suo potere sull’amante e sulla figlia, i bambini si aggirano
taciturni e minacciosi come i piccoli mostri del “Villaggio dei dannati”. E una
serie di violenze inesplicabili si manifestano improvvise in quel mondo soffocante,
anticipazioni enigmatiche (dice Haneke) dell’imminente futuro nazista. Tutto
raccontato secondo la tipica prospettiva del regista, con le sue inquadrature
frontali e distaccate, i suoi totali che vogliono sottolineare la distanza
dell’osservatore più che cogliere il mondo nella sua interezza: sempre
nell’ambito di una narrazione raggelata, dove sotto sotto viene esibito in ogni
scena il punto di vista problematico di chi filma sul set e di chi guarda in
sala. Cinema complesso, in un bianco e nero memore di Dreyer e di Bergman,
forse fin troppo programmatico.
CAPITALISM. A LOVE STORY (Usa, 2009) di Michael Moore – documentario
C’è una cittadina Usa dove anni fa decisero di privatizzare anche il carcere giovanile: da quel momento, i ragazzini venivano condannati a pene colossali per ridicole infrazioni, perché i giudici ricevevano tangenti per ogni prigioniero procacciato alla libera impresa carceraria. Ci sono piloti d’aerei che vengono pagati peggio che alla nuova Alitalia, e sono costretti a fare un doppio lavoro o a mangiare coi buoni per poveri. C’è uno del “Wall Street Journal” che ammette: “la democrazia americana è come due lupi e una pecora che decidono cosa mangiare per cena…”. E’ l’America creata da Reagan, dei tagli delle tasse per i ricchi, delle privatizzazioni e della deregolamentazione finanziaria, dei sindacati smantellati e della classe media sempre più indebitata. Il paese dove anche i laureati restano per decenni nelle grinfie delle banche che hanno finanziato i loro studi. Michael Moore ci racconta la follia neo-liberista (cioè l’Italia prossima ventura), mescolando la sua personalità debordante con la capacità di cogliere il dettaglio rivelatore, ma lasciando la sensazione che il suo linguaggio sia lo stesso della società che critica. Sempre travolgente, però: e con tanta fiducia in Obama come nuovo Roosevelt.
IL MIO AMICO ERIC (Gb, 2009) di Ken Loach, con Steve Evets, Eric
Cantona
Ken Loach combina le sue
due grandi passioni, il calcio e la politica, per regalarci un’ennesima favola
sociale realizzata alla sua maniera, con tanta vitalità e tanto humour, anche
se il livello resta quello di un’opera deliziosamente minore. Al centro, un
postino in crisi che si vede comparire al fianco, come un fantasma, nientemeno
che il suo idolo calcistico, Eric Cantona: sarà proprio il corpulento giocatore
francese a guidarlo tra le mille difficoltà quotidiane, consigliandogli come
comportarsi nella vita pubblica e privata. I flashback calcistici in cui si
rivedono alcuni dei gol più famosi di Cantona (co-produttore) sono spesso
impacciati per il modo in cui vengono inseriti. Ma l’insieme è una commedia
proletaria piena di vita, di umanità e di ironia che si pone sulla scia dei
vari “Riff Raff” o “Piovono pietre”. Con tanto di lezioncina finale in cui
l’importanza della lotta di classe assume i toni provocatori di una trasferta
di tifosi. E con una battuta memorabile: “i parcheggi non mentono!”, esclama un
vecchio tifoso, alludendo ai macchinoni parcheggiati allo stadio mentre lui e
gli altri supporter proletari dello United sono costretti dai prezzi alti a seguire
la partita in tv.
A SERIOUS MAN (Usa, 2009) di Joel e Ethan Coen, con Michael Stuhlbarg
Il prologo è di quelli
memorabili. Una coppia di ebrei dell’800 riceve la visita inattesa di un
vecchio che potrebbe essere un dybbuk, cioè un morto vivente: e attraverso le
reazioni di ciascuno, la piccola e perfetta sequenza horror-yiddisch anticipa
esemplarmente i temi del film. La vicenda si svolge poi nel Midwest, dove un
professore di fisica si ritrova di colpo sommerso dai problemi: la moglie vuol
divorziare, uno studente cerca di corromperlo, i figli gli sfilano i soldi di
tasca, lo zio vive immerso in un suo mondo che si rivela poi fin troppo malato…
E ogni tentativo di trovare un senso all’accumulo quotidiano di disgrazie va a
scontrarsi nell’impossibilità di trovare risposte certe: i rabbini sono
elusivi, i segni di dio sono imperscrutabili, gigantesche lavagnate di calcoli
servono solo a dimostrare che non possiamo comprendere nulla di quanto accade.
