Massimo Bacigalupo
Intermezzi
poundiani. Reportage da Londra
Nel 2009 il Convegno Internazionale su Ezra Pound, che ha cadenza biennale
ed è autogestito dai partecipanti, si tenne al Centro Studi Americani di Roma.
L’edizione 2011 si è svolta dal 6 al 9 luglio all’Università di Londra,
nell’edificio déco di Senate House, dove negli stessi giorni si giravano scene
di un nuovo Batman. Il tema era dato
da alcuni versi dei Canti pisani: “E
il Serpentine sarà rimasto eguale, / e i gabbiani così lindi sul laghetto / e
il giardino sommerso immutato / e Dio sa cos’altro rimane della nostra Londra / la mia Londra, tua Londra…”. È
un ricordo della Kensington dove Pound aveva passato gli anni ruggenti
dell’Imagismo e Vorticismo (a quest’ultimo la Tate Gallery dedica una eccellente
mostra, visitabile fino a 4 settembre).
Sicché un centinaio di
convegnisti si sono dati appuntamento per indagare Our London, My London, Your London – la Londra dove Pound arrivò
nel 1908 ventitreenne e dove in poco più di un decennio cambiò il corso della
poesia moderna. “So cosa vuol dire ficcare
un’idea nuova nella grande vulva passiva di Londra”, scrisse più tardi, “una
sensazione analoga a quella del maschio durante il coito”. Così certo Pound
vedeva la propria attività di istigatore e disseminatore, di Marinetti
angloamericano. Per il convegno 2011 qualcuno aveva proposto un altro titolo, bocciato
perché troppo svenevole ma egualmente significativo: Squisite amicizie, da una poesia del 1911, L’altare: “Qui costruiamo una squisita amicizia; / la fiamma,
l’autunno e la rosa verde d’amore / qui vissero e lottarono, è luogo di
meraviglia; / dove questo accadde conviene che il terreno sia sacro”.
Infatti amicizie e relazioni
furono ampia parte della vita londinese
di Pound. Abitava una stanzetta triangolare a Kensington (10 Church Walk, oggi
c’è una targa), dove passarono D.H. Lawrence, T.S. Eliot, Lawrence d’Arabia…
Non lontano abitava Ford Madox Ford, nel cui giardino Ezra si esercitava a tennis.
E in un altro quartiere, Bloomsbury, teneva salotto il grande W.B. Yeats, cui
piacque l’avventuroso americano tanto da farsene un segretario e portarlo con sé
negli inverni di guerra in una casetta del Sussex. Pound traduceva Noh
giapponesi e scriveva (su suggerimento di Yeats) a Joyce a Trieste,
chiedendogli poesie e prose da pubblicare; Yeats componeva poesie come The Peacock (Il pavone), dicendosele ad
alta voce col suo forte accento irlandese (come Pound ricorda nel canto 83 dei Pisani).
Yeats aveva frequentato e
ammirava il connazionale Wilde ed era ricco di aneddoti sui poeti decadenti
degli anni ’90, di cui Pound si ricordò quando scrisse nel 1920 il poemetto Hugh Selwyn Mauberley, proprio un addio
a Londra e quasi una storia della poesia ingese dal 1850: “Per due ore parlò di
Dowson…, di come morì Lionel Johnson / cadendo dall’alto sgabello di un bar, /
ma d’alcol nessuna traccia / all’autopsia, fatta in forma privata… / tessuti
intatti…” (traduzione di Giovanni Giudici). Pound è un grande raccoglitore di
aneddoti curiosi di cui riempie le sue pagine, anche se servono a illustrare la
tesi di fondo: l’impotenza dell’artista nella società mercantilista, vittima ma
anche autoescluso.
Fra i momenti significativi del
convegno londinese è stata la proiezione di un breve film sperimentale del
canadese Bernard Dew dedicato al canto 116, l’epilogo dei Cantos: “Ho portato la grande sfera di cristallo... ma non sono un
semidio, non riesco a render tutto coerente”. Dew prima fa scorrere in silenzio
immagini suggerite dal testo, fra cui Piazzale Loreto (ricordo bruciante
nell’immaginazione di Pound), poi le ripresenta insieme alla lettura del testo,
e infine di nuovo in silenzio. Un esercizio di memoria.
