le voci che corrono

Luigi De Marchi*

 

> Luigi De Marchi, O noi, o loro!, Bietti, 2000

intervista di Francesco Jori

Professor De Marchi , la rivoluzione liberale di cui lei parla nel suo libro, in Italia è un'eterna incompiuta. Vista da uno psicologo, da cosa dipende questa rimozione?

"Da un fattore culturale: purtroppo, buona parte del mondo liberale, non avendo avuto grandi capacità immaginative, non ha saputo sognare fino in fondo questa rivoluzione. In più, c'è un fattore ideologico: la pesantezza di una realtà burocratica che di fatto ha ostacolato la possibilità di sognare il cambiamento".

Sembriamo rassegnati: perché?

"In effetti, questa società sembra talmente abituata a vivere in tali condizioni, che le riesce difficile immaginare qualcosa di diverso: finendo così per subire una realtà pesante, ottusa, soffocante per la nostra fantasia".

Ma non ci sarà del metodo, in questa apparente follia?

"Lo sforzo del mio libro, in fondo, sta nel dimostrare che tutto si tiene, come insegnava Benedetto Croce. È impossibile attuare una rivoluzione liberale e avere una società libera, se ci si limita a pensare alla vittoria del liberalismo solo sul piano elettorale, quindi dell'espressione di una nuova maggioranza parlamentare. La società è un fenomeno ben più complesso. D'altra parte, basta guardarsi indietro: finora, lì dove si è giunti a nuove maggioranze, tutto è stato risucchiato inesorabilmente dalla vecchia struttura burocratica".

Se questa è la diagnosi, che terapia si può proporre?

"Io suggerisco nel libro alcuni spunti di una vera e propria rivoluzione culturale: cominciando col dire basta all'invasione del mondo della cultura da parte dei soliti intellettuali di regime. Pensiamo alle nostre università, fatte di carrieristi in cerca di un posto sicuro, dalla culla alla bara: una burocrazia culturale che distrugge la creatività dei giovani".

Lei insiste molto su questo moloch burocratico trasversale: è lì il nocciolo duro del problema?

"In effetti, l'aspetto più interessante del mio libro sta proprio in un contributo di tipo psicologico, che spiega come mai tutte le burocrazie siano così ottuse e incapaci di rinnovamento".

Però c'è anche e soprattutto un ceto politico che frena: perché?

"Credo che una delle ragioni principali risieda nel fatto che si tratta di una classe politica tradizionalista, rimasta sempre imbrigliata in un'ottica di tipo fondamentalmente statalista, e che anche quando ha avuto l'occasione di cambiare non l'ha fatto".

E come si spiega lo scarsissimo ricambio di personale politico in Italia, compreso questo assalto di ex che non si rassegnano a essere tali?

"Si spiega con una sostanziale latitanza del mondo produttivo dalla politica. Quando un imprenditore o un libero professionista entra in politica, continua comunque ad avere una propria attività; quindi non vive come un suicidio la fine dell'esperienza politica. Chi invece da quando ha aperto gli occhi ha sempre concepito la propria esistenza da piazzista della politica, chiaramente quando vede avvicinarsi la conclusione viene sfiorato da pensieri suicidali. Voglio dire che l'esistenza di una classe politica dura a morire dipende dal fatto che molti dei suoi esponenti non hanno mai fatto altro in vita loro".

Lei parla di una latitanza dei ceti produttivi: c'è quindi una corresponsabilità?

"Certo. Tra i ceti produttivi, soprattutto a nord, è invalsa a lungo l'idea di lasciar fare a Roma, "tanto io non ne capisco nulla di politica". È un errore".

Ma lei, da psicologo, di fronte a un quadro clinico del genere, non sarebbe tentato dal dare le dimissioni o quanto meno rinunciare al caso?

"No, perché mi ispiro al filone della psicoterapia umanistica, che ha molta fiducia nell'essere umano e nelle sue capacità di cambiamento. Certo, non è un cambiamento che si ottiene con uno schiocco di dita: per capirci, non la penso come Woody Allen quando dice la sua battuta, "sono in analisi da 14 anni, all'analista do un altro anno poi vado a Lourdes"".

E a un suo ipotetico paziente politico cosa consiglierebbe?

