faldone Berti
Giampietro Berti: LIBERTÀ SENZA
RIVOLUZIONE. L’anarchismo fra la sconfitta del comunismo e la vittoria del
capitalismo. Piero Lacaita Editore, 2012
Wolf
Bruno
La sensazione che ho ricevuto cominciando la lettura di questo libro è stata quella di una “Bad Godesberg” (la rinuncia, nel congresso del 1959, ai consueti riferimenti ideologici marxisti negli statuti socialdemocratici tedeschi) dell’anarchismo storico. Questa impressione non si è dissolta andando avanti benché Berti prenda le mosse non già da quell’avvenimento lontano (al quale sarebbe seguita da lì a poco, nel 1960, la pubblicazione negli Stati Uniti del saggio su The End of Ideology di Daniel Bell) e dalla “guerra fredda” salti alla sua fine – col crollo dei regimi leninisti - come componente nodale del discorso. Fra l’altro se ne potrebbe facilmente dedurre che l’anarchismo storico altro non sia stato che un satellite, remoto o meno che fosse, di quel sole malato la cui piena irradiazione nel 1917 era stata preceduta dai lampi socialisti. Va riconosciuto a Berti di non far niente per scoraggiare questa deduzione che, viceversa, in qualche modo alimenta. La sua critica al rivoluzionarismo non lascia dubbi e, fra l’altro, la svolge con un incalzare analitico (nel senso preciso di “filosofia analitica”) che mi è parso costituire la parte più convincente del tomo.
Nell’essenziale la sua requisitoria è impiantata sulla separazione fra la “società aperta e i suoi nemici” il cui schema sovrappone a tutti gli eventi, i concetti, gli slanci che prende in esame, a cominciare dalla distinzione fra rivoluzione americana e rivoluzione francese, fra la " la “dichiarazione di indipendenza” e i “diritti dell’uomo”. Omette tuttavia di ricordare quanto affermava nel 1793 (tempo di Terrore) l’estensore della prima, Thomas Jefferson: “Piuttosto di vederla fallire (la rivoluzione in Francia) preferirei vedere desolata metà della terra”. D’altra parte tanto Berti è zelante nel denunciare i numerosi e raccapriccianti crimini dei regimi totalitari quanto è reticente nell’addebitare alla “società aperta” le guerre, i genocidi, i bombardamenti. Nella libera America il poeta obiettore di coscienza Robert Lowell fu incarcerato per aver osato denunciare quest'ultimi in una lettera al Presidente. Ricordo che Freeman Dyson, il fisico nucleare, si è paragonato a Eichmann e camerati vari poiché, entrato da civile nelle strutture militari che decidevano i bombardamenti sulla Germania nel corso della seconda guerra mondiale e avendo accesso ai dati tenuti segreti che li riguardavano, era rimasto come loro seduto a scrivere memorandum “e a calcolare come ammazzare esseri umani in maniera efficiente, proprio come me. La principale differenza era che loro furono poi incarcerati o impiccati come criminali di guerra, mentre io ero libero”. Del resto, se i nazisti separavano i vari componenti delle famiglie per avviarli ai lager, la stessa cosa era avvenuta ben prima nella patria del liberalismo e della rivoluzione industriale coi centri di correzione dove finivano internati vagabondi e disoccupati (strutture che, come è noto, il “radicale” Bentham vedeva perfezionate nel “panopticon”). Tutto ciò sarà da imputare, immagino, al “legno storto dell’umanità” e non alla “società aperta” la quale consegue, stando a quel che si racconta, le correzioni necessarie, perlomeno sul piano sociale e politico anche se, taumaturgica qual è, qualche possibilità potrebbe offrirla, non si sa mai, ai molestatori, agli uxoricidi, ai prepotenti, ai malvagi, a chi incula i figli e, chissà, anche agli storpi e ai poveri di spirito dei quali fino adesso sembra essersi occupato solo Gesù Cristo.