Siamo nella scia di quanto i Coen ci avevano già raccontato con lo splatter di
“Non è un paese per vecchi” o la commedia grottesca di “Burn After Reading”:
solo che stavolta l’apologo passa attraverso una rilettura del libro di Giobbe e
una fittissima trama di riferimenti alla cultura ebraica. Tagliente, ma un po’
più ostico del solito. E con memorabili gag sugli studenti coreani…
NEMICO PUBBLICO N.1 (Francia, 2008) di Jean-François Richet, con
Vincent Cassel, Gerard Depardieu
Evviva, il noir francese
esiste ancora e ogni tanto torna a farsi vivo anche nelle nostre sale! La
critica parigina ovviamente lo tratta con distacco snobistico, preferendogli il
falso e bolso noir dei piccoli-autori-con-pretese, ma come per il dittico di Marchal
(“36 Quais des Orfevres”, “L’ultima missione”), siamo davanti alla versione
vera del genere: quella che punta sul racconto popolare e sulla forte presenza
fisica degli attori. In questo caso, si rievocano le gesta di Jacques Mesrine,
figlio di genitori tranquilli, addestrato ad uccidere durante la guerra
d’Algeria, incapace di tenere a freno la sua aggressività e i suoi istinti di
morte. Appena tornato a casa, preferisce la mala al lavoro sicuro, rapina e
uccide, si lega a frange di diversi influssi politici, scappa in Canada, viene
catturato ed evade. Il film parte benissimo attorno a personaggi ed atmosfere,
poi si limita a seguire l’incalzare dei fatti privilegiando l’avventura action
e lasciandoci sospesi in attesa della prossima puntata (attesa ad aprile), alla
maniera dei vecchi feuilleton. Cassel è perfetto con la sua torva ficisità,
Depardieu sordidamente splendido, e pazienza se siamo molto al di sotto del
noir sublime alla Melville: ce ne fossero.
RELIGIOLUS (Usa, 2008) di Larry
Charles, con Bill Maher (al City)
Dimenticate Michael
Moore, che al confronto è un autore raffinato e complesso. “Religiolous” è solo
un vorticoso pamphlet nello stile televisivo delle Iene o Striscia la notizia,
diretto dal regista di Borat e incentrato su un conduttore tv che va a
intervistare i più grotteschi esponenti religiosi: dal predicatore coperto
d’oro che sostiene l’amore di Gesù per il denaro, a un certo Miranda di
Portorico convinto di essere l’erede in linea diretta di Gesù Cristo. In questo
modo, l’obiettivo dichiarato (e sacrosanto) di smascherare la feroce follia del
potere religioso non viene nemmeno sfiorato, e al massimo viene fatta a pezzi
la religiosità regressiva dell’era Bush. Trionfano invece l’irrisione delle
sette cristiane, un violentissimo odio antislamico e soprattutto un cinema
sostanzialmente disonesto: per fare spettacolo, Maher va in cerca di personaggi
ridicoli, quando si trova in difficoltà impedisce loro di parlare, oppure
inserisce scritte per contraddirli o addirittura ricorre al montaggio per
delegittimarli. Tutto il repertorio della manipolazione tv più grossolana,
insomma. Con alcune battute divertenti, ma all’interno di un film dalla morale
cinematografica rozza e furbesca. Si ride spesso, credendo di pensare.
FROZEN RIVER. FIUME DI GHIACCIO (Usa, 2008) di Courtney Hunt, con Melissa
Leo, Misty Upham
Arriva coperto di premi
e nomination questo piccolo ma ambizioso film americano che rispecchia i soliti
pregi e difetti della produzione indipendente Usa. Al centro, un antico personaggio
femminile: quello di una donna logora e prematuramente invecchiata, che insieme
ai due figli cerca disperatamente di sopravvivere nel suo prefabbricato,
soffocata dai debiti, abbandonata dal marito che è andato a giocarsi ai tavoli
verdi i risparmi di famiglia. E quando incontra una giovane Mohawk che
trasporta immigrati clandestini lungo il confine canadese, la nostra Madre
Coraggio si getta a capofitto nel traffico illegale, fra notti thrilling lungo
il fiume ghiacciato e inevitabile solidarietà femminile. Personaggi e
ambientazione hanno una loro suggestione (c’è tanta neve…), il racconto procede
poi sul filo dell’ovvio, mettendo insieme lo scontato repertorio di donne
battagliere e padri assenti, buonismi patetici e simbolismi ostentati, fino ad
un neonato pakistano che torna in vita proprio nella notte di Natale grazie al
calore corporeo della giovane indiana. Cinema di buoni propositi: immancabile
Gran Premio al Sundance Film Festival, nomination all’Oscar per la
sceneggiatura e la protagonista Melissa Leo.
