Il seguente saggio è apparso sul n.2 di “Anima
e Terra”, rivista diretta da Franco
Livorsi per l’editore Falsopiano di Alessandria
Wolf Bruno
di crepuscolo in crepuscolo,
precipitando
Non vorrei parlare delle stranezze degli
uomini, anche perché non mi piace correre il rischio di rendere troppo evidente
la mia normalità, una delle tante virtù alle quali non tengo. Mi è difficile
tuttavia ignorare gusti, inclinazioni, comportamenti di cui il genere umano si
rende irragionevolmente colpevole compromettendo la propria coerenza,
minacciandola coi mezzi stessi delle sue consolidate convinzioni. Che dire, per
esempio, di afrori usualmente ritenuti ripugnanti quando si ritrovano poi
emancipati nei sapori della "buona tavola" come succede con certi
formaggi? E che sono tutti i pudori che circondano le flatulenze quando per
spasso, soprattutto se rumorose, rafforzano la compagnia? E la fica? Non
corrisponderebbe forse a una laida fessura se solo la si isolasse dai suoi
contenuti così squisitamente umani e così spudoratamente allettanti? Penso
anche a ciò che con fantasia mista a malafede, e non senza superbia, sono stati chiamati "i
diritti", positivi o naturali che si vogliano. Nel primo caso si sono
riempiti pochi fogli di carta e innumerevoli bocche di tutta quell'ampollosa
vacuità di cui sono capaci gli avvocaticchi una volta che dopo aver perso la
strada del successo professionale si pongono alla testa, per un risarcimento
che non gli è dovuto, di una qualche ragione per la quale esortano altri a
rischiare, pronti al momento opportuno a epurare costoro se la loro azione, o
qualche parola di troppo, non coincide il tutto e per tutto ai loro gelosi
cartigli. Gli altri se sono "naturali" non ha nemmeno senso parlarne,
c'è piuttosto qualcosa di sfacciatamente gelido nel pensarli, come se la natura
ci tutelasse invece di pervaderci fino all'orrore. Comunque sia ci si comporta
come se tutto questo (e moltro altro ancora, naturalmente) avesse un senso. Vivere è questo compromesso. De
Sanctis diceva che Guicciardini, nel consigliare i più discutibili
accomodamenti, separava la coscienza dalla persona. Non tutto quel che ci
riguarda è d'altronde mondo morale. Ad Amburgo, il 16 settembre del 2001, pochi
giorni dopo l'attentato alle torri gemelle di New York, nel corso di una
conferenza stampa, la già criptica ma ormai stanca tiritera di Karlheinz
Sockhausen sconcertò il mondo (“vi prego di sintonizzare i vostri cervelli”
disse il musicista) con l'affermazione che si era trattato della più grande
opera d'arte della storia. L'estetica -
o, come avrebbe preferito chiamarla Hegel, la filosofia dell'arte - è una
brutta e imprendibile bestia, soprattutto per chi la vorrebbe moralmente
fondata, col bello equivalente al bene. Ciò nondimeno Karl Rosenkranz, azzardando l’Estetica del Brutto, rappresentò un
combattimento fra angeli e demoni attraverso il quale l’opera d’arte
prenderebbe vita, poiché senza confrontarsi col maligno, con la negatività, con
le disfunzioni morali, essa non potrebbe aver luogo. Sade, presentando Le
120 giornate di Sodoma, avvisava il lettore di predisporre lo spirito al
"racconto più impuro mai scritto". Edmund Burke colse nel “sublime” le
più forti emozioni dell’anima, quindi anche “tutto ciò che in un certo senso è
terribile”. Su questa base, il terribile
evento americano possedeva a tutti gli effetti i requisiti necessari per
azzardare una dichiarazione, benché sgradevole, come quella di Stockhausen, il
quale tuttavia non fece passar molto tempo
per scusarsi di averla pronunciata
(frattanto negli Stati Uniti erano finiti annullati i suoi previsti
concerti). Per altro, se l’immediata e universale copertura mediatica
dell’evento terroristico era stata di per sé sensazionale, non mancavano
episodi anche recenti che si sarebbero prestati a riflessioni analoghe, basti