Per sua fortuna – o per scelta dei suoi partigiani – aperta lo è anche la struttura dell’anarchismo, quindi non tutto sarebbe perduto, malgrado quel che grava sulla sua storia. Berti traccia una mappa concettuale critica e accurata degli anarchici di oggi e, piegandosi per un momento all'hegelismo, ne ipotizza il superamento strizzando perfino l'occhio all' “individualismo metodologico" del libertarismo proprietario che, proprio perché "metodologico" è del tutto fantasioso, "come se", come se la proprietà non implicasse la presenza degli altri in quanto esclusi, come se nel mercanteggiarla non si dovesse essere almeno in due (per giunta, in certi antichi commerci, addirittura in due avvinghiati). Chi trascura di riunire ai nemici dello stato è invece Marx il quale, a suo parere, avrebbe come idea di libertà solamente quella dal bisogno. Ciò nonostante con Marx Berti si impegna a lungo, come se innanzitutto con lui dovesse regolare i conti. Per certuni ciò corrisponde a una sorta di tema di vita, a un fatto puramente esistenziale, come per liberarsi da un ingombro mentale pesante e ricorrente. Riesce difficile a costoro guardare all'opera di Marx come a un imponente tentativo, riuscito o meno che sia, di spiegare i vincoli e i conflitti sociali e non hanno misura alternativa a quella di appiattirla, con un miscuglio di pregiudizio e soggezione, sul marxismo, in specie su quello moscovita. Evitano in genere di riflettere poi su quanto questa versione del marxismo, a parte la cornice lessicale, debba al populismo e a Bakunin, del quale citano (a discarico?) la solita e puntualmente verificatasi profezia (un dispotismo “sotto il comando degli ingegneri di stato che formeranno una nuova casta privilegiata”), ma è un vero peccato che Marx, prima ancora, avesse espresso le stesse preoccupazioni nei confronti di Bakunin (“la cui unità di pensiero e azione non significa altro che ortodossia e cieca obbedienza” col desiderio di fare dell'Internazionale “uno stato maggiore formato da una minoranza” per organizzare ovunque “la ricostituzione di tutti gli elementi dello stato autoritario col nome di comuni rivoluzionarie”). Lasciamo perdere la marxologia, un genere letterario che del resto mai ha eguagliato l'originale, nemmeno nell'invettiva (e farebbe bene a tanta gente leggere l'opera di Marx come una grande ed emozionante opera di letteratura). Di Berti è da mettere in evidenza piuttosto il coraggioso sforzo per delineare un anarchismo meno eroico e passionale ma più stretto alla vita ordinaria, per quanto alla fine ci si interroghi su cosa rimarrebbe degli anarchici una volta che non fossero oggetto di calorose attenzioni sentimentali.