LOUISE – MICHEL (Francia, 2008) di Benoit Delépine
e Gustave de Kervern, con Yolande Moreau, Bouli Lanners
Il titolo rimanda alla
figura battagliera di Louise Michel, anarchica francese (1830-1905),
insegnante, libertaria e femminista, deportata in Nuova Caledonia dopo aver
combattuto per la Comune. A chi voleva sposarla, chiedeva in cambio di uccidere
l’imperatore. Ed è un po’ quello che succede in questo film francese, dove le
operaie di una fabbrica tornano un mattino al lavoro, scoprono che la proprietà
ha fatto sparire di notte tutti i macchinari e decidono di utilizzare la misera
liquidazione per uno scopo utile e nobile: ingaggiare un killer perché vada ad
uccidere il padrone. Inizia così il lungo viaggio nei meandri del potere e
della miseria da parte di una terrificante operaia della Picardia e del suo
compagno d’avventure, il killer pasticcione che viaggia con lei fino a
Bruxelles per scoprire come il cuore del potere sia sempre più inafferrabile.
Tutto raccontato con acre umorismo, inquadrature fisse, una mescolanza di
naturalismo sociale e di follia surreale che ci riporta alla tradizione belga,
da cui proviene buona parte degli attori. E’ un cinema libertario molto
costruito a tavolino e sostanzialmente mediocre, ma ricco di trovate estrose,
facce torve, atmosfere originalissime. Produce Mathieu Kassowitz.
PUCCINI E LA FANCIULLA (Italia,
2008) di Paolo Benvenuti, con Riccardo Moretti, Tania Squillario
Chi frequenta il cinema
italiano indipendente conosce bene Paolo Benvenuti, pisano, 63 anni, autore di
film realizzati al di fuori delle tradizionali strutture produttive e del
linguaggio del cinema spettacolare. Le sue immagini sono curatissime e
pittoriche, senza però cadere nell’estetismo fine a se stesso. E le vicende partono
da episodi storici dimenticati, portando alla luce feroci storie di potere,
senza però diventare mai pistolotti ideologici. In passato ha realizzato film
come “Confortorio”, “Gostanza da Libbiano” o “Segreti di stato”. Qui recupera
la storia di Doria, cameriera di casa Puccini a Torre del Lago, morta suicida
ad inizio ‘900: considerata l’amante del musicista, cacciata da casa con
ignominia, perseguitata e rinchiusa nella sua stanzetta da preti e familiari
fino alla morte, sarebbe stata in realtà solo la vittima di un diabolico
equivoco ma soprattutto di rapporti di classe che non le concedevano voce. Una
storia da melodramma, raccontata quasi senza dialoghi, con tanta musica
pucciniana e non, alla maniera di un film muto dell’epoca: un bell’esempio di
cinema deliberatamente marginale, con una sua fiera coerenza di linguaggio,
anche se per un pubblico preavvertito.
TONY MANERO (Cile, 2008) di Pablo Larrain, con Alfredo Castro, Paola
Lattus
Nel Cile anni ’70 di
Pinochet, un cinquantenne dai capelli tinti cerca in ogni maniera di
identificarsi col suo idolo da bassifondi Tony Manero: veste come lui, balla
come lui, guarda ogni giorno “La febbre del sabato sera”, cerca di
interpretarlo sul palcoscenico di uno squallidissimo bar di quartiere, partecipa
a una gara di sosia in televisione. Non pensa ad altro, non desidera altro, non
vede niente di ciò che lo circonda. Fino ad uccidere persone inermi con
l’indifferenza di un serial killer, pur di ottenere brandelli del suo
desiderio. Vincitore del festival di Torino, “Tony Manero” è un crudo apologo
non solo sul Cile della ditturatura o sull’America Latina, ma sui rapporti tra
la periferia e l’impero che ne ha colonizzato l’immaginario, e più in generale
su un mondo senza identità. Il moralismo sarà un po’ facile, così come la
scelta di cercare programmaticamente la sgradevolezza-con-ambizioni di riprese
traballanti, inquadrature simbolicamente fuori fuoco, interni squallidi,
violenze ed amplessi di degradata indifferenza. Eppure il personaggio ha una
sua forza d’impatto, così come l’ambiente in cui si muove: film ostico, ma a
suo modo intenso, fisicamente immerso in un degrado che non è solo ideologico.
