Il seguente saggio faceva da prefazione a una piccola scelta di scritti di Fénéon (curata da G. Zuccarino) pubblicata a Genova nel 1993 (Graphos).

Carlo Romano

Félix Fénéon

Il nome di Félix Fénéon è talmente legato agli anni del post-impressionismo e del simbolismo da credere che egli sia morto con essi. Vero è che a un certo punto della sua vita smise di scrivere, ma negli anni del Front Populaire era ancora lì ad innalzare sul tetto di casa la bandiera della rivoluzione sociale: morirà nel 1944.

Punto di riferimento imprescindibile negli anni cosiddetti della Belle Epoque, in qualità peraltro di segretario di redazione di una rivista potente come "La Revue Blanche", la sua opera venne tenuta a lungo in quelle soffitte polverose dove si riponevano le affiches di Mucha e le seggiole di Vienna. André Breton confesserà, ad esempio, di non averlo saputo avvicinare nel modo giusto quando era possibile e si rammaricherà del fatto che fosse ormai troppo tardi. Lo raccontò in una lettera a Jean Paulhan dopo che questi aveva pubblicato, nel 1948, la raccolta di scritti di Féneon che finalmente gli avrebbe reso giustizia.

Breton si spingeva fra l'altro a dire che Fénéon era il solo ad aver capito tutto quel che c'era da capire nella pittura.

Un giudizio così definitivo ed esaltante non corrispondeva ovviamente alle inclinazioni di una critica d'arte sensibile al richiamo dell'immortalità e Roberto Longhi, sul primo fascicolo di "Paragone", nel 1950, per dirne bene doveva far delle riserve. Una riguardava i modi dello stile, ritenuti pedissequamente mallarmeani.

Per parte sua Longhi avrà anche meritato la fama di grande stilista e non vogliamo insinuare alcun dubbio sulle vantate capacità di connaisseur, ma sono queste che probabilmente gli giocarono, almeno nel caso preciso, un brutto tiro. È noto che il genere di professionisti occupati nel cercare di riconoscere la qualità e il talento nelle opere di pittura tende a teorizzare, fra pose e collere dalle quali è implicito presumere la spirituale aristocrazia d'appartenenza, la pertinenza dei propri occhi.

Sarà andata così: Longhi sa che Mallarmé scrive in francese, il colpo d'occhio gli rivela che Fénéon fa altrettanto e scatta l'attribuzione. Disgrazia vuole che per gli scrittori simbolisti sia stata accertata una predominanza dell'orecchio.

Abbiamo inoltre il dovere di segnalare al lettore che fra i testi di Fénéon sui quali Longhi aveva posto il suo elegantissimo sguardo uno non era probabilmente autentico (bensì di Édouard Dujardin).

Per noi adesso è pura divagazione filologica. Ciò che si è pensato di Fénéon a ridosso della pubblicazione degli scritti curati da Paulhan è secondario, nel frattempo il personaggio è cresciuto. Per gli storici dell'arte e della letteratura moderne e contemporanee -a cominciare da John Rewald, autore di una fondamentale storia del post-impressionismo, il quale già nel 1947 aveva tracciato un ritratto di Fénéon sulla "Gazette des Beaux-Arts" - la sua importanza è fuori discussione, anche se la sua presenza nelle storie rasenta frequentemente la maniera superficiale.

Fuori della collocazione epocale Fénéon non gode del resto di una vera bibliografia.

Dopo la raccolta di Paulhan se n'è avuta un'altra con delle significative integrazioni. Venne pubblicata a Ginevra con un titolo assai spiritoso: Oeuvres plus que complètes. La curatrice era una studiosa americana, Joan Ungersma Halperin, la quale cominciò ad occuparsene grazie ad una borsa di studio dell'Università di Califomia (Berkeley) concessa nel 1961. È alla Halperin che si deve per di più l'unico libro biografico su Fénéon, Félix Fénéon. Aesthete & Anarchist in Fin-desiècle Paris, pubblicato a Yale nel 1988. Non si tratta comunque di una biografia in senso stretto, bensì di un saggio storico-estetico a sfondo biografico al quale va riconosciuta la consistenza di un approccio indubbiamente indovinato. È quello che in ogni caso riesce a stabilire la distribuzione più equa dei temi féneoniani, così da costituire una realtà testuale che la pura e semplice esegesi degli scritti lascia a malapena intuire, soggetti come sono all'invecchiamento delle teorie, scientifiche o meno che siano. Chiedere di dar ragione della plausibilità di queste a questi scritti (come pretendeva Longhi) è umiliarne lo stile, tracannarlo brutalmente come l'alcolista che più non sa se quel che cola è alcol industriale o acquavite.