Luigi
Corvaglia
(Per farla finita con l'anarchismo agostiniano) Liberi. Si, i degenti dell’ospedale di "Qualcuno voló sul nido del cuculo" erano liberi di andarsene. Quando McMurphy, il personaggio interpretato da Jack Nicholson, scoprí che la maggior parte dei degenti era in regime di ricovero volontario, ma non lasciava l'istituzione, comprese la lezione di Etienne de La Boétie: gli uomini si sottopongono volontariamente al potere. Jean-Paul Sartre e Albert Camus lo avevano detto che, pur in una istituzione diluita quale é la nostra società, gli uomini sono sempre liberi. Se così non fosse, nota Nico Berti nel suo ultimo libro (Libertà senza rivoluzione. L’anarchismo fra la sconfitta del comunismo e la vittoria del capitalismo, Lacaita, Manduria), se insomma “gli uomini non fossero radicalmente liberi - cioé liberi alla radice - ogni idea di emancipazione umana sarebbe una semplice assurdità e l'anarchia, naturalmente, sarebbe la massima assurdità possibile e immaginabile". Non é un caso che al battesimo della modernità un campione della reazione quale fu de Maistre si scagliasse proprio contro "la pazza asserzione: l'uomo é nato libero!". E’ infatti questa idea, espressione di ciò che Max Weber definì il “disincanto”, a fondare il concetto di responsabilità individuale. Il lavoro di Berti parte appunto da questo presupposto per arrivare a cantare il requiem per la prospettiva rivoluzionaria quale mezzo per l’emancipazione umana. Le masse, infatti, non sono rivoluzionarie, perché hanno liberamente scelto di non esserlo. “Chi da, allora, il diritto ai rivoluzionari di insorgere contro il volere della maggioranza delle persone?” Nessuno. Certo, qualcuno, come fece Giovanna D'Arco con la voce di Dio, può sempre ascoltare la Storia che gli sussurra nell’orecchio, perché “ogni pensare rivoluzionario è un pensare storicistico”, quindi una forma di costruttivismo utopico che è incarnazione di un’anima totalitaria. Il problema, infatti, non è il metodo. Il problema è la forma della “società futura”. Se, infatti, si vagheggia una società nuova che universalizzi il bene supremo della libertà e si strutturi staticamente come luogo senza frizioni, é evidente che ci troviamo nell’ambito della prescrittività tipica della concezione democratico-giacobina. Questa si svolge sotto l’angosciante ombra di quella libertà positiva tesa alla realizzazione della pienezza delle potenzialità umane. E’, in fondo, la secolarizzazione della tesi teologica di Agostino per cui l’uomo diviene veramente libero quando riesce a volere solo il Bene. Ma, come scriveva Berdjaev: “Ogni confusione e identificazione della libertà con il bene stesso e la perfezione equivale a negare la libertà, a riconoscere la via della violenza e della costrizione”.
Anni fa, Thomas Ibanez aveva descritto un simile cortocircuito logico. “Volendo essere una teoria centrata sulla libertà – aveva scritto Ibanez - , l’anarchismo apre su una cultura che esige l’adesione di ognuno per poter esistere e che contesta la legittimità di tutto ciò che non è sé stessa”. L’anarchismo, in altre parole, sembra negare se stesso ed esitare in una cultura totalitaria. Vero, ma ad una condizione: che lo si faccia coincidere proprio con questa reductio ad unum, cioè con un progetto che, in nome del Bene, finisce col sacrificare il molteplice (cioè tutti gli spazi di libertas minor, come direbbe Agostino) al singolare (libertas maior). Monoteismo etico. Per molto tempo la libertas maior degli anarchici è stata il socialismo, nelle sue varie declinazioni. Il dilemma di Ibanez, altrimenti irrisolvibile, appare però illusorio se sostituiamo alla collettiva libertà democratica l’individuale autodeterminazione liberale. Immaginiamo una società che ricerchi solo la mancanza di costrizione, che risponda, cioè, ai criteri per la “società aperta” come descritta da Popper. Questa prevede una inversione di quello che Rawls definirebbe l’”ordine lessicale”, cioè la subordinazione dell’anticapitalismo ad un principio guida, la libertà. Che in tal caso sia facile uscire fuori dal paradosso di Ibanez lo dimostra chiaramente lo stesso Berti quando, a pag. 229, risponde ai critici della cultura liberale entro la quale egli ritiene si debba partire per attualizzare l’anarchismo. Per i detrattori del liberalismo anche questo è una forma di pensiero unico che finisce per creare una sorta di totalitarismo. “Come dire: anche il liberalismo ha un fondo antiliberale”. Ora, quando anche si desse l’improbabile condizione di una completa comunione di vedute, ciò non comporterebbe alcun totalitarismo, perché esso consiste, piuttosto, “in una uniformità coatta di vedute”. La libertà liberale, che è negativa, semplice