Pierangelo Castagneto
i linguaggi del corpo. Modelli di virilità, discipline fisiche e società dei consumi in America dall’età vittoriana agli anni Settanta.
>
John F. Kasson, Houdini, Tarzan, and
the Perfect Man: The White Male Body and the Challenge of Modernity in America,
Hill & Wang 2001, pp.320
>
John D. Fair, Muscletown USA. Bob
Hoffman and the Manly Culture of York Barbell, Pennsylvania State
University Press 1999, pp.420
> Tom
Pendergast, Creating the Modern Man:
American Magazines and Consumer Culture, 1900-1950, University of
Missouri Press 2000, pp.320
L’importanza e i significati delle culture del
corpo nella società contemporanea sono ormai da tempo un frequentato terreno
d’indagine da parte di un considerevole numero di studiosi sia in ambito
storico sia in quello dello scienze sociali. Senza per altro che la battaglia
per un definitivo affrancamento di tematiche intese come minori o non
scientificamente degne sia ancora giunta a buon fine (in particolare per il
caso italiano dove, se si esclude un approccio ideologico, tali argomenti
raramente fuoriescono da un dominio giornalistico-amatoriale), l’analisi delle
dinamiche e degli apparati che, storicamente, delle culture del corpo, hanno
determinato i codici e i modelli di riferimento risulta di particolare
interesse proprio perché tende a definire uno degli elementi che potrebbe
essere assunto come paradigmatico della modernità.
Negli Stati Uniti –il paese che forse in maniera
più “naturale” dialoga attraverso linguaggi del corpo-, grazie a contributi
giunti sia dalla storiografia ufficiale sia da studiosi indipendenti ma spesso
anche da “praticanti”, come nel caso di ex-atleti di diverse discipline
sportive, desiderosi di raccontarsi, tali tematiche hanno da tempo acquistato
non solo dignità accademica ma ricevuto l’attenzione che sembrano dover
meritare in termini non unicamente di epifenomeno della storia sociale o come
appendice, del genere cambiamenti del costume, di analisi complessive della
società.
Di recente, l’attenzione degli studiosi si è
soffermata sulle dinamiche che, nella società americana, tra la fine
dell’Ottocento e il secondo dopoguerra, hanno in un primo tempo avviato e poi
determinato un’ampia trasformazione dell’idea stessa di virilità, del concetto
di educazione fisica del corpo maschile moderno fissandone gli attributi in
standard ben caratterizzati e riconoscibili dando vita ad un insieme di
pratiche ormai largamente diffuse legate al miglioramento e al benessere del
corpo. E’ la nascita insomma di una “nuova cultura fisica” che imporrà un
modello maschile post-vittoriano nel quale una ostentata prestanza sarà
coniugata alla disciplina, il controllo del mondo esterno al superamento dei
limiti e delle leggi naturali, la militarizzazione del corpo al patriottismo ma
nella quale, per contro, resteranno irrisolte contraddizioni di fondo relative
al rapporto con il genere femminile e la razza.
In questa prospettiva, varrà la pena di
ricordare almeno due delle figure -per altro solo incidentalmente oggetto di
studio dei tre contributi qui presi in considerazione- che posero le premesse
per tale mutamento. Sono figure di confine, pionieri che, sebbene ancora
strettamente legati ad una visione morale del corpo, tuttavia operarono in
funzione di un cambiamento nell’ambito del rapporto tra educazione e cultura
del fisico e sviluppo della società, proprio in corrispondenza di una realtà,
quella dell’America del secondo Ottocento, caratterizzata da un tumultuoso
dinamismo. Il primo di questi che potremmo definire riformatori del corpo è
sicuramente Dioclesian “Dio” Lewis (1823-1886), un tipico prodotto del Secondo
Grande Risveglio (1800-1830) che, dal revivalismo evangelico trasse un lezione
finalizzata al miglioramento individuale attraverso l’autodisciplina destinata
a contrastare, anche “igienicamente”, le sfide dell’emergente società
industriale. Dopo aver tentato la carriera medica senza successo, -si convertì
infatti allo studio e all’esercizio di pratiche omeopatiche- negli anni
Cinquanta Lewis sostenne la causa di una delle tante “temperance society” sorte
all’epoca, i Sons of Temperance, e nel corso di numerose conferenze predicò i
dogmi del suo vangelo salutista basato
principalmente sull’esercizio fisico e sulla moderazione. A differenza
dei sostenitori di programmi di allenamento con pesanti pesi, per altro
confacenti ai soli maschi giovani, egli elaborò un sistema di educazione fisica
leggero, adatto a ogni età e ad entrambi i sessi, che si serviva di attrezzi
facilmente reperibili o addirittura fabbricabili quali manubri, anelli, aste.
