le voci che corrono

Jean Boullet*

> Denise Chollet, Jean Boullet, le précurseur, pref. Michel Déon, éd. Feel (France Europe èditions), Paris 1999

prefazione

Non ricordo la data precisa, ma doveva essere l'Ottobre o il Novembre del 1944, quindi dopo la Liberazione di Parigi, passavo davanti a una piccola galleria di boulevard Haussmann che esponeva dei disegni molto belli. All'interno, ce n'erano degli altri, molto strani, alcuni misteriosi. La sera stessa, il direttore di un settimanale, "Monde nouveaux", mi domanò un articolo sulle ultime mostre. L'articolo fu breve ma molto lusinghiero per il giovane disegnatore del quale sapevo punto. Jean Boullet scrisse per ringraziarmi e invitarmi a casa sua, in avenue d'Italie. Era un appartamento affacciato sul cortile, stracolmo di oggetti barocchi, di raffinate incisioni, di disegni di Cocteau, di Max Jacob. Scoprii un essere passionale, di squisita educazione, che parlando apriva delle porte, mostrando una curiosità, un sapere inconfutabile in terreni -innanzitutto il bizzarro - nei quali non mi ero mai avventurato fino a quel punto. L'amicizia si era presto instaurata. Presi ad ordinargli dei disegni per i giornali ai quali collaboravo. Illustrò una mia novella in un'edizione Sun a tiratura limitata. Al sabato, il "suo giorno", mi recavo abitualmente da lui. L'appartamento era sempre zeppo di inaspettati visitatori, di fatto -ma non solamente - il milieu omosessuale di Parigi: attori, musicisti, scrittori e anche qualche bella ragazza che l'amava per la sua volubilità e stravaganza. Era un curioso assembramento di scapigliatura, di arrivati e di arrivisti, di "gitons" e di "serieux", vecchi e giovani, e fra l'uno e l'altro una creatura innocente che scopriva, sgomenta, questa società barocca di rara libertà. Mi invitò una settimana in Sologne con un'amica, senza che io sapessi bene con cosa avremmo avuto a che fare, ma conservo di quel breve soggiorno un delizioso ricordo di vita campagnola, per quanto nessuno potesse essere meno campagnolo di lui. In treno, a casa, durante le passeggiate, non si separava mai da un quaderno che riempiva di disegni, schizzando i suoi giovani ed equivoci eroi, senza buttare uno sguardo intorno ma commentando tutto con irresistibile divertimento. Quella proprietà apparteneva alla sua famiglia, come egli pretendeva? Avevo conosciuto i genitori che conducevano nell'immobile di avenue d'Italie un commercio di pellicce di gatto. Due esseri, probabilmente, falsamente semplici. Il padre in blusa grigia, pipa in bocca, grossi baffi, voce tonante, la madre generosa, sicuramente più intelligente di quel che si poteva supporre a prima vista, in adorazione del figlio, visibilmente felice dell'amicizia che mi legava a Jean, più reticente, evidentemente, sulla teoria di amicizie ambigue che traversavano la corte senza rivolgerle il saluto, prendendola per la portinaia. Essi hanno senz'altro permesso a Jean di condurre una vita da artista.

Ci fu un momento in cui lo vidi vacillare, doveva essere verso il '47 o il '48: era la facilità ad incombere, il suo tratto si appassiva ed egli si sbrigava alla bell'e meglio. Lui così intelligente, così critico, aveva coscienza che lo stato di grazia svanisce, che la vita di un artista non può essere un perpetuo rinascimento? La sua precocità, i doni folgoranti dell'adolescenza, lo tradivano nel momenti in cui ne aveva più bisogno. Si dava da fare, ma con troppa prudenza in un momento in cui la pittura subiva una vertiginosa mutazione della quale non voleva rendersi conto. Mi è rimasta una grande tela verde e grigia che raffigura un Pierrot danzante. Niente di terribile. Forse assennato, per un artista così nemico dei luoghi comuni.

Bisognava dirglielo, ricordargli certe esigenze, richiamarlo alla maestria che gli era più naturale? Non era facile e non l'ho fatto. Oggi, dopo tenti anni, lo rimpiango, ma egli rimase prigioniero di un'epoca mitica nella quale era sì il brillante rampollo, ma solo il rampollo.

A partire dal 1947, non ho vissuto più troppo in Francia. Dapprima in Italia, poi negli Stati Uniti. Ci scambiavamo dei brevi messaggi. Accettava male un'amicizia a distanza. Negli anni che seguirono non lo rividi e non ne sentii più parlare. E' rimasto nella mia memoria come un fuoco d'artificio stregato il quale, poco a poco, coi razzi troppo ripetuti, diventa l'ossessione di un vecchio botto. Sono ingiusto? Probabilmente. Ingrato, sicuramente no. Devo a lui molte scoperte, un ritorno al fiabesco dell'esistenza, una comprensione più giusta della vertigine che costringe gli omosessuali in un mondo a parte, allo stesso tempo reale ed irreale.

Appresi della sua morte con molto ritardo. All'epoca vivevo in Grecia. Il suo destino è un bel sciupio: tutti i doni, una grande carità più cristiana di quanto fosse consapevole, la profondità quand'era necessaria, il gusto della magia e dello sfavillio, un senso spiccato dell'amicizia. Un artista non sta al mondo per alleviarne la sofferenza. C'è per rischiararla. Mi pesa pensare alla sua fine pietosa. Non ero là a tendergli la mano! Degli amici l'avrebbero salvato dal suo peggior nemico: lui stesso. Ha preferito fuggirli. Sotto la vernice smagliante c'era un disperato.

Michel Déon, de l'Académie Française (nato a Parigi nel 1919, Déon è uno dei quattro scrittori che vennero definiti "hussard" da Bernard Frank. Giornalista e romanziere, vive fra Parigi e l'Irlanda, paese dove ha ambientato, fra l'altro, Un taxi mauve, romanzo fra i suoi più noti).

Boullet durante una seduta di tatuaggio disegno, 1950

*I disegni di Jean Boullet li si trovava un tempo riprodotti perfino sui giornali di grande tiratura a illustrazione di servizi riguardanti l'occulto, le deviazioni sessuali, il mondo dell'immaginazione e del bizzarro. La sua vicenda biografica rimaneva tuttavia mal conosciuta e a tutt'oggi mancava un'opera che gli fosse consacrata. Il libro di Denis Chollet che segnaliamo è quello che ha posto rimedio a tale lacuna. E' costato 15 anni di ricerche. Raccoglie, fra l'altro, più di sessanta fra testimonianze, fotografie rare e disegni inediti. Jean Boullet nacque nel 1921. Traversò la Saint-Germain-des-Prés del dopoguerra come disegnatore e critico di cinema dell'orrore. Illustrò libri di contemporanei come Boris Vian e di qualche illustre autore del passato come Edgar Poe o Verlaine. Amico della Piaf, di Cocteau, di Carné, di Labisse, di Kenneth Anger e di molti altri protagonisti della scena culturale parigina, si diceva "pittore della bellezza maschile". Gran collezionista, si interessava di sessuologia, occultismo, superstizioni. Era ferrato nelle bizzarrie di tutti i tipi. Fondatore di riviste cinematografiche, amico ed esegeta di alcuni illusionisti, autore di svariati saggi, animatore di cineclub, dispotico gerente della "società degli amici di Bram Stoker, commerciante di vecchie incisioni, e molte altre cose ancora, questo era Jean Boullet. In varie riprese visitò il Marocco. Partì infine per l'Algeria persuaso di convertirsi all'Islam. Lo trovarono appeso a un albero nel dicembre del 1970.

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