BAARIA (Italia, 2009) di Giuseppe Tornatore, con Francesco Scianna,
Margareth Madé
Lo hanno etichettato
“Nuovo Cinema Bagheria”, e non hanno tutti i torti. L’ultimo film di Tornatore
è una cavalcata di oltre due ore e mezza attraverso settant’anni di vita in una
cittadina siciliana, dove la Storia si mescola alla memoria personale del
regista, a furbe citazioni dei suoi film, all’ambizione epica di un cinema
“girato alla grande” che riesce a concretizzarsi solo nell’affollarsi di
piccoli aneddoti bozzettistici. Si va dalle violenze anni Trenta del fascismo a
quelle di mafia e speculazioni che hanno definitivamente violentato un
territorio, si mostrano sullo schermo famiglie comuniste e bandiere rosse, ma
la sensazione è che tutto resti un semplice pretesto retorico. A volte il
meccanismo funziona: come nel finale, o in Portella della Ginestra raccontata attraverso
la gag di due militanti che acquistano un’intera scatola di bottoni neri da
lutto. Nell’insieme, però, “Baaria” non
riesce ad avere la forza narrativa interna che deriva da personaggi e
drammaturgia, per risolversi invece nel dispiegamento scenografico
dell’affresco. Sempre sull’orlo della magniloquenza pomposa e descrittiva, ma
con un piacere e un talento di cinema terribilmente rari nel panorama italiano.
LEBANON (Israele, 2009) di Maoz Shmulik, con Oshri Cohen
A chi interessa sapere
se un film si schiera retoricamente contro la guerra? Non è molto più
importante sapere se un film sta o no dalla parte del cinema? Questo “Lebanon”
che ha vinto il Leone d’oro a Venezia, in realtà, non è né pro né contro la
guerra, né pro né contro il cinema. Racconta il punto di vista di quattro
ragazzi israeliani che si ritrovano strappati alle loro vite di normali
cittadini e gettati dentro un carro armato nell’invasione del Libano (1982): e
quando il loro reparto resta isolato tra milizie nemiche, quella scatoletta di
ferro diventa il loro incubo, in un crescendo di caldo, di puzza, di violenze e
di paure davanti ad una situazione di cui s’è perso ogni controllo. Con la sua
claustrofobia ossessiva, il filone bellico da carro armato (stile “Belva di
guerra”, sui sovietici in Afghanistan) è ideale per rappresentare l’ottica
isolazionista e bellicista in cui si è sempre più rinchiusa Israele. Il
risultato ha una sua indubbia forza drammatica, ma entro coordinate
assolutamente tradizionali e prevedibili. Niente a che vedere insomma col genio
di un “The Hurt Locker” della Bigelow: questo è un piccolo cinema educato, ben
fatto, attento a piacere senza disturbare. Cinema da premi…
LASCIAMI ENTRARE (Svezia, 2008) di Thomas Alfredson, con Kare
Hedebrant, Lina Leandersson
Notte nera. Neve bianca.
Sangue rosso. Dopo “Twilight” arriva un altro film che reinventa in termini
adolescenziali la classica figura del vampiro, ma lo fa con ambizioni molto
maggiori e concentrandosi soprattutto su una classica storia di formazione. Al
centro, un bambino solitario che vive in un casermone Ikea alla periferia di
Stoccolma e una sera conosce la dodicenne della porta accanto, cominciando con
lei una strana e tenera storia d’amicizia: solo che la ragazzina è in realtà un
vampiro imprigionato da secoli in un corpo sessualmente ambiguo, e la gente dei
dintorni comincia a ritrovarsi assalita, uccisa o appesa a testa in giù ai
bordi delle strade per essere dissanguata come una bestia al macello. Non
pensiate però all’ennesima variazione su stereotipi horror. Tratto dal
bestseller di John Ajvide Lindqvist, “Lasciami entrare” è un film che punta
soprattutto su tematiche adulte e atmosfere struggenti costellate da tocchi di
cruda violenza, sicuramente ricco di sfumature ma anche molto compiaciuto nella
scelta di risolvere il racconto in una serie di eleganti immagini da
storyboard. Al tempo stesso suggestivo e artificioso: probabile un piccolo
futuro cult.
