con Carlo Merello

Cosa vuol dire per te lavorare sul  rapporto arte/architettura?

Arte/architettura è un rapporto tra sistemi diversi, ovvero, in termini matematici,  una divisione che da origine ad un risultato, il risultato è un ibrido; siccome l’accoppiamento tra asino e cavalla da origine ad un ibrido che si chiama mulo e, come si sa, l’ibrido non può riprodursi.

Il mio lavoro similmente si incentra sul concetto di ibrido quale prodotto artistico che ha un capo, un corpo e una coda, un progetto ouroborico, dal quale non si sviluppa che una immagine simile a se stessa, seriale,  autogena.  In sintesi direi che l’ibrido su cui lavoro ha contenuti culturali architettonici espressi mediante modalità appartenenti all’arte visuale.

 

Nel tuo lavoro si evidenziano spesso periodi  espressi da procedure e linguaggi tecnici differenti, quali sono le motivazioni  di tale procedere?

Senz’altro dipende dalla mia formazione culturale, sono architetto e ho svolto tale professione per circa una decina di anni, fino alla metà degli anni Ottanta.

Gli architetti lavorano per progetti e ogni progetto ha un suo scopo , una propria necessità:  il progetto di una casa deve rispondere a problematiche  funzionali diverse rispetto a quelle di un ospedale o di  una scuola e ogni peculiarità funzionale deve essere sviluppata secondo le proprie coordinate tecniche.

Il mio lavoro procede nello stesso modo:  in passato ho definito la mia un’”arte ideale” semplicemente perché  è proprio da un’idea che parto per sviluppare il progetto che mi porterà alla realizzazione del lavoro con un linguaggio che gli è proprio.  L’idea per me è una sorta di “metaprogetto” ( altro termine da architetti) una domanda che mi pongo e alla quale devo rispondere elaborando dati che formeranno il materiale dell’opera.

Faccio un esempio, il progetto “Vuoti a perdere”  del 2004/05 è nato per rispondere ad una domanda posta in un momento in cui mi è capitato di visitare siti abbandonati:  ospedali, caserme, opifici, ecc...; mi sono chiesto come potevo rappresentare l’aura di chi in quegli ambienti, ormai vuoti, aveva lavorato, patito, goduto e altro, insomma vissuto una parte della propria esistenza. 

Ho pensato che qualcosa di impalpabile come un’aura potesse essere evocata da qualcosa di altrettanto effimera come un’ombra, ombra che esiste solo quando c’è luce e la luce sappiamo è un elemento fondamentale della pittura.  Dalla elaborazione di questo “metaprogetto” sono nati i “Vuoti a perdere”, ovvero tavole che raccontano, mediante il confronto tra due ‘vuoti’, quello architettonico e quello umano, il dialogo muto che si concreta sulla pagina bianca mediante l’ombra che scaturisce dal vetro sovrapposto, sul quale ho inciso un corpo aperto e/o  lacerato, quando la luce lo investe.

Altro esempio, del quale ho inviato una foto, si riferisce al progetto “Reliquiari di architettura” del quale ho scritto:   Il termine fa riferimento a contenitori di resti sacri, ovvero sacro è il contenuto ma ciò che si nomina è il contenitore: conservatore di reliquia.

Nel mio caso il riferimento all’architettura è insito nel significato di casa: contenitore di elementi viventi, sacri appunto perché sacra è la vita. Ma la mia attenzione è rivolta al contenitore: la casa; quindi il reliquiario è un elemento di una architettura concettuale perché virtuale: una pelle strutturata che contiene (fascia) un oggetto da conservare: la luce - rappresentata dall’oro – e mani che tessono le trame del costruire e  l’occhio, che ci osserva, ci ricorda che l’argomento di cui trattiamo ha a che fare con la percezione; ovvero con la pittura ( un’”idea” di pittura ovviamente). 

