Jean Montalbano

canto sacro

 

Mauro Balma - Paolo Ferrari: PANGE LINGUA. Il canto sacro di tradizione orale nelle Quattro province. Libro+ 2cd. Associazione Musa, 2012

Mezzo secolo dopo le incursioni dei ricercatori dell'Istituto E. De Martino (con la contestuale  riscoperta del piffero delle “Quattro Province” e del suo massimo specialista Ernesto Sala) continuano gli scavi nel campo del ricco patrimonio orale depositato intorno all'antica via del sale che dal genovese s'inoltrava, oltre i gioghi appenninici, verso le terre lombarde. Solo che mentre allora vi si accertava, aldilà delle divisioni amministrative, una parentela cementata anche dalla diffusione pressoché uniforme di stili di canto e repertorio, oggi si rischia di certificare una comunanza all'ombra dell'abbandono (quest'ultimo è il termine ormai più ricorrente in qualsiasi ricerca di cultura tradizionale, come ben sanno i lettori dei resoconti di Arminio dall'appennino meridionale). Non sappiamo per quanto tempo ancora potremo ascoltare il “canto narrativo”, intanto se ne mantiene in vita la tradizione profana, in occasione delle tante ricorrenze e feste, testimoniandone le varianti e declinazioni disseminate nelle pieghe delle valli. Qui però (cd ) ci si sofferma sul lato sacro (il più minacciato di sparizione, come tutta la civiltà contadino-pastorale che vi respirava) gemello  compresente di una stessa espressività popolare.

Se anche per le 4 Province è rilevata la decadenza della pratica del canto in latino (e con esso: delle Lezioni, dei Salmi, degli Uffici e degli Inni) va ricordato che, diversamente dalla ricchezza di altri territori liguri con forte presenza di confraternite, scarse e marginali sono comunque le testimonianze di un repertorio legato ai riti della settimana santa, come pure delle litanie, oramai dismesse per l'abbandono dei riti agricoli. In tanto “impoverimento” e rimanendo nel campo liturgico-ufficiale, in area devozionale, Balma, forte di una documentazione più che trentennale, non trascura di sottolinearne comunque una maggiore felicità d'articolazione (frutto di una sana rivalità parrocchiale) rispetto alla costrizione dei “corali” luterani che pure furono all'origine di tanto sinfonismo ottocentesco.

Specchio di comunità in cui le “commissioni” facevano da contraltare al peso rilevante col tempo assunto dalle parrocchie e la gestione/organizzazione delle scarse e disperse risorse materiali bilanciava la centralità funzionale-simbolica della chiesa, in passato furono possibili quegli apparentamenti di gregoriano e ballate o le storpiature del latino “Ave Maris Stella” nel volgare “nostra mala pelle”. Nella contiguità dei repertori sacro e profano, come di due nature che vicendevolmente si sostenevano, tutto avveniva all'interno di un calendario ritmato dal succedersi, dispettoso quando non conflittuale, di feste profane e religiose. Il ballo era vissuto come momento di criticità, in quanto occasione di contatto e commistione, da parte delle gerarchie ecclesiastiche che così sintetizzavano: “il passatempo più pericoloso, per non dire perverso, e più desiderato dalla gioventù, è il ballo che si esercita pubblicamente nelle piazze e sempre in giorno festivo. Per minor male, succede di rado, due o tre volte all'anno. Il male consiste in ciò, che essendo contadini senza civiltà sono poco ritenuti dalla modestia” (così il parroco di Carrega Ligure nel 1834).

Oggi, ma è un oggi già vecchio di decenni, che al tempo ciclico delle certezze si è sostituito quello dell'abbandono, le pratiche religiose faticano a conservare la residua funzione di collante identificante. Cosa aggiungere alla desolante costatazione che a S. Pietro Casasco (PV) “i canti natalizi sono tutti usciti dall'uso locale in quanto nel periodo invernale sarebbe troppo costoso scaldare la chiesa per poche persone: quindi niente novena, niente messa di Mezzanotte, niente Te Deum” ?

La stessa scarsità di esecutori-cantori, che ha spinto allo scambio e alla commistione fra differenti gruppi di esecutori, causando la perdita del canto locale ha contribuito al sorgere ed affermarsi delle corali, con il loro canto sacro moderno, semi-colto. Da qui, azzardano i curatori del volume, un possibile delinearsi di nuove comunità (più vaste delle minuscole e pervasive parrocchie di un tempo, ormai spopolate) composte per forza di cose dai “villaggi di una stessa valle se non di più valli confinanti” (e forse qui trova senso un ente, altrove inutile, come la comunità montana).

“Fogli di Via”, novembre 2013