Rocco Lomonaco

cobra in Congo

Questo Con gli spiriti in corpo. Transe, estasi, follia d'amore (recentemente stampato da Bollati Boringhieri) non è l'ultimo libro dato alle stampe, ma è il primo che consenta al lettore italiano di prendere nota della ricca rete d'interessi e relazioni che innerva anche gli altri lavori dell'antropologo Luc Zangrie, alias de Heusch (Bruxelles 1927); se il seguente Pouvoir et religion del 2009 indaga i rapporti tra antropologia e storia, concentrandosi sulla religiosità sacra nei popoli sprovvisti di scrittura (e riposizionando la democrazia come episodio di una storia molto più vasta) qui sono le tante sfumature che trascolorano da possessione a sciamanesimo ad occupare la parte etnografica del suo ingegno: rapimento mistico cristiano, amour fou o stregoneria. Almeno di follia amorosa l'autore, scherzando, si proclama esperto essendosi sposato quattro volte e come nel suo agire ha cercato di non farsi rinchiudere nelle cinte accademiche, dove talvolta si nasconde l'indifferenza politica dietro l'alibi della “distanza etnografica”, così in queste pagine prova a fluidificare, ricorrendo a temi ed argomenti lontani dall'antropologia strutturale di stretta osservanza, la polarizzazione convenuta di sciamanesimo e possessione.

Quando si fece conoscere, alcuni anni dopo il primo soggiorno biennale in Congo, attraverso opere sull'incesto regale, sulle popolazioni ruandesi e sui miti della regione equatoriale, via via più persuaso che la sacralizzazione del potere sia alla base e non il risultato dello Stato, de Heusch aveva già una storia personale di cui la qualifica di discepolo di M. Griaule e C. Lévi-Strauss era solo un episodio. Lo studioso di riti bantu, prima di insegnare antropologia presso la libera università di Bruxelles e degli incarichi all'École Pratique parigina, apprese la tecnica cinematografica, fin da studente universitario, al fianco di Henry Storck (“quando partii per l'Africa nell'autunno 1952 Storck mi aveva insegnato tutto quel che sapevo sui film, come un Maestro medievale trasfondeva la propria arte nell'apprendista”) rendendosi, insieme al “documentarista” in fuga dall'occidente Jean Rouch, promotore dell'antropologia visiva sia attraverso la realizzazione di film etnografici che come segretario del Comitato Internazionale del Film Etnografico. Tra i primi si ricordano non soltanto i reportages sul Ruanda (compreso il genocidio del 1994), ma pure il peculiare sguardo sul suo Belgio, da Gestes du Repas (1958) allo scottante Quand j'étais Belge (1999) sull'aggravata bipartizione tra fiamminghi e valloni: elogio della bâtardise contro i sogni identitari e mortiferi e dunque antidoto ai veleni  separatisti del proprio paese, argomento pure di Postures et imposture (1997) sul venire meno del suolo patrio, viaggio nella notte politica, non solo belga, di patria, etnia e nazione.

Originale fu Rouch nel tentativo di conciliare l'irreconciliabile, lo spirito dei due padri fondatori, Vertov e Flaherty; riprendendone talune suggestioni, senza tentare di documentare l'impensabile (come succedeva al regista dei Maitres Fous) riassumibile nell'eterno ricominciare della cosmogonia dogon, de Heusch ha indagato le deformazioni operate dall'ideologia coloniale e dal regime repubblicano sulle popolazioni africane e su millenarie regalità sacre.

Ma fu con il film Perséphone (1951), corto poema drammatico di argomento mitologico che de Heusch saldò un debito con le frequentazioni giovanili degli “Ateliers du Marais”, il falansterio di artisti dove si legò d'amicizia prima con Alechinsky e successivamente con altri componenti di Cobra che accompagnerà nell'ombra seguendone i passi oltre la dispersione. Imprinting mai cancellato se, parallelamente alla ricerca e all'insegnamento, si concesse l'agio di dedicare studi e film, dopo lo stesso Alechinsky, anche a Dotremont oltre che a Magritte e al padre comune Ensor. Svago non dilettantesco ma esempio di fedeltà costante e di riuscita ai livelli più alti, diversamente dalla sconfitta patita dall'autista frustrato protagonista del suo film di finzione del 1967 Giovedì canteremo come domenica (sceneggiato con Hugo Claus).

L'arte moderna, secondo de Heusch, deve scuotere lo spirito con gesto sovrano e sospendere per un momento la morale del lavoro e la logica del rendimento, ma da un discreto agitatore e praticante dell'abbattimento di paratie tra i modi di espressione artistica non aspettiamoci la violenza, la rivolta o l'esasperazione che incendiavano le opere di Cobra: quelle stesse cose de Heusch andò forse a cercarle in Africa e ripensandole non smise di osservare la permanenza del sacro nello stesso moderno ed emancipato Leviatano. Ammirando in Dotremont la mano libera per la pittura, una volta sospesa ogni attività verbale e ogni riferimento al linguaggio articolato, e in Magritte il potere sovrano dello humour, “sola possibile negazione della morte” (volto com'è a deridere tanto la fisica che la metafisica) e vietandosi i logogrammi del primo e gli inganni sottili del secondo, de Heusch ha scelto di operare per la corrosione della rigidità burocratica che accosta ogni scrittura all'epitaffio. Preferendo parlare, al plurale, di “sistemi sacrificali” si è trovato così a rimettere in gioco Frazer contro Girard, il re divino (il re-mago) contro la teoria della violenza primordiale (fondamentale) e l'esemplarità del capro espiatorio, criticando l'illusione che sul “sacrificio” tutto fosse stato detto, un secolo fa, da Mauss e Hubert a partire perlopiù dai riti vedici letti con una griglia giudaico-cristiana. Temi che forse non appassionano come ai tempi delle scorpacciate di strutturalismo e scienze umane, ma qualificarli di “lana caprina” non dovrebbe vietare di valutare uno degli obbiettivi di de Heusch: evidenziare le divisioni dove si è voluto vedere il prevalere della comunicazione, sottolineare la disgiunzione fin dentro i riti sacrificali, la messa a distanza degli dei ristabilendo la separazione tra mondo soprannaturale e mondo umano e all'interno di questo fra gli stessi uomini: uomini uniti intorno agli dei sulla base di una separazione preliminare. La compatriota K. de Villiers dedicandogli un documentario avrà buon gioco ad intitolarlo Une pensée sauvage.