mancanza di coercizione e, quindi, non prescrive, non può produrre esiti totalitari. Ce lo ricordava Rudolf Rocker: “molte strade portano alla dittatura dalla democrazia, nessuna dal liberalismo”. Insomma, qualcuno potrà sempre essere libero di essere socialista o mussulmano, “ma si è sempre nella più perfetta libertà anche di negare a questo qualcuno la libertà – la sua – di imporre coattivamente ad altri la sua fede.” Non più utopia, questa è, per dirla con Nozick, una “impalcatura per utopie” (cioè, politeismo etico). Insomma, visto in questi termini, il paradosso di Ibanez viene degradato a “gioco di parole”. Altrimenti torna S. Agostino. Poco importa, quindi, che leggendo il suo libro si abbia talvolta l’impressione che il critico dello storicismo descriva un andamento obbligato della storia (“Kant e McDonalds prima o poi arrivano dappertutto”) o che dalle pagine possa trasparire una fin troppo gioiosa “resa” alla razionalità strumentale del “capitalismo”. Chiunque fissasse la sua attenzione su questi aspetti si dimostrerebbe simile al tizio che guarda il dito piuttosto che la luna. Nell’analisi di Berti è presente un dubbio sensato e una domanda ineludibile: consegnato al cimitero delle idee l’agostinismo libertario, l’anarchismo può essere solo inveramento del liberalismo?
Domenico
Letizia
“Libertà senza rivoluzione di Giampietro “Nico” Berti è un testo cruciale, un testo che, almeno nell’ambito del pensiero libertario e anarchico degli ultimi decenni, ha pochi termini di paragone per la radicalità e vastità dell’elaborazione” così interviene, sulle pagine di “A Rivista Anarchica”, Franco Melandri, nel descrivere l’ultima opera dell’intellettuale libertario più conosciuto, in Italia, Nico Berti. Quest’ultimo parte da una premessa sostanziale, quella che ritroviamo nella recensione, al volume del Berti, di Luciano Lanza per il “Il Fatto Quotidiano”: “Ora l’anarchismo, inteso come movimento storico, non rappresenta altro che se stesso”. Nessun serio libertario può negare che l’anarchismo si trova oggi ad affrontare, dopo la sconfitta del comunismo da parte del capitalismo, la fine della prospettiva rivoluzionaria concepita come rovesciamento radicale dell’esistente canalizzata su una prospettiva anticapitalista. Ogni volta che si analizza la storia non si può che costatare che la libertà non è la rivoluzione, la presunta verità forte della rivoluzione, deriva dalla convinzione, da parte dei rivoluzionari di professione, di aver individuato l’unità ontologica del mondo e dunque la possibilità di una sua comprensione razionale poiché ci si convince che sia possibile una trasformazione radicale dell’esistente attraverso un atto decisivo forte ed autoritario, ogni atto che pretende di essere risolutore è intrinsecamente totalitario. La rivoluzione diviene uno dei più grandi mali della società, Berti si sofferma nell’analizzare tutti i maggiori fenomeni rivoluzionari che la storia ci ha consegnato concludendo che se non accompagnati da un ethos liberale essi rappresentano la peggior forma di totalitarismo che un regime politico possa produrre, dopodiché, ci viene ricordato come tale fenomeno possa essere la giustificazione più penetrante ad ogni crimine umano e contro la proprietà. Il rivoluzionario di professione è convinto interiormente di lavorare per il giusto, anche se costretto a compiere scelte radicali che comprendono lo sterminio e la morte di decine di individui, tutto è giustificato e superato poiché si lavora per la rivoluzione e quindi per un scopo che supera ed ingloba la vita di ogni individuo, annulla l’esistenza intesa come singola e massifica l’insieme degli individui per tale scopo, la rivoluzione diviene il mega-progetto, costruito a tavolino, più totalitario che la storia politica ci ha consegnato. Il progetto rivoluzionario è accecato dalla prospettiva teologica dell’ “uomo nuovo” e ogni individualismo non può che essere avverso all’ “uomo nuovo” e non può che produrre soggetti antisociali che necessitano di una rieducazione nei campi di lavoro e in luoghi della morte attrezzati allo scopo. Il nesso tra Rivoluzione e “uomo nuovo” mostra che comunismo, fascismo e nazismo sono equazioni diverse del fenomeno totalitario. Credere che la rivoluzione prima o dopo, inevitabilmente, come conseguenza del capitalismo, avverrà è fare un atto di pura fede, credere ad un qualcosa oggi inconcepibile e soprattutto non auspicabile per la sua portata totalitaria. Perché? La Rivoluzione, quando avviene, crea un vuoto di potere (non il suo annullamento) che i rivoluzionari colmano con un potere molto più forte del precedente, unico modo per evitare che la storia torni indietro e sfugga loro di mano.