Nel 1862, Lewis scrisse The New
Gymnastics for Men, Women, and
Children, un fortunatissimo libro -ebbe ben venticinque edizioni- nel quale
venivano illustrati i suoi sistemi di allenamento. Negli stessi anni, Lewis
fondò a Boston la prima scuola per preparare insegnanti di educazione fisica,
il Boston Normal Institute for Physical Education, e un collegio femminile dove
erano seguiti i suoi principi in campo pedagogico fortemente improntati ad un
rapporto meno gerarchico tra studenti e professori. Seppur contrario ad ogni
forma di proibizionismo, Lewis appoggiò la battaglia condotta dalle numerose
associazioni femminili nate nella seconda metà dell’Ottocento che miravano a
moralizzare la società americana, oltre che a rivendicare, per le donne,
visibilità e diritti. In definitiva, Lewis diede voce a quella fede nel
progresso sociale, tipica dell’Età Dorata, immaginando un percorso individuale
di miglioramento, una soluzione volta a risolvere il dissidio presente in ogni
essere umano tra vizio e virtù.
Assai più pittoresca è invece la figura
di John Harvey Kellogg (1852-1943). L’uomo noto per aver rivoluzionato la
colazione di milioni di americani, nacque in una famiglia che aveva accolto i
principi della Chiesa degli Avventisti del Settimo Giorno. Laureatosi in
medicina, nel 1875 Kellogg, profondamente influenzato dalla concezione
salutista della setta, divenne assistente editoriale della periodico Health Reformer. Fu da questo momento
che egli manifestò un deciso interesse quelle che erano le consuetudini
alimentari e le abitudini di vita dell’epoca. Nel suo Proper Diet for Man tracciò così le basi per quello che egli amava
definire “vivere biologicamente”: vegetarianismo innanzitutto, astinenza dalle
bevande alcoliche, dal tabacco, dal caffè, uso di prodotti organici, il tutto
accompagnato ad un programma di esercizi fisici, passeggiate all’aria aperta,
limitata attività sessuale e, infine, una corretta scelta degli abiti da
indossare.
Nel 1887, allorquando gli Avventisti
chiesero a Kellogg di occuparsi di un centro medico che avevano fondato a
Battle Creek, in Michigan, i suoi principi poterono essere applicati su vasta
scala. Quello che venne rinominato Battle Creek Sanitarium alloggiò infatti
circa 700 pazienti: qui Kellogg non solo diffuse le sue idee salutiste ma
continuò ad attuare pratiche mediche più ortodosse con eccellenti risultati –
Kellogg si vantava di aver eseguito 165 operazioni all’addome senza che un solo
paziente fosse morto-. Egli deve però la sua fama imperitura ad un altro tipo
di iniziativa. Nel tentativo di variare la certo non entusiasmante dieta
proposta ai degenti del Sanitarium, Kellogg produsse un tipo biscotti contenenti
diversi cereali cotti al forno che presero il nome di “Granola”. Non del tutto
soddisfatto del risultato, ideò un processo che trasformava i biscotti in
fiocchi di singoli cereali, frumento, riso o granoturco. L’idea, sviluppata a
livello commerciale dal fratello Will, che brevettò il procedimento, avrebbe
modificato le abitudini alimentari di una nazione: a partire dai primi anni del
Novecento, ogni mattina, sulla tavola delle famiglie americane non sarebbero
più mancati cereali a colazione. Kellogg sviluppò altri prodotti alimentari che
potremmo definire d’avanguardia come le bistecche ottenute dal glutine di
frumento, il latte di soia o ancora il burro d’arachidi senza ricavarne un
successo paragonabile a quello dei fiocchi di cereali. Fedele al suo credo
nutrizionista corredato da una serie di pratiche fisiche e da una condotta di
vita “biologica”, continuò la sua attività di riformatore per alcuni decenni.