Al convegno era presente la
figlia del poeta, Mary de Rachewiltz, che è sempre generosa con gli studiosi
del padre e sopporta discettazioni che a volte confondono il Pound di Radio
Roma con il giovane trovatore, facendo di tutte le erbe un… fascio. Mary porta
assai bene i suoi anni (è del 1925) ed è autrice di un appassionato memoriale, Discrezioni. Storia di un’educazione (1973),
tutto centrato sul travagliato affetto per il padre, da ristampare. Per sua
iniziativa sono uscite di recente le importanti lettere ai genitori, Ezra Pound to His Parents: Letters 1895-1929
(Oxford University Press, pp. XXXVI+737, £35), vera e
propria autobiografia epistolare, giacché Pound, figlio unico, teneva informati
i genitori delle sue attività (e batteva cassa) pressoché quotidianamente.
Mary ha anche firmato da poco la
premessa a un documentato libretto sul sincretismo poundiano, Il Dio di Ezra Pound di Andrea Colombo
(Edizioni Ares, pp. 162, €14). Un suo cugino per parte
materna, Peter Rudge, venuto al convegno in carrozzella, ha raccomandato con
sorprendente energia agli studiosi di tenere bene a mente quattro parole di
Ezra: Pull down thy vanity (Strappa
da te la vanità). Decisamente egocentrico quanto generoso, Pound le scrisse per
sé prima ancora che per i suoi lettori nel momento in cui, isolato a Pisa, a
sessant’anni, il suo sogno fascista tramontato nel sangue, tirava le somme di
una vita ricca come poche altre di
errori e rivelazioni.
I partecipanti al convegno londinese erano in
maggioranza americani e europei, ma non mancavano giapponesi e cinesi, sempre
affascinati dall’interesse di Pound per le lingue e culture dell’Estremo Oriente,
nonché un docente giordano, Mohammad
Shaheen, che ha parlato di come gli studenti di Amman recepiscono una
nota lirica poundiana, Il ritorno: pensano al “ritorno” in Palestina… Shaheen
era molto amico di Mahmoud
Darwish, il grande poeta palestinese, e gli rivelò che accanto a
Eliot (da sempre caro a Mahmoud) anche Pound era da scoprire, e Darwish accolse
l’invito prima della scomparsa prematura.
Pound va letto senza calcare
troppo sui suoi aspetti professorali, le sue citazioni e allusioni in mille
lingue. Erano tutti materiali per il suo laboratorio poetico, ed è lo
scompiglio del laboratorio, il gusto della scoperta e dell’associazione che
dobbiamo cercare. I Canti pisani sono
magistrali nel registrare anche graficamente il farsi del pensiero:
E ad Alcazar
quarant’anni fa, dicevano: ‘torni pure alla stazione a mangiare
qui può dormire per una peseta’
i campanacci delle capre suonavano tutta la notte
e l’ostessa ghignò: Eso es luto, haw!
mi marido es muerto
(è il lutto, mio marito è morto).
Edoardo Sanguineti scrisse pagine importanti su questo uso naturale della
citazione recensendo nel 1954 i Pisani
alla loro prima uscita italiana (pezzo ristampato in Cultura e realtà, 2010).
Sanguineti nel 1986 compose un Omaggio a Catullo, con la dedica “Per Mauberley / neglected by the young”
(cioè “trascurato dai giovani”, che è appunto citazione dal Mauberley poundiano). Come dire che
Pound andrebbe recuperato nella sua lezione poetica (e non ridotto alle sue
aberrazioni, o strumentalizzato come fanno i sedicenti seguaci di Casa Pound). Questo
Omaggio a Catullo (“alla mia
ragazzina piaci, passero”) è in realtà un omaggio a Pound, che nel 1920 pubblicò una delle sue operette più
felici, Omaggio a Sesto Properzio,
libera imitazione del poeta latino (recentemente ristampata da SE Studio
Editoriale con lo spassoso carteggio polemico che ne nacque fra poeta, recensori
e latinisti).
I testi giocosi di
Sanguineti-Catullo si possono rileggere con altri omaggi a Pound nell’antologia
bilingue I poeti della Sala Capizucchi
(Raffaelli Editore, pp. 200, € 18). A Sala Capizucchi a Roma, la compagna di
Pound Olga Rudge, violinista, tenne un concerto nel 1927, e nel 2009 i poeti di
lingua inglese e italiana presenti al convegno romano vi tennero un reading
commemorativo. L’antologia raccoglie i loro testi più qualche classico
recuperato, come appunto Sanguineti nonché Pasolini, poundiano sfegatato.
Dovrebbero essere i poeti gli
unici e migliori eredi di Pound. Un partecipante tedesco al convegno londinese
si lamentava di tante accigliate relazioni. “Non un convegno ma un’orgia
poundiana, ecco cosa ci vuole”. Ezra, sornione, avrebbe approvato. “Il manifesto-Alias”, 6 agosto 2011