citare i bombardamenti dei “liberatori” su tante antiche città (come si suol
dire “d’arte”) nel corso del secondo conflitto mondiale. Ma nel 2001 per un
artista la cui fama si era consolidata a mezzo di controverse sperimentazioni
“d’avanguardia”, la situazione dell’arte
e il ruolo da svolgervi, anche appartenendo alla generazione dei “maestri” del
moderno, erano tali da poter suscitare
smarrimento. Quella che comunemente - e semplicemente - si chiama arte moderna
e contemporanea (quella "esposta") aveva disperso il suo potenziale
di distinzione allorché, entrata nei gusti delle classi medie, dovette fare i
conti con una diffusione che la sospingeva alla banalità. Per qualche tempo la
stessa banalità era potuta servire da ispirazione e spacciarsi come stile, ma
non poteva durare. Per giunta - particolare che mi sembra sia sfuggito agli
studiosi - non era difficile fabbricarsela autonomamente - compiendo in tal
modo uno degli obiettivi dell'avanguardia - e conferire agli ambienti delle
proprie abitazioni quello stesso sapore moderno che altri realizzavano
attraverso costosi acquisti. "Apparire" non richiedeva più, come a
tempi di Balzac, "cabriolet, stivali lucidati, aggeggi vari, catene d'oro,
guanti bianchi di daino per la mattina e gialli per la sera", con un paio
di blue jeans si era ormai accettati in società. Gli artisti della fine del xx
secolo non facevano niente di diverso, salvo in certi casi conferire maggiore
scenografia ai loro "progetti", avendo la possibilità di farli
finanziare dalle gallerie, dai musei, dalle istituzioni pubbliche. Ciò che
questi organismi consideravano i valori estetici dominanti altro non erano che
stupide sciocchezze, se non vere e proprie idiozie, che avevano perso del tutto
la temerarietà e la sfrontata ironia che fu di certa avanguardia. Nessuno
sembrava tuttavia stupirsi. Nemmeno un crocifisso affogato nelle urine destava
scandalo o morboso interesse, a meno di non appartenere alle impettite
sottoculture censorie che si annidavano nei centri del potere, del resto con
idee poco chiare. Che tutta questa prudenza fosse una delle priorità dei
destinatari di tale messaggio epuratorio è dubbio, d'altra parte bastava
guardare in faccia uno a caso degli artisti dominanti l'epoca (stupida, volendo
dar conto alla stupidità dell'arte quando avesse voluto rifletterla) per
rendersi conto che non si trattava di un grande peccatore. Identica piega
avrebbero preso l’arte e gli artisti del nuovo secolo. Con loro, affiancati in
un comune destino, stavano i critici e i curatori delle mostre. Da questi – che i francesi amano chiamare
“commissari” - veniva da tempo la rivendicazione di un’attività ugualmente
“creativa”, vale a dire pari a quella degli artisti. Era patetico assistere al sovraccarico di
senso che si voleva addossare a una parola che di fatto riguarda la vita di
ogni giorno e gli assortimenti di ognuno. Ancora peggio era constatare che
alcuni soggetti andavano fatti rientrare -
ma, per fortuna, con un’enfasi sempre più declinante - in una categoria specifica, quella dei
“creativi”. Maggior garbo lo dimostrava viceversa la letteratura, tornata
massicciamente a una narrativa alla mano e ben insediata nella gamma popolare
senza per questo perdere prestigio, semmai acquisendone perdendo quell’aria di
lettura da viaggio in treno che si era sempre attribuita ai generi. Anche nel
caso della letteratura non mancavano però i soliti tracotanti tentativi di riconoscere
“il capolavoro”, e ci si arrischiava trionfalmente a individuarlo in quel che
di più vacuo e inconcludente offrivano gli scrittori (un nome per tutti: David
Forster Wallace). Ma il libro che fece più sensazione nel nuovo millennio fu un
magari caotico romanzo del mistero – infittito di esoterismi già noti da un