Kellogg, come Lewis, fortemente motivati da un sentimento morale d’ispirazione
religiosa, furono tra i primi a stabilire un nesso tra il progresso della
società e l’educazione fisica dell’individuo che prevedeva una condotta di vita
regolata in sintonia con i ritmi biologici della natura; due filosofie
salutiste che nel corso del secolo troveranno molti adepti.
Decisamente diversi sono i personaggi scelti da
John F. Kasson nel suo Houdini, Tarzan,
and the Perfect Man: The White Male Body and the Challenge of Modernity in
America, per dar testimonianza delle nuove rappresentazioni del corpo
maschile emerse tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, i cui
connotati predominanti esalteranno, come si vedrà, superiorità razziale e di
genere.
Figlio di un rabbino ungherese immigrato negli
Stati Uniti nella seconda metà dell’Ottocento, Ehrich Wiess, meglio noto col
nome di Harry Houdini, costituisce il primo caso preso in esame da Kasson. A
seguito di diverse peregrinazioni familiari nel Nuovo Mondo, il giovane Ehrich
giunse nel 1890 a New York dove, insieme ad un amico diede vita ad uno spettacolo
di magia, “The Brothers Houdini”: non è ben chiaro chi scelse questo nome
mentre il mal pronunciato soprannome di Ehrich, “Erie”, divenne Harry . Per
alcuni anni i due partner –ai quali si era aggiunta Bess, la moglie di Harry - misero in scena spettacoli illusionistici di
vario genere senza per altro riscuotere grandi successi. La svolta nella loro
carriera si verificò a partire dal 1895 quando Harry introdusse nello
spettacolo un numero che si rivelò di grande effetto: in un minuto circa
riusciva a liberarsi da ogni tipo di manette. Rapidamente la popolarità dei
Brothers Houdini crebbe. Harry arricchì il suo repertorio con tre nuove
sensazionali fughe o liberazioni: nel 1899, a Los Angeles, riuscì a liberarsi
di una camicia di forza, sei settimane dopo saltò da un ponte incatenato ai
polsi e ai fianchi per riemergere dalle acque libero poco dopo, infine evase da
una cella, dove era stato rinchiuso, in soli tre minuti. Il successo delle sue
performance attirò l’attenzione di Martin Beck, un noto manager, che organizzò
un tour europeo per quello che tutti ormai chiamavano il “King of Handcuffs”. A
Mosca, Houdini compì forse una delle sue più eclatanti imprese riuscendo ad
evadere da una cella di sicurezza d’acciaio usata per trasportare i prigionieri
in Siberia. Ma le sfide di Houdini continuarono una volta ritornato negli Stati
Uniti. Nel 1915, a New York, si liberò, davanti ad una folla di centomila
persone, di una camicia di forza, appeso alla cima di un grattacielo. Questa e
altre stupefacenti esibizioni diedero un’incredibile popolarità a Houdini. I
suoi interessi non si limitarono però unicamente al mondo dell’illusionismo.
Sebbene non avesse ricevuto una particolare educazione, Houdini volle entrare
nel mondo delle lettere e, nel 1906, pubblicò una rivista, The Conjurers’ Monthly, collaborò con i maggiori quotidiani del
paese, e diede alle stampe sei volumi di scritti vari relativi all’arte della
magia. Quasi naturalmente il cinema si interessò a lui: nel 1918 lo troviamo
infatti impegnato davanti alla macchina da presa come protagonista in cinque
cortometraggi a puntate. All’indomani della Prima Guerra Mondiale, Houdini
tentò di dare un diverso indirizzo alla sua carriera. Attratto per un breve
momento dallo spiritismo –ebbe, a questo proposito, un contatto con il gruppo
che praticava sedute spiritiche in casa di Sir Arthur Conan Doyle- nel 1926,
mise in scena quella che secondo molti può essere considerata la sua più
eccezionale performance. In una piscina dello Shelton Hotel di New York venne
rinchiuso in una gabbia di ferro e immerso in acqua per un’ora e mezzo. Il
grande illusionista, l’uomo capace di vincere ogni legge fisica e limite umano,
morì nel 1926 per un banale attacco di peritonite.