L’analisi del Berti dopo aver scarnito al “progetto rivoluzionario” tutta la sua portata progressista, al contrario, descritto come tra i progetti più totalitari da auspicare, si sofferma sulla conseguenza storica della fine del comunismo e del trionfo del “capitalismo”. Il fallimento scientifico del comunismo è dovuto al fatto che esso è una gnosi travestita da scienza. Il comunismo e conseguentemente il marxismo sono una pseudo-scienza, ultima espressione religiosa della storia umana, la terminale forma storica del sacro, l’estrema domanda di ri-significazione del mondo perché vuole fare coincidere la verità dell’uomo con la verità della società. Berti ci conduce attraverso tale analisi alla domanda cruciale che l’anarchismo non si è mai posto: Dove risiede quella forza etica del capitalismo, nella storia, che il comunismo non ha mai avuto? Nella storia e nei processi storici. Il capitalismo si è sviluppato come processo, non come progetto, il capitalismo è un fenomeno e come tale non può essere abbattuto, ma superato. Nessuno ha mai pensato di voler abbattere il Medioevo, poiché tale “periodo storico” non è un progetto ma un processo storico, naturale conseguenza dei mutamenti sociali ed economici delle società. Ma il Medioevo in quanto fenomeno giunge alla sua conclusione e al suo superamento, così con il capitalismo, il fenomeno va superato, non abbattuto, per non ritrovarsi al di fuori di ogni sana logica storica. Nel comunismo prima nasce la teoria dopo c’è la pratica, nel capitalismo prima nasce la pratica e dopo c’è la teoria: il comunismo dovrebbe accadere, il capitalismo è accaduto. In tale processo come deve porsi l’anarchismo e il metodo anarchico? L’anarchismo dopo la fine della prospettiva rivoluzionaria-sociale connessa al movimento operaio e socialista si trova ad affrontare nuove e praticabili possibilità. Questa possibilità deve partire dal presupposto che la liberal-democrazia deve essere analizzata come realtà non prescindibile, poiché la sua eliminabilità non va auspicata dal momento che la sua esistenza è la condizione stessa – precisamente l’unica condizione storica possibile – per il suo superamento in direzione anarchica. In poche parole, bisogna lavorare e pensare all’anarchismo come un qualcosa che viene dopo la liberal-democrazia, il passo successivo, l’anarchismo ha la possibilità di divenire protagonista se si auto-pensa e auto-pone dopo la liberal-democrazia e non contro la liberal-democrazia, deve porsi oltre le logiche sia di destra che di sinistra facendo tesoro e canalizzando in ottica libertaria e antiautoritaria i fondamenti della società liberale. L’anarchismo ha il compito di proporsi oltre il capitalismo e non contro il capitalismo, sostenendo una possibilità della libertà, non un punto di vista riformista, insistere cioè sul rapporto politico che passa tra chi propugna di limitare il potere (liberalismo) e chi propone di estendere il potere a tutti (democrazia). Questa è la rivoluzione culturale rappresentata dal Berti, un’analisi storiografica di processi e avvenimenti collegati al comunismo e al capitalismo in ottica profumatamente libertaria. Berti è chiarissimo, se non si parte dalla liberal-democrazia, inevitabilmente, si cade nelle più becere dittature novecentesche e post-moderne, concludiamo, ricordando la previsione dell’anarcosindacalista americano Johann Rudolf Rocker: “Tutte le ideologie politiche conducono alla dittatura della democrazia, tutte tranne il liberalismo”.