WALL – E (Usa, 2008) di Andrew Stanton – film d’animazione
Per tutta la famiglia,
ecco uno dei film d’animazione che hanno ottenuto maggiori consensi durante la
stagione appena terminata. E se titoli come “Ratatouille” ci ricordano come il
cartoon stia diventando l’erede più brillante della commedia hollywoodiana
classica, “Wall-E” ci riporta invece alla linea “poetica” che ha cominciato ad
imporsi dagli anni ‘60. Al centro, un vecchio robottino arrugginito che
continua a lavorare imperterrito in una gigantesca discarica, su un pianeta
terra ormai deserto, catalogando migliaia di oggetti desueti trovati nella
spazzatura, con l’unica compagnia di uno scarafaggio: finché vede arrivare un
altro robot dallo spazio, lo segue nella sua astronave e scopre il luogo in cui
l’umanità si è rifugiata da secoli nell’attesa di tornare sulla terra. Per
quasi un’ora, tutto si svolge praticamente senza parole, sviluppando il
racconto tra le macerie solo sulla base di immagini, suoni, gesti e una
straordinaria capacità espressiva del disegno e dell’animazione. E’ un ottimo
esempio di un cartoon-con-ambizioni, anche se esige uno spettatore complice,
disposto a entusiasmarsi per un incanto lirico appiattito sull’idea di poesia
che può avere un pubblicitario. Dalla Pixar.
STATE OF PLAY (Usa, 2009) di Kevin McDonald, con Russell Crowe, Ben
Affleck, Helen Mirren (all’America, Cineplex, Uci Fiumara)
Finalmente un esempio di
quel cinema medio hollywoodiano che a volte sembra quasi scomparso, sepolto
dalla noia dei blockbuster fumettari o dalla banalità pretenziosa degli
indipendenti da Sundance. Qui siamo nell’ambito del thriller paranoico di gusto
anni ’70, in un concentrato di stereotipi brillanti e di temi scottanti che
riescono a formare sullo schermo quel che si dice un buon intrattenimento
“adulto”. Russell Crowe fa il reporter vissuto e trasandato, con una bella
panza da bevitore, abiti stazzonati, capelli lunghi, e insomma tutte quelle
cose che rendono bene l’integrità morale e la combattività irriducibile degli
eroi americani d’altri tempi. Indagando sulla morte della giovane amante di un
politico, scoprirà campagne di disinformazione, complotti e omicidi legati al
grande business dell’ennesima privatizzazione criminale, riguardante stavolta
la sicurezza nazionale interna. L’argomento è attuale, buoni e cattivi si
comportano come da copione, l’eroe all’antica viene affiancato dalla collega
della disprezzatissima versione “on line” del giornale: tanti colpi di scena
nella sceneggiatura, nessuna sorpresa nella formula, ma un film che funziona.
Può bastare.
MILK (Usa, 2008) di Gus Van Sant, con Sean Penn, Josh Brolin
La vita, le battaglie
politiche e la morte di Harvey Milk, consigliere comunale della San Francisco
anni ’70, primo politico americano apertamente omosessuale ad aver ricoperto
una carica istituzionale, assassinato nel 1978 per mano di un collega
reazionario e omofobo. La sua figura è da tempo un’icona del mondo gay, il film
è stato prodotto e presentato in occasione del trentesimo anniversario della
sua uccisione, e tutto congiura insomma per affibbiare a “Milk” le stigmate del
prodotto celebrativo ufficiale: tanto più che Gus Van Sant lo dirige
rinunciando alle abituali rotture di taglio sperimentale, per adottare invece
un linguaggio molto più tradizionale, da produzione mainstream di sobria
efficacia e di accattivante fluidità narrativa. Il risultato è un film di buon
impatto nel perorare la causa dei diritti civili e dei ragazzi smarriti tipici
del regista, condito da qualche vezzo di regia (un’intera sequenza raccontata
attraverso i riflessi su un fischietto) e dall’insistenza sul rapporto tra
invisibilità e ribalta, teatralità e politica in una cultura fondata
sull’immagine. Otto nomination, compresa quella per Sean Penn che sfoggia la
calcolata superinterpretazione da Oscar, mossette incluse.