Naturalmente con le stesse procedure ho elaborato altri progetti , cito solo gli ultimi:  Tavole sinottiche delle grafie, Objet  trouvé -  Objét artistique,  Beijing esterno notte,  Il Respiro di Genova,  Le Fessure di Genova, Souvenir d’Italie - Genova G8-,  Natura – Struttura,  Elementi del paesaggio d’architettura,  Città Combusta,  Combustione Endogena.

 

In passato hai affermato di sentirti più un artista moderno invece che contemporaneo, in quale senso fai questa affermazione?

Da alcuni anni, direi almeno dagli anni Ottanta, contemporaneo in arte ha perso il suo significato di avverbio di tempo per trasformarsi in categoria definitoria che possiede al proprio interno le coordinate per individuare ciò che  è arte contemporanea da ciò che non è arte contemporanea: ovvero  essere artisti contemporanei è necessario ma non sufficiente lavorare qui ed ora. Occorrono altri prerequisiti. Questo fatto, estremamente importante per il divenire delle arti, credo si sia consolidato da quando ci si è resi conto che l’arte è, era, diventata un business  ( come ci ha ricordato, pubblicamente, il sig. Germano Celant alla presentazione della sua mostra Arti/Architettura a Genova nel 2004).  

L’ingresso aggressivo del mercato nel mondo dell’arte ha trasformato i connotati del proprio collezionismo, facendolo equiparare ad un collezionismo generico, che valorizza il pezzo unico, originale fine a se stesso, come la moneta con la bandiera sbagliata che vale più delle altre proprio per quell’errore di disegno e non per altro. L’originalità della ricerca, che era un valore importante dell’arte moderna e che ha permesso a molti artisti degli inizi del Novecento di produrre opere eccelse, anche per le loro implicazioni filosofiche e culturali, si è svuotata del proprio significato.

L’arte contemporanea non ha legami con la storia, non ha memoria, non ha passato: per essa esiste solo il presente e il futuro ( come un tipico oggetto mercantile). In questo si differenzia potentemente dall’arte moderna, la quale ha sempre mantenuto un dialogo col passato, anche per contrapposizioni forti ma sempre considerandosi parte di uno sviluppo senza fine.  Oggi no, col contemporaneo si riparte sempre da zero, si rinnova l’immagine per creare aspettative diverse e quindi nuovi acquisti; il fine è questo.  Ed è per questo che oggi, contemporaneamente esistono artisti moderni e artisti contemporanei, e, ovviamente, io mi considero tra i primi.

 

Parli spesso di ‘memoria’ come se tale concetto fosse un elemento valoriale dell’arte visuale, per lo meno del tuo lavoro, ce ne spieghi il motivo?

Volentieri, alla fine degli anni Ottanta, a seguito di un bellissimo saggio di Frances Yates si sviluppò una curiosa attenzione verso quello che i filosofi, Paolo Rossi ad esempio, definirono un “fossile intellettuale” ovvero l’Arte di Memoria. 

Molto in sintesi l’aspetto tecnico della proposizione è un sistema di memorizzazione di concetti legati a luoghi fisici: pensare al luogo avrebbe dovuto evocare il concetto. La questione posta in questi termini diventa un po’ macchinosa ma il procedimento Luogo/idea mi catturò al punto che iniziai ad elaborare il pensiero che la Memoria in se fosse un elemento ideale, ovvero una matrice di contenuti simbolici che stanno alla base del segno, sia nella sua accezione di senso che in quella di significato. 

A seguito di questi studi scrissi un breve saggio “Arte come Arte di Memoria” che raccoglie le idee base per il lavoro successivo.

Quindi memoria non solo in termini temporali,  quali evocazione di concetti e immagini del passato: leggi ricordo, bensì in termini creativi quale matrice emblematica di significati ed esperienze vissute e depositate nel concetto di  arte quale lo concepisco io.

a cura di Carlo Romano

“Fogli di Via”, marzo-luglio 2017