Fabio
Massimo Nicosia
E’ difficile recensire un libro che si condivide, a parte qualche dettaglio, da cima a fondo.
Il testo di Berti si divide in tre parti, più due appendici, una sul concetto di libertà e una sull’uguaglianza.
Nella prima, si discutono i perché del fallimento storico del movimento comunista internazionale, nella seconda le ragioni che hanno condotto alla vittoria del capitalismo su scala globale, nella terza si passano in rassegna le varie posizioni che attualmente vengono ricondotte, a torto o a ragione, al pensiero anarchico contemporaneo.
Il tutto accompagnato da una radicale critica a qualunque prospettiva rivoluzionaria.
Secondo Berti, le masse non sono rivoluzionarie, e quindi chi pretendesse di imbastire un processo rivoluzionario peccherebbe comunque di avanguardismo e, in ultima analisi, di autoritarismo, per quanto si autodefinisca “anarchico”. Già Lenin, in “Stato e rivoluzione” criticava gli anarchici per il loro definirsi “antiautoritari” e rivoluzionari al contempo, ignorando che non vi è nulla di più autoritario di una rivoluzione.
L’aver mantenuto e il mantenere oggi un legame con la prospettiva rivoluzionaria da un punto di vista anarchico non ha portato altro che a una marginalizzazione del movimento anarchico, sicché oggi questo movimento, come ripete Berti a più riprese, non rappresenta altro che sé stesso.
Per Berti, l’anarchismo deve prendere atto della vittoria della liberal-democrazia, non solo, della preferibilità della liberal-democrazia rispetto a qualunque altro sistema politico, e fare i conti con essa. L’obiezione non è nuova. Già Benjamin Tucker sosteneva che, in un sistema che consente libertà di parola e di opinione, non ha senso una prospettiva rivoluzionaria, dovendosi viceversa inserire in quel sistema con la parola e la discussione.
Come scrivevamo a nostra volta nel nostro “Il dittatore libertario” (Giappichelli, 2011), l’ipotesi rivoluzionaria, una volta scartato il “golpismo” di stampo leninista, “pecca di ingenuità, perché sembra considerare ‘il potere’ come qualcosa di esclusivamente fisico, che si possa sbriciolare aggredendolo direttamente, trascurando il suo carattere di costruzione della mente, di ‘credenza costitutiva’, per usare l’espressione di Hayek, che trova sì estrinsecazioni fisiche –l’apparato burocratico-militare e i suoi pretenziosi ‘palazzi’-, ma che non possono essere demolite, se non una volta che quelle credenze, fondamento del consenso nei confronti delle istituzioni del dominio e della ‘legittimità’ di questo, siano state intaccate” (pag. 366).
Quindi, se scartiamo la rivoluzione, e immettiamo il movimento anarchico nel gioco del potere liberal-democratico, quel che resta è l’ipotesi “riformista”, di un riformismo forte, però, al quale meglio si attaglia il termine, anche malatestiano, di “gradualismo”.
Si dirà però che, se le masse non sono rivoluzionarie, men che meno esse sono “anarchiche”, qualunque cosa ciò significhi, con la conseguenza che il consenso politico-elettorale di un movimento anarchico è destinato a rimanere modesto.
Manca infatti al movimento anarchico una cultura del “second best”, quello che Berti chiama male minore o meno peggio, ma che è qualcosa di più di questo. Gli anarchici cadono in una grave contraddizione logica allorché pongono le “leggi” tutte sullo stesso piano, in quanto espressione di un potere percepito come nemico. Ma le leggi non sono tutte uguali. Una legge che vieta un comportamento non equivale a una legge che lo consente, ed è “stupido” (termine molto utilizzato da Berti) opporsi alla legge permissiva come se fosse una legge interdittiva.
