“Uno dei più grandi registi
americani è morto la settimana scorsa all’età di 85 anni”. Così cominciava
l’articolo di Michael Wilmington – critico cinematografico del “Chicago
Tribune” – pubblicato il 7 dicembre in onore di Budd Boetticher,
d’altra parte “Chicagoan”, come anche Walt Disney, di cui quest’anno è corso il
centenario della nascita. Il Torino Film festival, da poco concluso, aveva
organizzato una rassegna dei suoi film – compreso I sette assassini (seven men from now,
1956), assai raro in Italia nonché latitante in TV – e curato l’edizione
italiana (distribuita dalla UTET) della sua autobiografia, celebre fra gli
appassionati. A suo tempo, Jean-Pierre Coursodon e Bertrand Tavernier avevano paragonato Boetticher a Howard
Hawks: “uno dei pochi della sua generazione” che ne poteva reggere il confronto, “per il suo
tonificante umorismo, una presenza sensibile anche nei momenti drammatici, per
la sua acuta intelligenza, la netta volontà di lasciar completa libertà ai
personaggi” (Trente ans de cinema americain, ed. CIB, Paris
1970). Ciò che ha fatto “ottimamente”
Boetticher, diceva invece Tullio Kezich nel 1957, è di ritrovare
“qualcuna delle componenti fondamentali” del cinema western “e offrirne
un’orchestrazione moderna”. Vent’anni dopo, stroncando Missouri
di Penn avrebbe esclamato: “verrebbe voglia di mandare l’intellettualissimo
Arthur Penn alla scuola di Budd Boetticher” (la recensione, del ’76, è raccolta
in Il mito del Far West, il Formichiere, Milano 1980). André
Bazin considerava a sua volta I sette assassini come il più
semplice e bello degli western del dopoguerra.
Nato a Chicago nel 1916,
giocatore professionista di football, appassionato di corride e toreador (volle
dedicare un film anche all’amico matador Carlos Arruba, ma le riprese si
protrassero per anni e nel frattempo l’amico morì in un incidente d’auto),
cominciò a far cinema come aiuto regista di Mamoulian in Sangue e Arena
(blood and sand). Inizialmente intraprese la sua attività registica firmandosi
come Oscar Boetticher Jr.: 10 pellicole che detesterà. Come Budd Boetticher
esordirà nel 1951 con un film dedicato alla tauromachia, L’amante del
torero ( the bullfighter and the lady). Aveva consuetudine col “clan”
fordiano” e lo stesso John Ford, colpito dalla pellicola, aiutò Boetticher nel montaggio. Il film era
prodotto da John Wayne che alla fine delle riprese dette un party: “mi passò
una bottiglia di tequila mezza vuota e dai suoi occhi non feci fatica a capire
chi si era scolato il resto”, racconta il regista nell’autobiografia. Lo
sceneggiatore dei film di Boetticher era poi Burt Kennedy, anche lui del
“clan”, più tardi a sua volta regista.
Girò film di guerra, di
avventura e noir, ma il suo ricordo è legato innanzitutto agli western
interpretati (e prodotti) da Randolph Scott (pellicole dove peraltro si fecero
le ossa, fra gli altri, Richard Boone,
James Coburn e Lee Marvin, indimenticabile proprio ne I sette assassini).
Scott, nato nel 1903 in Virginia (osservando questo gentiluomo, diceva il regista, “si capisce che “i sudisti
avrebbero dovuto vincere la guerra civile”),
lavorò nell’anteguerra con Hathaway, Mamoulian, King Vidor, Fritz Lang,
Curtiz ecc., ma la vera popolarità la raggiunse con gli western del dopoguerra,
spesso prodotti da lui stesso e firmati da registi come Ray Enright, Gordon
Douglas, E.L. Marin, Lesley Selander, Joseph H. Lewis, André de Toth. Si
trattava di film che, pur tradizionali,
attraverso una certa dose di secchezza, raggiungevano insoliti toni drammatici
ben assecondati dalla tesa maschera di Scott (la sua famosa “impassibilità”)
appena rilassata da qualche accenno di ironia. Erano western in una certa misura, per quanto sia concesso al genere,
“urbani”. Non sarebbe stato improbabile vedervi una delle prime automobili e
Scott dava l’impressione di aver sempre la piega ai pantaloni. Il dramma si
tingeva largamente di mistero e vi aleggiava un sentore di colpa a tinte nere.
Questi elementi sembrano raggiungere l’equilibrio ottimale proprio negli ultimi
film di Scott, per l'appunto quelli girati da Boetticher
(film che fra l’altro non superano
mai gli 80 minuti) come Decisione al tramonto (decision at
sundown,1957) o Comanche Station (l’albero della vendetta, 1959)
da alcuni giudicato il migliore. L’ultimo film di Randolph Scott, Sfida
nell’alta sierra di Sam Peckimpah (ride the high country, 1962),
interpretato al fianco di un'altra vecchia colonna del cinema western, Joel
McCrea, è generalmente considerato il prototipo dell’western finale e
“decadente”. Per molti versi è invece nei film di Boetticher – benché privi di
toni malinconici - che la saga dell’ovest americano viene portata ai suoi
estremi naturali oltre i quali il genere si dissolverebbe privo delle sue
ragioni storiche.