Grande amico di Laforgue e Signac - dei quali ha scritto - e frequentatore del "circolo del martedì" chez Mallarné - sul quale ha lasciato poche righe - Fénéon si accompagnava altresì col giovane Émile Henry, il disgraziato attentatore anarchico del Café Terminus che giustificò il suo gesto indiscriminatamente assassino - costò un morto e venti feriti - dicendo che non c'è nessuno ad essere innocente.

Anarchico lui stesso, Fénéon era un assertore della "propaganda dei fatti". Sosteneva che gli attentati avevano giovato alla propaganda anarchica più che vent'anni di brochures alla Bakunin e Kropotkin. La Halperin pensa di poter collocare con una certa sicurezza lo stesso Fénéon fra gli attentatori. Si tratterebbe di una bomba, esplosa senza far troppi danni, depositata sulla finestra di un ristorante "borghese", dove peraltro stava cenando Laurent Tailhade, poeta vicino agli anarchici. L'avrebbe confessato Fénéon alla moglie di Alexandre Cohen, un altro compagno dell'anarchia il quale, all'epoca dell'attentato di Vaillant alla camera dei deputati, venne arrestato e successivamente espulso dalla Francia come indesiderabile, annuncio di quelle leggi speciali che spinsero altri all'emigrazione. Fra questi il fondatore delle prime unioni operaie e teorico del "sabotaggio" Émile Pouget, che da Londra avrebbe continuato a dirigere "Le Père Peinard", la rivista - compilata ai limiti dell'argot - alla quale Fénéon doveva consegnare alcuni dei suoi ultimi scritti d'arte -recanti fra l'altro l'invito ad immergersi in quell'esposizione en plein air "disp6nibile tutto l'anno e della durata d'un passeggio" costituita dalle aftiches murali.

Detto questo, riconoscere semplicemente la scrittura di Fénéon in accordo col dominio simbolista e il magistero di Mallarmé è limitarne, più che la portata, l'uso al solo feudo di una moda sulla quale sempre altri eserciteranno la vera autorità. D'altra parte cercarvi l'incarnato delle idee, la loro concreta manifestazione, non è meno limitativo, semmai più arduo - tanto più che l'anarchia era fra i letterati del tempo qualcosa cui si indirizzavano tante simpatie da risultar essa stessa una moda, quando non fosse beninteso autentica militanza: vada dunque si per Fénéon, ma anche per Signac, Mirbean, Pissarro, Lazare, ecc. ecc. Disgrazia vuole del resto che la critica letteraria abbia consentito di attribuire la "scrittura anarchica" alla "camicia bruna" Céline (così addobbato nel bel pamphlet di Kaminski) e non all'amico di Émile Henry.

Sarà bene aggiungere qualche parola al proposito. Gli anarchici nella stragrande maggioranza si ribellarono all'attentato del Terminus e condannarono la sciagurata giustificazione del suo autore. Essa trasmette in effetti estremisticamente un senso cristiano che sembra svalutare l'esistente. Non è l'annientamento nella beatitudine, ma in qualcosa o qualcuno, in questo o quell'altro mondo, che sa cosa fare della nostra vita quando noi non lo sappiamo più o non lo sappiamo ancora.

"Svanimento", direbbe Junger.

Indifferente a questo rovesciarsi dell'anarchia nel suo contrario, Fénéon approvò Henry e in questo agì probabilmente una componente sentimentale - il povero ragazzo perfino artisticamente dotato che ha messo sopra di tutto, vita compresa, la causa dei lavoratori -che nulla toglie alla gagliarda compromissione massimalista. Di essa è per l'appunto un problema trovare qualche traccia veramente consistente nell'opera firmata. Diverso è il caso delle numerose collaborazioni anonime che la Halperin ha avuto il merito di raccogliere fino a quasi raddoppiare il volume di Paulhan. Non di pagine teoriche tuttavia si tratta, ma di scritti d'occasione fortemente marcati da un'ironia tanto garbata da scoraggiare coloro che amano il turpiloquio e contano il numero di volte che la merda è menzionata per poter dare un giudizio sulla forza trasgressiva di un testo.

La prova più consistente della sua capacità di rendere penetrante e pungente la buona educazione, Fénéon la darà qualche anno dopo coi suoi ultimi scritti, le Nouvelles en trois lignes che si mise a redigere per un quotidiano nel 1906.