Concittadino di Kant, Eugen Sandow, il secondo
dei personaggi di Kasson, – il cui vero nome era Friedrich Wilhelm Muller- ,
emigrò dalla nativa Prussia prima in Belgio e poi in Olanda sul finire
dell’Ottocento. Ben poco si sa della sua gioventù; secondo alcuni frequentò
l’Università di Gottinga e fu allievo del leggendario professor Louis Durlacher
che per primo lo avrebbe introdotto alla pratica del sollevamento pesi. In ogni
caso fu ad Amsterdam che Sandow si guadagnò una certa popolarità in virtù della
sua straordinaria forza fisica e delle sue memorabili gare di pesistica con
pittoreschi personaggi dai nomi roboanti, Charles “Cyclops” Sampson o Henry
“Hercules” McCann. Al di là di queste vere e proprie competizioni di
sollevamento pesi, durante le quali Sandow stabilì pure diversi record, egli
iniziò ad esibirsi in spettacoli di grande successo durante i quali spezzava
catene coi bicipiti, cavi con il petto, e forniva altre prove di forza. Nel
1983 lo troviamo a Chicago, all’esposizione colombiana, dove un geniale
promoter, Florenz Ziegfield Jr. lo ingaggia per un tour negli Stati Uniti. Ben
presto Sandow agli occhi del pubblico americano diviene il simbolo della forza
fisica e della virilità. Nello studio cinematografico di Thomas Edison a West
Orange, New Jersey, la sua possente figura viene immortalata per i posteri su
di una rudimentale pellicola di celluloide ideata da George Eastman mentre il
celebre antropometristra di Harvard
Dudley A. Sargeant lo esaminò dichiarando di essere di fronte ”al più
stupefacente esemplare della razza umana”. “The Perfect Man”, come Sandow era
stato ribattezzato, fece ritorno in Europa nel 1897 e, nel giro di poco tempo,
aprì una dozzina di istituti di cultura fisica a Londra e in tutta
l’Inghilterra nei quali venivamo insegnate le tecniche di allenamento e di
alimentazione da lui messe a punto. Proprio mentre l’opinione pubblica inglese
apprendeva con sconcerto la notizia dell’elevato numero di giovani britannici
dichiarati inabili al servizio per la guerra Anglo-boera, le perfette forme
fisiche di Sandow venivano utilizzate per ricavare un modello che raffigurasse
il rappresentante ideale della razza caucasica
nel British Museum. Ma la sua popolarità era destinata ancora a
crescere. Nel settembre 1901, alla Royal Albert’s Hall di Londra, davanti ad un
pubblico di 15.000 persone, Sandow organizzò quella che può essere considerata
la prima competizione di cultura fisica durante la quale all’abilità nel
sollevare pesanti pesi veniva preferito un armonico sviluppo muscolare del
corpo – in America, si terranno in quegli stessi anni analoghe manifestazioni
promosse da Bernarr Macfadden-. Concluso un viaggio intorno al mondo, Sandow si
dedicò alla stesura di Life is Movement
(1919), una sorta di manuale che instradava verso una condotta di vita
fortemente improntata ad una rigorosa disciplina fisica. All’apice del suo
successo, personaggi come Jack London o il presidente degli Stati Uniti
Theodore Roosevelt sostennero la bontà dei sui insegnamenti, un riconoscimento
che gli venne tributato perfino dalla corona britannica: Giorgio V lo nominò
infatti “Professor of Scientific and
Physical Culture”.
Il terzo personaggio preso in considerazione da
Kasson ha compiuto le sue gesta non nel mondo reale bensì nel regno
dell’immaginazione letteraria. Tarzan potrebbe facilmente essere indicato come
uno fra i più popolari eroi della letteratura del Ventesimo secolo, una sorta
di icona che da quasi un secolo conserva un fascino particolare su un pubblico
di ogni età e di ogni estrazione sociale grazie, ovviamente o forse
soprattutto, alle innumerevole versioni cinematografiche e televisive che lo
hanno visto protagonista delle più avvincenti avventure. Quanto e che cosa
abbia suscitato un così grande e
duraturo interesse nella figura del giovane nobile inglese abbandonato nella
giungla che della giungla e dei suoi abitatori diventa dominatore è stato più
volte analizzato. Questo personaggio, nel quale erano coniugati il primitivismo
di Rousseau al vitalismo di Kipling, fu concepito dalla fantasia di Edgar Rice
Burroughs, figlio di un ex-ufficiale nordista, respinto a West Point, che dal
1896 al 1898 servì a Fort Grant, Arizona nella cavalleria degli Stati Uniti.
