Charles de Jacques

il Journal di Larbaud

Sospesa fra modernismo e tradizione, l’opera di Valery Larbaud è mal conosciuta. Si tratta per altro dell’opera di un francese cosmopolita, apparentemente sbadato nei confronti delle patrie lettere e piuttosto affine, nella sostanza, a certa eccentricità inglese (Larbaud era anglista) contaminata dall’amore e dall’interesse che portava all’Italia (sposò, per giunta, una genovese, della Liguria imparò la parlata e in Liguria attese ad alcune sue opere). Non è un caso che Larbaud venga ricordato soprattutto quale traduttore di Joyce in francese e come uno dei due fondamentali ambasciatori (l’altro era Cremieux) della letteratura italiana in Francia (al rapporto fra Larbaud e l’Italia si dedicherà Ornella Ruggiero in un libro insuperato pubblicato dalla Arti Grafiche Lampo nel 1963).

Mal conosciuta che sia, la sua rimane l’opera di un classico novecentesco, cui probabilmente troppa popolarità non si addice alimentandosi, viceversa, di una sotterranea reputazione dandistica. Ricco, e non poco, come il personaggio del suo (“sperimentale” quanto più “british excentrics”) famoso romanzo (Bookever per l’ultima edizione italiana)  A. O. Barnabooth, era un viaggiatore di tutto rispetto. Tuttavia “sospeso”, anche in questo caso, come ha scritto Valerio Magrelli, fra velocità e lentezza. Soggiornava a Portofino ed era pieno di ammirazione per la Riviera italiana.

Nato a Vichy nel 1881 (vi morirà nel 1957) si sentirà nondimeno molto parigino (raccontava di aver scoperto Parigi a sei anni). Va comunque notato che a far conoscere la vita, e Parigi, ai ragazzi del cattolicissimo collegio (“cosmopolita più ancora di un’esposizione universale”) raccontato in Fermina Márquez (Neri Pozza) interverrà prepotentemente l’America del Sud, cosìcchè “le truppe notturne di Santos Ituria e del negro Demoisel conducono il lettore nei caffè e nei cabarets del Quartiere Latino e di Monmartre” (Gabrielle Moix in Valery Larbaud et la France, Institut d’Etude du Massif Central, Clermont Ferrand 1990).

Anche Barnabooth è sudamericano, e in questa “fuga” latina c’è dunque da cogliere ciò che Larbaud diceva di sé  tramite il personaggio: “sono un gran patriota cosmopolita”. Altrettanto sono i suoi amici -  un irlandese, un russo e un francese - come lui ricchi vagabondi. Il matrimonio metterà la parola “fine” (“le avventure amorose”, suggeriva Barnabooth, “cominciano nello champagne e finiscono nella camomilla”).

Di Larbaud – che fu, non lo si trascuri, uno dei fondatori della “NRF” - a distanza di molto tempo dalla sua prima edizione, è stato pubblicato quest’anno in Francia da Gallimard, prefato, con testo ristabilito e annotato da Paule Moron, il Journal, 1600 pagine  fra le quali si scorgono i nomi degli scrittori stranieri che l’autore fece conoscere ai francesi: da Rilke a Ungaretti, da Faulkner a Gomez de la Serna, da Whitman a de Queiroz, dalla Mansfield a Butler e, ovviamente, a Joyce, non senza imbattersi polemicamente in Sylvia Beach e Adrienne Monnier, che della scoperta di Joyce (“un mosaicista” per Larbaud) si presero quasi tutta la gloria (Valery Larbaud,  Journal, Gallimard, 2009).

Pierre Assouline – celebre giornalista letterario d’oltralpe cui si devono alcune biografie di scrittori – recensendo il pesante tomo ha osservato che se si deve chiamare Journal, allo stesso titolo si potrebbe  parlare di Diary, dal momento che Larbaud trascrisse in lingua inglese i suoi pensieri per diversi anni. Si torna dunque continuamente al temperamento di viaggiatore proprio dell’autore così da entrare in dettagli che riguardano il clima di certi giorni in certi posti, la luce che vi si osserva, i cambiamenti subiti da caffè e alberghi i quali – in un’epoca turbolenta di faziosi scontri – ci fanno sentire sempre altrove, in una “sorta di teoria della ricchezza”, come è stato osservato, che viene cadenzata da parole e frasi scritte in tutte le lingue europee.