Nel 1894 il celebre "processo dei trenta" si può dire che troncasse la progressione della "propaganda .dei fatti". Anche Fénéon venne coinvolto ed incarcerato per il tempo del processo. Il suo arresto suscitò grande scalpore poiché allora Fénéon era impiegato al Ministero della Guerra. L'indomani della sua liberazione disse, ai giornalisti che lo intervistavano, che non credeva i suoi dirigenti felici di riaccoglierlo e si sarebbe dunque recato in Giappone - una battuta che tradiva il suo contagio nella moda per quel paese lontano così diffusa fra le persone di buon gusto dell'epoca.

Ovviamente non vi andò, viceversa dovette pensare ad una nuova occupazione.

Come abbiamo già detto entrò a far parte dello staff della "Revue Bianche" - dove ospitò fra gli altri Gide, Debussy, Wilde, Jarry, Péguy, Apollinaire - fino alla chiusura nel 1903. Dopo di allora collaborò al "Figaro" e al "Matin", per il quale creò, appunto, le Nouvelles en trois lignes. Esse traggono origine dai fatti della cronaca, nera perlopiù, e in un breve giro di parole, fedelmente non meno che efficacemente, li raccontano:

-200 operai resinieri di Mimizan (Landes) sono in sciopero. Tre brigate di gendarmi e 100 fanti del 340 li osservano.

-All'arrivo a Marsiglia dell'espresso da Parigi, è stato arrestato il fuochista, uomo funesto ai pacchi postali.

-È Teton, la vittima del delitto di Montfermeil. Non lo si era riconosciuto subito perché gli marcava la parrucca.

-Il fiammifero di un fumatore ha dato fuoco alle lande di Kervallon (Finistère); una polveriera ha rischiato di saltare.

Voler trovare in queste composizioni un raccordo con le Chansons Bas di Mallarmé, magari con le poesie in una riga di Bijusov o chissà che altro è perfettamente inutile. Diverse sono le motivazioni, la tecnica, i risultati. Altrettanto inutile è dar loro una collocazione - per quanto Apollinaire vi abbia visto un anticipo del Futurismo - fra le premesse di un'avanguardia che avrebbe abusato degli spiazzamenti cari a Lautréamont, pur se l'umorismo sembri effettivamente sgorgare dalla stessa fonte - comunque non necessariamente fragoroso, spesso lento e addirittura poco evidente. Fénéon lo si potrebbe anche includere nel novero degli scrittori "realisti", salvo poi verificare in lui un senso diverso delle potenzialità del realismo. "Surrealismo" verrebbe da dire, un po' contraddicendoci, ma Fénéon è innanzitutto uno scrittore "originale", ammesso che questo voglia dire qualcosa. Con le Nouvelles en trois lignes questo "scrittore originale" ha in qualche modo denudato il suo stile, rivelandoci una chiave interpretativa dell'intera opera.

Prendiamo uno dei primi testi di Fénéon, il primo che pubblichiamo nella nostra raccolta, L'impressionismo alle Tuileries. Quello che c'è nelle prime venti righe del primo capitolo, oltre a dire tutto quello che si dirà in seguito del movimento pittorico, colpisce per il rapido fraseggio che ad ogni interpunzione inserisce la descrizione di una tecnica pittorica in modo che alla fine, pur avendo di fatto letto una semplice elencazione, l'abbiamo percepita come il racconto di una scoperta. Quando subito dopo entra in scena la Grande Jatte di Seurat scopriamo, come forse scopriva Fénéon, la possibilità di narrare gli elementi costitutivi di un quadro con brevi, icastiche notazioni. Critico "in tre righe" perché ogni tre righe critico, Fénéon poteva dedicare qualche pagina a un soggetto, ma tre righe rendevano la densità del tutto.

Pittori? Scrittori? Fénéon, amabile, li racconta.

Ci sono biografi, si sa, che aspirano a scoprire dei cammei, altri che vogliono la biografia onesta; ci son quelli dell'ambiguità e quelli cui ripugna l'ordinario. C'è pure lo sfacciato: "Egli restituì la letteratura alla vita, io mi sono sforzato di restituire la vita alla letteratura". È Miller su Rimbaud.

Fénéon è altro.

Le righe che dedica ai pittori ed ai poeti, all'arte ed agli artisti, sono in una cosa diverse da quelle della cronaca "in tre righe". Dove in queste c'è ironia nelle altre c'è devozione.

Agli anarchici che gli chiedevano di scrivere sul loro pensiero, di non dedicarsi a temi fuorvianti ma alla vita nei suoi lati anche sordidi, Fénéon rispondeva che l'arte, qualsiasi cosa dica, è sempre anarchica. È un'idea che Wilde sosteneva con più toccante disperazione, ma non possiamo incolpare Fénéon del suo candore. Non ci fosse, sarebbe certo più facile dire, con Breton, che aveva capito tutto.

 

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