Ottenuto il congedo per problemi di salute, nel 1900 Burroughs fece ritorno a
Chicago dove trovò impiego nell’azienda paterna. Insoddisfatto di questa
sistemazione, per circa un decennio, il futuro inventore dell’Uomo Scimmia,
iniziò una serie di peregrinazioni attraverso il paese svolgendo ogni tipo di
attività: fu commesso viaggiatore, vendette lampadine, tentò di arruolarsi
nell’esercito cinese, si occupò del settore paramenti sacri alla Sears, Roebuck
& Company, tentò di spacciare, in combutta con un compare, una presunta
cura per l’alcolismo, provò infine a commercializzare un tipo particolare di
tempera matite. Fu solamente nel 1911 che Burroughs comprese quale sarebbe
stato il suo destino: lo scrittore. Il primo romanzo, Under the Moons of Mars pubblicato nel 1912, un fantasioso racconto
di fantascienza ambientato sul pianeta rosso, gli valse la stupefacente somma
di $400. Ma nel frattempo egli aveva già iniziato a scrivere l’opera che lo
renderà immortale, Tarzan of Apes.
Dapprima pubblicato a puntate su alcuni giornali, il romanzo apparve nel 1914 e
divenne immediatamente un bestseller nazionale. Nel 1916, Tarzan of Apes passò sul grande schermo con Elmo Lincoln nel ruolo
di protagonista: fu un successo assoluto che incassò più di un milione di
dollari. La fortuna cinematografica di Tarzan continuò e raggiunse il suo apice
con l’interpretazione di John Weissmuller, campione olimpico di nuoto, che dal
1932 al 1948, per così dire, vestì i panni dell’Uomo Scimmia ben dodici volte
con accanto Maureen O’Sullivan nel ruolo di Jane. Da notare come in questi anni
altri tre campioni olimpici, Buster Crabbe, Herman Brix e Glenn Morris,
interpretarono seppur con minor successo il ruolo Tarzan.
Nel tessere le tre vicende in un’unica
prospettiva, -tenendo conto anche di una ricca varietà di elementi presenti
della cultura popolare dell’epoca- Kasson ha cercato di indicare un percorso
attraverso il quale riconoscere le rappresentazioni e i linguaggi del corpo
maschile nella società americana tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del
Novecento. Se Houdini, l’intrattenitore, l’uomo di spettacolo che ad una
prodigiosa prestanza fisica univa una brillante intelligenza, i cui molti
segreti e abilità restano ancor oggi sconosciuti, rappresentò l’individuo teso
al superamento delle barriere imposte dalla leggi naturali, capace di liberare
un corpo sempre più imprigionato da costrizioni esterne e di padroneggiare il
mondo della modernità, Sandow, l’uomo perfetto, incarnava invece le pure
prerogative fisiche maschili, su tutte la forza, che tendevano a ribadire la
superiorità del “white male body”; un corpo forse insidiato da una crescente
presenza femminile nella società. Tarzan, la creazione di Burroughs, infine,
riassume in un certo senso molti di quegli elementi sui quali venne plasmato
l’ideale maschile in questa fase storica di transizione: dominio sulla natura e
sul disordine –le giungle, africana e urbana- attraverso attitudini fisiche
ampiamente esibite; subordinazione femminile, -“Me Tarzan, you Jane”- e
superiorità della “whiteness”, in un mondo, sotto il profilo razziale, sempre
più complesso.
La storia di Robert Hoffman, ricostruita
con grande abilità da John D. Fair in Muscletown
USA. Bob Hoffman and the Manly Culture of York Barbell, potrebbe essere una
delle tante “storie americane” che così spesso forniscono materiale per lo
schermo cinematografico. Nato in Georgia sul finire dell’Ottocento, Hoffman, già
eroe decorato durante la Prima Guerra Mondiale, si stabilì a York nei sobborghi
di Pittsburgh dove iniziò ad interessarsi di sport e di educazione fisica.
