Carlo Romano

con Aurelio. Chiacchiere

conversazione con Aurelio Valesi

 

 

 

Aurelio Valesi è nato a Genova nel 1935. Ha lavorato per qualche anno in una società di navigazione. Successivamente si è trasferito a Parigi, impiegato in vari uffici. Rientrato in Italia si è occupato di traduzioni commerciali ma ha trovato il tempo per farne di letterarie. E’ uno dei traduttori italiani, per conto dell’editore Sugar, del Marchese de Sade. Per lo stesso editore ha tradotto Sade prossimo mio di Pierre Klossowski. Ha, fra l’altro, tradotto Le sollazzevoli istorie di Balzac per Feltrinelli e testi di Rabelais, Apollinaire, Paulhan per il Melangolo.

Le raccolte delle sue poesie sono state tutte pubblicate dall’editore Sabatelli di Savona. Questi i titoli:

Annuario, 1984, pref. di Adriano Guerrini;

Archivio, 1985, pref. di Pino Boero;

Documenti, 1987, pref. di Francesco De Nicola;

Deposito, 1992, pref. di Marco Ercolani;

Silenziario, 1994, pref. di Stefano Verdino;

Stilario, 1996, pref. di Graziella Corsinovi;

Dopo la fucilata, 1998, pref. di Manrico Murzi;

Verso il millennio, 1999, pref. di Carlo Olivari;

I nuovi secoli, 2001, pref. di Elio Andriuoli.

Per i primi mesi del 2003 è prevista l’uscita della raccolta Taccuino sottoproletario.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sei un poeta "tardivo", perlomeno nel senso che hai cominciato a pubblicare molto tardi. Il punto è: da quanto scrivi poesia?

La scrivo dall’età di undici anni. Però è vero quel che dici. Se escludiamo i versi sparsi in varie riviste di poca o nessuna importanza, ho pubblicato il primo libro a quarantanove anni. Non ho pubblicato prima per ragioni banali. Pensavo di uscire con una raccolta alla fine degli anni Cinquanta, ma il mio trasferimento a Parigi, dove sono rimasto tre anni, mi ha fatto rinviare la cosa.  L’epoca era quel che era, anche aritmeticamente. E’ arrivato il sessantotto, che mi ha molto coinvolto – ancorché più in modo esistenziale che politico. Ma sai com’è, gli anni passano. Alla fine degli anni Settanta mi sono deciso di dare attuazione al mio ormai logoro intendimento.

Negli anni avevo però continuato a scrivere, riempiendo quaderni su quaderni. A un certo punto (ma solo a un certo punto) mi è venuto lo scrupolo di dover dare una sistemazione a tutta la materia: Anche questo ha richiesto del tempo. E’ stata dunque una ragione pratica che mi ha fatto pubblicare inizialmente le ultime poesie. Nelle varie pubblicazioni sono poi risalito alle più lontane. Mi sembrava che sarebbe apparso ridicolo cominciare dai testi di trent’anni prima. Il materiale accumulato mi ha consentito tuttavia di pubblicare nove sillogi in diciassette anni, raccogliendo in ogni volume due terzi di testi “antichi” e un terzo di contemporanei. La prossima raccolta, la decima, uscirà nel 2003.

 

Sotto quali sollecitazioni hai scritto, quali le influenze, le letture significative, i modelli?

L’unica sollecitazione che mi ha fatto scrivere è una lunga conversazione con me stesso. Le mie ragioni per trovarmi in questo bagno penale. Le influenze sono state di tutti i generi e le letture disparate – letteratura, filosofia, storia. I modelli sono senz’altro tre. Ho puntato in alto: Baudelaire, Pascal e Dostoèvskij.

 

Nonostante la pubblicazione tardiva (a parte –va ricordato – la tua attività di traduttore) hai sempre partecipato alla vita culturale genovese  diventandone una presenza visibile. Che ricordi ne hai?

Il mio è stato un interesse – una curiosità, se preferisci – di vita. Sarò stato una presenza “visibile”, come dici, ma non credo di esser mai stato una macchietta presenzialista.

 

Non volevo dire questo …

Quanto alle traduzioni, sono state solo in parte letterarie, e raramente quelle che avrei voluto io …

 

Certo, certo … ma … scusa … io, ad esempio, ti ho notato fin dagli anni Sessanta. Ero un pivello, non ci conoscevamo ancora personalmente. Circolava almeno una leggenda sul tuo conto, quella del nottambulo (tanto che si fa fatica a credere che tu fossi sposato) e buon camminatore.