ventennio per via di una saggistica fantasiosa - che incontrò il favore dei lettori e, cosa
tutt'altro che nuova, lo sfavore (talvolta prudente) della critica. Il libro si
intitolava Il Codice Da Vinci e
l’autore (Dan Brown) ebbe lo sciagurato vezzo di far sembrare la piccante materia con la quale
aveva confezionato l’opera come si trattasse di verità che lui stesso, in
sollecite ricerche, aveva avuto modo di accertare. Ciò diede la stura a una
parallela letteratura di commento solo in parte omologa agli argomenti dello
scrittore, ma per l'altra orientata alla loro demolizione. La speciale premura
messa da preti e opinionisti cattolici nell'individuare strafalcioni, falsità,
paralogismi e invenzioni fu massiccia, come se temessero da questo romanzo (che
metteva in una luce sinistra l'Opus Dei) la minaccia alla fede delle anime
semplici. Si accusava l'autore di non credere che Dio si è manifestato in Gesù,
che il Vangelo ha origini divine. "Dan Brown", si sentenziava,
"ha un sistema di pensiero opposto a quello cristiano". Alla resa dei conti, si dava l’impressione di
voler procedere a un sacrificio piuttosto
di sviluppare l’appropriata critica a un’opera di fantasia. È nota la teoria di
René Girard sul capro espiatorio secondo la quale se in epoche buie le comunità
si ricompattavano dopo un sacrificio, col cristianesimo arrivò la luce dal
momento che lo stesso fondatore della religione era la vittima. Il sospetto che una simile teoria possa essere
venuta in mente a quest’autore in ragione della nascita, essendo nato il 25
dicembre – giorno che tradizionalmente, dopo aver significato la rinascita del
sole, indica quella di Gesù - l'ho
accarezzato. Ovvio che l'origine del mio sospetto sia superstiziosa, cosa che
per me non costituisce un problema, dal momento che potrei essere accorpato
agli idolatri. Non vedo niente di diverso tuttavia nello stabilire che a un
certo punto della storia, nemmeno troppo lontano, l’umanità sia stata redenta.
A guardare le vicende dell’ultimo secolo si potrebbe pensare il contrario.
Individuare dietro la condizione umana una cospirazione atta a sconvolgerne
l’intima costituzione, come nei romanzi alla Dan Brown, è non solo
comprensibile, ma coerente, a parte significativi dettagli, con quelle premesse
redentrici. In qualche modo, per giunta, tali racconti riverberano meglio di
tante elevate opere – rappresentandone nel contempo il trionfo - quella
sgomenta sensazione di un’egemonia del prodotto sull’uomo. La fine di uomini e
cose decretata dagli scopi morali di alcuni ha corrisposto, come si è visto, ai
fini estetici di altri. Per decenni,
lungo il XX secolo, al seguito di incoraggiamenti tipo “Picasso è con noi”, si
poteva pensare che fini estetici e fini morali coincidessero. Che l’arte fosse
un fine morale. La verità è che quelle altro non erano se non frasi strumentali
il cui significato stava tutto nel convincere della bontà di una merce
politica. Era il prestigio di chi veniva richiamato e non l’arte in sé a lusingare
(lusinghiera era semmai la vita degli artisti di fama). Coi sapienti del
postmoderno e con la loro più recente variante colorata Pop, il dissequestro
dell'estetica dall'etica si effettuava ormai attraverso numerose e infine
disinvolte asserzioni di concepirlo come un fine conveniente. Personalmente
simpatizzo per questo fine ma per ragioni diverse da quelle dei sapienti. Mi
dice francamente poco l'intenzione di abbellire la vita, e non perché - come
succedeva in certe deprimenti controversie novecentesche - mi disturbi
l'orpello, è vero semmai il contrario. Il mio innocuo, ininfluente,
probabilmente individualistico, forse inverecondo, comunque intellegibile
proposito è una volta di più non tanto quello di far bella la vita, quanto
l'aspirazione - con tutto ciò che di ripugnante possa portare con sé - di far la bella vita.