Il problema, da noi già sollevato nel testo citato, è che gli uomini si distinguono, tra le altre cose, in due tipi psicologici: quelli dotati di “inclinazione libertaria” (coloro i quali non vogliono né comandare, né essere comandati), e quelli dotati di “inclinazione autoritaria” (coloro i quali vorrebbero comandare, ovvero quelli che, non riuscendovi, si adattano a essere comandati).
Il nostro dramma è che l’inclinazione libertaria è di pochi, sicché si evidenzia all’orizzonte una prospettiva elitista e pessimista a un tempo.
Tuttavia, se pure le masse non sono libertarie, o non lo sono consapevolmente, esse possono dimostrarsi libertarie con riferimento a singole questioni, quando si toccano i loro interessi e diritti. Come è avvenuto nel referendum sul divorzio, quello sull’aborto, o persino su quello della depenalizzazione del consumo individuale di sostanze stupefacenti.
Ciò che accomuna queste iniziative è di costituire manifestazioni di “libertà negativa”, di antiproibizionismo, sicché paradossalmente gli anarchici potrebbero utilizzare gli strumenti della liberal-democrazia, per aggredire dialetticamente l’elemento “democratico” (cioè quello del potere della maggioranza), in favore dell’elemento “liberale”, cioè quello della conquista di crescenti spazi di autonomia per il singolo, sicché la democrazia sarebbe solo l’ambiente, da erodere progressivamente, nel quale affermare elementi di liberalismo radicale.
Parlando fuori dai denti, va detto che questo spazio politico è già occupato dall’area radicale, per quanto si possa criticare la sua classe dirigente e la sua cultura. Il radicalismo, del resto, in termini analitici, può essere definito come la linea immaginaria che conduce dal liberalismo all’anarchia.
Io vedo nel rapporto tra anarchici e radicali la possibilità non solo di una convivenza, ma di uno scambio. L’anarchismo ha infatti un bagaglio storico-culturale assai vasto, che può rinvigorire una cultura radicale tutta sdraiata sul solo concetto di “Stato di diritto”, mentre i radicali possono fornire al movimento anarchico le battaglie di “second best”, di cui l’anarchico valuterà, alla luce del malatestiano lume regolatore, la congruità, ossia la compatibilità con il progetto utopico, che non va comunque abbandonato almeno a livello di immaginario, pure fondamentale in una forza politica che voglia mutare lo stato presente delle cose (quello dei first best).
Ad esempio, quando i radicali propongono l’amnistia, gli anarchici, invece di rifiutare il dialogo con Pannella per essersi compromesso con le peggiori istituzioni, potrebbero rilanciare, e chiedere il superamento della stessa istituzione carceraria come la conosciamo, il che raccoglierebbe sicuramente consensi anche all’interno del movimento radicale, come abbiamo constatato anche di persona.
Un’ultima considerazione. Come si è detto Berti non si risparmia nel denunciare errori ed orrori del comunismo, e ha tutte le ragioni. Tuttavia, se il marxismo ha avuto tanto successo si deve anche a un particolare a favore: il fatto di porsi il problema del potere e del governo, o almeno di una egemonia culturale sulla società.
Da qui il discorso sul gradualismo anarchico, che deve contemplare anche, senza mitizzazioni, l’eventualità non solo di “votare” (perché votare altri?), ma di partecipare a elezioni e, perché no, di proporsi come forza di governo, a garanzia dell’impedimento degli impedimenti, in una chiara prospettiva libertaria e, ripetiamo, a tutto campo antiproibizionista.
Su questo si giocherà il futuro del movimento anarchico, nonché del gemello separato liberale e radicale.
“Fogli di Via”, marzo-luglio 2013