"Di cominciare dall'accettare l'idea di una sua sostanziale estraniazione dai bisogni reali della gente. Il fatto è che si è finito per considerare i ceti produttivi come dei cavalli da tiro di una carrozza in cui lorsignori stanno seduti in bella vista, senza nulla rischiare".

Cosa c'è di comune tra un politico e un burocrate?

"La pretesa di vivere nel privilegio, nella sicurezza garantita, spesso nell'ozio, alle spalle di chi produce ricchezza vera vivendo nell'insicurezza e nella fatica che ogni attività di mercato comporta. D'altra parte, come diceva Goethe, qual è la cosa più difficile? Riuscire a vedere coi nostri occhi quel che abbiamo sotto il naso".

C'è una spiegazione psicanalitica?

"Certo: la rimozione. Non si vede quello che non si ha voglia di vedere".

"Il Gazzettino", 26 febbraio 2001

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Alfredo Biondi

produttori contro burocrati

L’interesse di questa nuova opera di Luigi De Marchi nasce da alcune sue qualità specifiche, che ne fanno un valido contributo agli studi sulla Rivoluzione Liberale. Anzitutto, il libro propone una nuova interpretazione della storia politica europea ed americana del ‘900. Nella nuova ottica proposta dall’Autore, le vicende politiche ed elettorali euro-americane del XX secolo sembrano ridursi a un fenomeno tanto ripetitivo quanto inconcludente: e cioè il continuo rimbalzo dei lavoratori dipendenti e indipendenti del privato (definiti da De Marchi il Popolo dei Produttori) tra un progressismo malato di statalismo (quello della Sinistra tradizionale) e un liberismo malato di conformismo (quello della Destra tradizionale). Nessuno di questi due poli tradizionali, però, ha saputo rispondere simultaneamente al bisogno non solo di libertà economica ma anche di libertà civile e di modernizzazione culturale che, come l’Autore documenta persuasivamente, caratterizza il Popolo dei Produttori. La grande sfida politica del nostro tempo, secondo De Marchi, sta quindi nel riuscire a creare una forza politica antiburocratica, antifiscale e federalista in campo economico ed amministrativo e, al tempo stesso, innovativa e creativa sul piano culturale e sociale.

In sostanza, De Marchi ribalta il concetto marxiano di lotta di classe indicando nei lavoratori dipendenti e indipendenti del settore privato la vera classe sfruttata e innovatrice e nella classe burocratica la vera classe conservatrice, parassitaria e sfruttatrice, insomma la vera razza padrona, del nostro tempo. E sostiene coerentemente che, ai fini di un’autentica Rivoluzione Liberale, è essenziale diffondere e radicare nella classe sfruttata una coscienza di classe e una volontà di lotta unitaria che sino ad ora sono mancate. Da quest’analisi emerge con chiarezza il fattore cruciale del fallimento generalizzato non solo del comunismo ma anche dello Stato assistenziale e di tante altre riforme socialdemocratiche: sia il comunismo che la socialdemocrazia hanno infatti preteso di riformare o addirittura di rivoluzionare le società ‘900 distruggendo o combattendo la classe innovatrice (cioè quella dei piccoli imprenditori e dei liberi professionisti) ed affidando il cambiamento alla classe conservatrice e parassitaria (la burocrazia). La ridefinizione della lotta politica contemporanea proposta da De Marchi poggia su solide basi scientifiche: quelle di una Psicologia Politica di stampo liberale che manda in soffitta la Psicologia Politica tradizionale della Scuola di Francoforte, pesantemente condizionata e distorta dall’ottica marxista. Le prospettive aperte da questo nuovo metodo di analisi consentono infatti all’Autore di proporre una Rivoluzione Liberale che sappia investire non solo l’ambito dell’economia e della politica in senso stretto, ma tutti gli aspetti della vita sociale e culturale.

*Pioniere della sessuologia, fautore dell'indagine "psicopolitica" e divulgatore italiano dell'opera di Wilhelm Reich, Luigi De Marchi, da sempre anticomunista di intonazione libertaria, ha scritto numerosi libri rinvenibili nei cataloghi di Laterza, Longanesi, Mondadori, Sugar e altri ancora.

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