Fortemente influenzato dalla lettura della rivista Strength, dedicata alla pesistica e al potenziamento muscolare,
negli anni Venti, Hoffman iniziò l’attività agonistica con lusinghieri
risultati vincendo diverse gare di sollevamento pesi nella categoria dei
massimi. Ma è a partire dai primi anni Trenta che il suo nome salì alla ribalta
nazionale della pesistica sia come promoter di competizioni, a capo della
Amateur Athletic Union e come allenatore di un formidabile team di atleti, la
“York Gang” che per anni dominarono la scena internazionale -ai Giochi Olimpici
del 1936, disputatisi a Berlino, un pesista della “York Gang”, il peso piuma
Tony Terlazzo, fu il primo americano a vincere una medaglia d’oro olimpica-
sia, aspetto tutt’altro che secondario, come fondatore dell’ormai leggendaria
York Barbell Company, attraverso la quale avviò la produzione e la
commercializzazione di attrezzi, soprattutto manubri, per l’allenamento.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, in un momento in cui l’esibizione
della forza fisica sembrava celebrare la superiorità, l’abbondanza e la fiducia
della nazione stessa, le attività di Hoffman, quella commerciale e quella
agonistica, raggiunsero forse l’apice; York, la Muscletown, era diventata la
Mecca dei pesisti americani. John Grimek, in certo senso, può essere
considerato l’icona del vangelo predicato da Hoffman. Atleta dalle splendide
proporzioni, “la reincarnazione di Ercole, con la grazia di Apollo” come
scrisse un giornalista, Grimek, nel 1940, aveva trionfato al Mr. America,
ribadendo in analoghe competizioni la sua superiorità durante il decennio. Ma
fu proprio sul finire degli anni Quaranta che sull’impero di Hoffman
cominciarono ad addensarsi le prime nubi: nel 1947 due fratelli, Joe e Ben
Weider diedero vita ad un’organizzazione, la International Federation of Body
Builders, che da questo momento rivaleggiò con la AAU per il predominio nel
cosiddetto “iron game” sia in campo agonistico sia, soprattutto, in quello
della produzione e vendita di attrezzature sportive per pesisti. Non solo:
nuovi standard fisici più legati al culturismo in senso stretto che alla pesistica
cominciarono ad essere preferiti durante le competizioni. Grimek, che nel 1948,
seppur tra mille polemiche, era ancora riuscito ad ottenere il titolo di Mr.
Universo a spese del leggendario Steve Reeves, dovette ben presto cedere lo
scettro al simbolo del “nuovo corso”, Clarence Ross; ormai gli atleti non
venivano più dalle fabbriche di Pittsburgh ma dalle spiagge della California.
L’ultima grande performance dei pesisti cresciuti alla scuola di Hoffman fu il
trionfo ai giochi Olimpici di Helsinki nel 1952 –cinque medaglie d’oro-; un
successo sui sovietici, soprattutto, che negli anni della Guerra Fredda risultò
di grande significato patriottico.
I tempi però stavano ormai rapidamente
cambiando. Il sollevamento pesi aveva perso in maniera definitiva terreno nei
confronti del bodybuliding; gli standard fisici “californiani”, che
privilegiavano una ricerca ossessiva della massa muscolare anche attraverso
l’assunzione di prodotti e farmaci più o meno leciti come gli steroidi
anabolizzanti -sostanze che per altro anche la York Barbell Company produsse,
le non troppo energetiche Hi-Proteen, senza ottenere grande successo- avevano
avuto il sopravvento nel mondo dell’ ”iron game”. Se però da un lato la
filosofia di Hoffman uscì gradatamente sconfitta da questo confronto così come
vani si rivelarono i suoi tentativi di riorganizzare, durante i primi anni
Sessanta, il movimento pesistico nel paese, non altrettanto si può dire dei
conti della York Barbell Company che, fino a metà degli anni Settanta,
risultarono più che soddisfacenti. L’ultima grande innovazione introdotta da
Hoffman fu probabilmente quella dell’ “isometric power rack”, un attrezzo
commercializzato nel 1962, che favoriva lo sviluppo muscolare attraverso
l’intensa contrazione dei muscoli stessi senza uso di pesi; un sistema di
allenamento questo largamente pubblicizzato da un atleta della York, Joe
Abbenda, che nel 1962 aveva trionfato a Mr. America.
Come Elvis Presley negli anni Settanta,
Hoffman offrì il suo aiuto a Nixon, ma sembrò deluso e disorientato, non più a
contatto con un mondo di cui era stato il re.