Nottambulo lo son stato per disperazione (disperazione “lirica” puoi aggiungere). Ero reduce da una giovinezza-nubifragio e da una rovinosa adolescenza. Ho cercato nell’oscurità le perdute socialità diurne. A volte in ambienti allucinanti, al limite della legge (che non infrangevo soltanto per accidia o stolidità). Me ne allontanavo camminando per nottate intere, percorrendo a volte decine di chilometri (fino e da Savona, fino e da Rapallo e così via) forse presagendo futuri impedimenti (ndr.: oggi Valesi soffre di problemi deambulatori).

Famiglia non ne ho avuto, avendola per decenni, come tanti. Quanto a mia moglie, è lei che mi ha evitato di uscire di scena anzitempo, digerendo insieme a me il piattino avvelenato servitomi in precedenza al mio domicilio di scapolo.

Non ho cercato le scapigliature per gusto o principio. Non ho mai cercato niente salvo me stesso. L’ambiente era quel che era, quello in cui mi venivo a trovare.

 

Ci saranno dei luoghi prediletti?

Un luogo preferito (e decisamente) c’era: Galleria Mazzini, a Genova. Al principio – 1963-1967 – per ragioni ubicatorie, dal momento che abitavo nel Centro Storico. In seguito per corrispondenza d’amorosi sensi, tanto che da Sampierdarena (dove mi ero trasferito) scendevo quotidianamente alla Galleria e ne tornavo, in autobus o a piedi.

La galleria è sempre stata del resto un luogo dello spirito. Già nel secondo Ottocento,  e poi ai primi del Novecento, con i suoi caffè letterari (il carducciano e il dannunziano) che animavano serate assai meno loffe delle nostre. Per me rappresentava, con la sua grande volta protettiva, una maternità sottratta e ritardata nel tempo (mia madre era stata una persona sensibile e intelligente, ma priva dell’energia che richiedeva il ruolo).

 

La tua poesia mi ha rivelato un lato sconosciuto delle tue capacità di osservazione.  Mi sembra inoltre che vi sia presente qualcosa che non saprei definire altrimenti che come “giovanile”. Non parlo di costume o ideologia (vista la tua immersione nel “sessantotto”) parlo  di condivisione vitalistica. Sbaglio?

Son stato un buon osservatore dici tu? Probabilmente si è trattato di un riflesso psicologico dettato, all’origine, dall’istinto di difesa di chi non ha avuto punti di appoggio. Mi rendo conto che la mia spontanea tendenza a socializzare è stata sempre frenata dalla paura di chi non è attrezzato per l’esistenza. Un misto di fiducia personale (in genere mal riposta) e di sfiducia generale che mi ha sempre sconcertato.

Riguardo a quell’elemento “giovanile” di cui dici, se c’è, penso sia stato non tanto un riviverlo in altre generazioni, quanto il viverlo per la prima volta attraverso esse. Di giovinezza mia, originaria, non ne ho avuto, preso com’ero dallo scansare i pericoli ai quali non ero preparato: un bel casino essere il sostituto di se stesso, il proprio Ersatz esistenziale.

Posso dire che sicuramente non esiste alcun taglio ideologico in quel che ho scritto, giacché la gioventù mi affascina ma il giovanilismo mi ripugna. E’ strumentale, retorico e demagogico. E’, mi pare, anche un segno di precoce senilità. Capisco la diffidenza dostoevskiana per la politica, il diabolico annullamento dei valori negli ingranaggi. E’ magari eccessivo, ma intendo le preoccupazioni dello scrittore. L’ideologia è politica estremizzata, depurata, ridotta all’osso, senza più quell’alcunché di nobile che pure a volte si scorge.

 

In ogni caso, a differenza di molti giovani dei tuoi tempi, non sei rimasto contagiato da quel genere “sperimentale"che era  pressoché dominante come proiezione della modernità. Hai seguito questo tipo di poesia? Segui la poesia contemporanea? Ti interessa?

Ti dirò: non mi sono mai posto altro fine che quello di parlare a me stesso, descrivendo i miei merdai senza compiacimento ma anche senza la retorica del cesso. Mi è andato bene tutto, anche lo sperimentalismo. Chi non racconta musse (ndr.: “palle”, frottole. In genovese è il nome dell’organo sessuale femminile) è sempre moderno. Chi vuole essere soltanto moderno, passati pochi anni non lo sarà più.

Seguo (moderatamente) la poesia contemporanea. Seguo il mondo in senso lato, quindi anche la poesia, per quel che è. D’altra parte se viviamo adesso non possiamo farci niente. Va bene così.