Personaggio ricco di contraddizioni, lontano dal rappresentare egli
stesso un modello di comportamento –soffriva di diversi disturbi, non era
particolarmente forte e usava pesi di alluminio per le esibizioni, truffò il
fisco ed ebbe una vita sessuale decisamente scandalosa-, Hoffman fu capace di
elevare la pratica di una disciplina sportiva ad una sorta di ideologia del
successo, riassumibile, come scrive Fair, in tre concetti: “ego, business and
sport”. Se l’aspetto commerciale, senza dubbio innovativo, del suo progetto
finì per sommergerne il dato educativo, a Hoffman va però riconosciuto il
merito non solo di aver accolto nelle palestre di York numerosi immigrati
italiani, slavi, asiatici nonché afroamericani ma di averli portati ai vertici
agonistici, fatto questo che decretò il tramonto di uno dei tanti pregiudizi,
la forza come prerogativa teutonica, che come altri aveva sancito una poco
realistica inferiorità razziale.
Negli Stati Uniti, sul finire del diciannovesimo
secolo, riviste che trattavano dei più svariati argomenti cominciarono a
raggiungere un sempre crescente numero di lettori. Nel suo saggio Creating the Modern Man Man: American
Magazines and Consumer Culture, 1900-1950, Tom Pendergast ha cercato di
ricostruire come dalle pagine di Esquire,
Cosmopolitan o dell’American Magazine sia emersa un nuovo
modello maschile che via via si allontanava dalla quello vittoriano, dominante
fino al volgere del secolo. Proprio in questi anni, grazie all’ idea di
abbassare il prezzo di copertina, portandolo all’accessibile somma di dieci
centesimi, –il prezzo era solitamente un quarto di dollaro- e in virtù di una
legge che riduceva le spese postali di spedizione sulle stampe, le riviste
raggiunsero enormi fasce della popolazione americana di ogni classe sociale
diventando il primo vero veicolo della cultura di massa. Il deus ex machina di questa rivoluzione fu
la pubblicità. Sempre più frequentemente realizzate e finanziate da abili
businessmen e dalla grande industria, queste pubblicazioni si nutrirono dei
contributi pubblicitari che potevano ora imporre ad una vasta platea prodotti e
beni di consumo, diventando così la perfetta espressione dell’emergente cultura
del corporate capitalism. Ciò segnò
anche, inevitabilmente, il declino di un tipo di celebri riviste quali l’Atlantic Monthly o l’Harper’s Bazar destinate ad un pubblico
limitato e colto, che proponevano articoli di un maggior interesse culturale e
che, in un certo qual modo, si assumevano il compito di fissare le regole del
buon gusto. McClure’s, Cosmopolitian e Munsey’s furono le prime riviste che, nel 1893, segnarono la
svolta. Curiosamente, a dispetto delle novità che i nuovi editori proposero
attraverso una tempestiva lettura dei mutamenti economico sociali della realtà
americana, rimaneva un’area nella quale essi preferirono restare fedeli agli
standard del passato. In queste riviste si continuò infatti a proporre una
visione di mascolinità ancora ben radicata nella cultura vittoriana che
propendeva per una scala di valori indefinitamente morali quali l’integrità, la
dedizione, l’onore, la domesticità. E’ a partire dal primo novecento che questa
dissonanza viene meno e la “old-fashioned manhood” lascia il posto a nuovi
paradigmi di virilità. Saranno altre riviste quali Esquire, True, Vanity Fair, Collier’s Weekly a stabilire i nuovi canoni. Per Pendergast, in
buona sostanza, questa ridefinita identità maschile deriverà la sua natura
dall’ethos consumistico della principale fonte di sostegno delle riviste
stesse, la pubblicità. Individualismo, successo, personalità, cura
dell’immagine e del proprio corpo, sono alcune dei concetti chiave che
connotano il carattere dell’uomo moderno in una società in piena evoluzione capitalistica
che, per sua parte, convalida e premia queste attitudini. Ben presto sarebbero
apparse riviste più specificamente dedicate alla valorizzazione di alcuni
aspetti di questo moderno ideale maschile quali la forma e l’educazione fisica
che contribuirono a stabilirne l’egemonia. E’ il caso dell’Athletic Journal, di Sporting
Life, o ancor di più di riviste specialistiche ma di grande successo
popolare come Strenght and Health,
voluta da Bob Hoffman, “The Father of World Weightlifting”, sulle cui pagine,
dal 1932 per più di cinquant’anni, venne promossa un’immagine di virilità
costruita nelle palestre e dietro la quale si muoveva una lucrosa attività
industriale.
In questa complessa epoca di transizione,
l’editoria era d’altra parte attenta all’emergere di nuove categorie di
individui all’interno della società americana. Howard P. Chudacoff in The Age of the Bachelor: Creating an
American Subculture (Princeton University Press, 1999), ne ha studiato una,
gli scapoli, partendo dal sensazionale dato del censimento del 1890 dal quale
risultavano single il 41.7 dei maschi americani sopra i quindici anni di età.
Chudacoff ha evidenziato due elementi che fanno capo a questa nuova realtà
sociale: da un lato il proliferare di spazi di socialità consoni allo stile di
vita degli scapoli, -club, palestre, sale da ballo, bar, etc.- dall’altro la
crescente attenzione riservata da molte delle riviste in precedenza ricordate a
questa categoria di individui che, sui
generis, rappresentava un modello di cultura maschile alternativa. Analoghe
considerazione potrebbero valere per un gruppo sociale decisamente diverso,
quello degli afroamericani. Secondo Pendegast infatti, l’analisi di riviste
come Colored American, Crisis, Opportunity o Ebony,
apparse a partire dagli inizi del Novecento ed espressamente rivolte al
pubblico nero, sembra indicare che l’affermazione di un moderno ideale maschile
elaborato dai bianchi spinse gli afroamericani a rapportarsi e a cercare
identificazione con una scala codificata di valori maschili. Così come i
bianchi diedero diversi contenuti all’idea del “self-made man” adattandola ai
tempi nuovi, i neri lottarono per negoziare uno spazio significativo per la
“black masculinity” in una cultura orientata a negare loro l’accesso.
In margine a questo aspetto della vicenda
e, più in particolare, riguardo al confronto “fisico” tra le due razze, è noto
come proprio all’inizio del secolo il concetto stesso di superiorità razziale
bianca avesse cominciato ad essere messo in discussione. La sfida giunse, del tutto
inattesa, da un ring di pugilato. A Sidney, nel 1908, Jack Jonhson, un nero texano, ebbe la meglio per arresto
del combattimento alla quattordicesima ripresa sul campione del mondo dei pesi
massimi, il bianco canadese Tommy Burns. Per la prima volta un non caucasico si
era impossessato dell’emblema stesso della virilità la corona dei pesi massimi
e aveva spezzato l’illusione della superiorità –fisica e mentale- razziale
bianca. Ma quello che per molti poteva essere considerato un intermezzo del
tutto occasionale si tramutò in un incubo, “il più scuro degli incubi” come
scrisse un giornalista, quando Jonhson, nel 1910, sconfisse l’americano Jim
Jeffries. L’evento lasciò l’intera nazione sconcertata: da questo momento
insieme alla persecuzione sportiva e non attuata nei confronti di Johnson,
costretto a lasciare gli Stati Uniti da accuse artificiose, iniziò in tutto il
paese la forsennata ricerca della Grande Speranza Bianca, dell’uomo capace di
ripristinare l’ormai intaccata supremazia della razza bianca. Un compito questo
assolto da Jess Willard a Cuba nel 1915. Ma al di là del dominio in una
competizione che, in quegli anni, veniva indicata da molti come attività
degradante e immorale, furono i comportamenti da “bad nigger” di Johnson fuori
del ring ad essere inaccettabili. La sua ostentata virilità, la sua arroganza,
le sue numerose amanti bianche, le sue spacconate, erano tutti elementi che la
società americana dell’epoca non poteva tollerare e non tollerò. Sarà il volto
assai più rassicurante di Joe Louis, a sua volta campione del mondo dei pesi
massimi dal 1937 al 1949, a comparire sulle pagine di Ebony; un mite “honorary white”, come lo chiamò sprezzantemente
Johnson, che di certo avrebbe alimentato alcuna insubordinazione razziale.
In definitiva Pendergast ha riconosciuto
senza dubbi il ruolo chiave che, a partire dal primo Novecento in forma sempre
più pressante col passare del tempo, ha svolto il consumismo nella
riformulazione delle nozioni base della virilità americana così come venne
presentata attraverso le riviste popolari. Ma a differenza di chi ha
negativamente giudicato l’influsso della cultura consumistica, egli la propone
come forza stimolante nell’ambito del mercato delle pubblicazioni di genere in
America. Molte delle riviste dell’epoca offrirono dunque diversi e più
complessi aspetti dell’identità maschile fornendo uno spazio aperto dove
pubblicitari, lettori e scrittori ridefinirono, interagendo, l’ideale maschile.