Gianni Canova - Francesco
Costa
"Apocalypse
Now" con figure di donna
Apocalypse Now Redux
Regia: Francis Ford
Coppola - Soggetto e sceneggiatura: John Milius e Francis Ford Coppola,
liberamente ispirato al romanzo Cuore di tenebra di Joseph
Conrad - Produzione: Francis
Ford Coppola, Fred Roos, Gray Frederickson,
Tom Sternberg, Kim Aubry (per Redux), per Zoetrope prod. - Fotografia:
Vittorio Storaro - Scenografia: Dean
Tavoularis - Montaggio: Walter Murch,
Gerald B. Greenberg, Lisa Fruchtman, Richard Marks - Musica:
Carmine Coppola e Francis Ford
Coppola - Suono: Walter Murch - Effetti
speciali: Joseph Lombardi e A.D. Flowers
- Dstribuzione italiana: Buena
Vista - Origine: Usa - Durata: 203’ – Anno: 1979/2001.
Interpreti: Marlon Brando (col. Kurtz), Martin
Sheen (cap. Willard), Robert Duvall (col. Kilgore), Frederic Forrest (Chef), Albert Hall (Chief), Sam Bottoms (Lance), Larry Fishburne (Clean), Dennis Hopper (il fotoreporter), Harrison
Ford (colonnello), Scott Glenn (Colby), Cinthia Wood (playmate dell’anno), Colleen Camp e Linda Carpenter (playmates), Christian Marquand (De Marais), Aurore Clément (Roxanne).
Apocalypse
Now è un film smisurato. A suo modo, è un esempio
perfetto di "opera aperta", o di film infinito: un film che non
finirà mai di farsi, che non smetterà mai di finire e di ricominciare. Non a
caso, comincia senza titoli di testa, con la voce di Jim
Morrison dei Doors che – su
immagini della giungla in fiamme – canta "This is the end" (Questa è la fine): quasi a dire che
inizio e fine coincidono (e si elidono…) nella circolarità di un’apocalisse che
si genera comunque fuori dal tempo. Quello storico come quello filmico. Così
come non inizia (o inizia finendo), Apocalypse Now non sa finire (se non ricominciando).
Non sapeva finire al tempo della sua prima uscita sugli schermi, nel
1979, e non sa finire ora, in questa riedizione voluta dal regista con
l’aggiunta di parecchie scene tagliate ed eliminate dalla prima edizione.
Allora, nel ’79, circolarono due versioni del film: la prima, su pellicola a 70
millimetri, senza titoli di coda, si concludeva con la morte del colonnello Kurtz e la fuga del capitano Willard;
l’altra, su copia a 35 millimetri, riproduceva i nomi degli interpreti e della
troupe sullo sfondo delle immagini apocalittiche del bombardamento al napalm
che distruggeva nel fuoco l’accampamento di Kurtz.
Ora, in questo Redux preparato da Coppola con l’aiuto
del montatore Walter Murch, vengono reintegrati 53
minuti precedentemente scartati, fino a portare la durata complessiva del film
– che si conclude come nella primeva edizione a 70
millimetri –a 3 ore e 23 minuti.
Che scene vengono aggiunte? Proviamo innanzitutto a elencarle: dopo il
celebre attacco degli elicotteri al villaggio vietnamita sulle note della
Cavalcata delle valchirie di Wagner, assistiamo ad alcune sequenze relative
all’ossessione del colonnello Kilgore per il surfing
da guerra e al furto di una tavola da surf che il personaggio interpretato da Robert Duvall cerca invano di
recuperare mandando un elicottero sulle tracce della barca del capitano Willard; quindi, dopo l’esibizione delle playmates nella foresta, l’elicottero che sta portando a
casa le ragazze resta senza carburante e il capitano Willard
baratta un paio di latte di kerosene in cambio di sesso per i suoi uomini;
ancora, viene reintegrata la sequenza ambientata nella piantagione francese (è
l’aggiunta più corposa: quasi mezz’ora di film), con Willard
e i suoi che partecipano a un funerale, vengono invitati a cena e discutono
aspramente coi francesi della guerra, finché Willard
non seduce la padrona di casa (Aurore Clment) e si
apparta con lei a fumare oppio; infine, nell’epilogo del film, viene aggiunta
una scena in cui Kurtz legge a Willard
prigioniero una pagina del Time in cui si sostiene che gli Stati Uniti stanno
finalmente facendo progressi nel sud-est asiatico.
Il problema interpretativo che si pone al critico di fronte a queste
aggiunte è molto semplice: valutare come questi inserti cambiano – se lo
cambiano – il senso complessivo del film, almeno per chi voglia confrontare
comparativamente questa edizione con le due circolate a suo tempo nelle sale,
dopo che Apocalypse Now
vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes del 1979, ex aequo con Il tamburo di
latta di Volker Schlondorff
(non vinse invece l’Oscar, nonostante le numerose nomination, sconfitto da Kramer contro Kramer, di Robert Benton).
Dal
Mito alla Storia
L’impressione è che Redux alteri
profondamente almeno due aspetti di Apocalypse Now attraverso la reintroduzione di figure femminili e lo
slittamento dell’impianto narrativo dalla dimensione del mito a quella della
storia. Il primo Apocalypse Now
era un film senza donne: iniziava con il protagonista che, chiuso nel delirio
della sua stanza d’albergo di Saigon, bruciava con la sigaretta la foto della
moglie che teneva sul comodino, quasi a tagliare definitivamente ogni ormeggio
e ogni legame con la femminilità. Dopo quel gesto, Apocalypse
Now diventava un’immersione progressiva nei meandri
di un inconscio maschile fatto di guerra, sangue, morte e potere, in cui le
uniche figure femminili che ancora trovavano spazio erano avvertite o come ipostasi
del nemico (la giovane vietnamita che butta una bomba nell’elicottero americano
dopo l’attacco aereo al villaggio) o come pura scenografia (le playmates che si esibiscono nella giungla per sollevare il
morale depresso delle truppe).
Di fatto, non c’erano donne nella prima edizione del film: e non
c’erano neppure il sesso, il desiderio e l’amore. Tanto che risultava legittimo
leggere l’intero viaggio di Willard verso Kurtz come un incubo interamente maschile in un universo
violentemente deprivato di femminilità. Ora invece le donne ritornano:
scambiano e barattano sesso con i soldati, sono corpi che rieccitano
la vita, o diventano addirittura – come nell’episodio interpretato da Aurore Clément – oggetto di desiderio e di seduzione.
Con il ritorno del femminile, anche la storia fa la sua riapparizione
nel film. La discussione con i colonialisti francesi (che rivendicano la
legittimità morale del loro antico imperialismo e accusano gli americani di
aver posto le premesse della catastrofe creando nel ’45 il movimento Vietminh allo scopo di sradicare l’influenza europea in
Asia) e la pagina di Time letta a Willard da Kurtz ricollocano la vicenda in un contesto storico preciso
(quello del post-68), indeboliscono l’impianto mitico (o mitologico) del
viaggio di Willard e lo dispongono entro le
coordinate spazio-temporali di un’epoca storicamente determinata.
Ne guadagna o ne perde, Apocalypse Now? Probabilmente, l’una e l’altra cosa assieme. Guadagna
in lucidità storica e perde in suggestione mitologica. Il viaggio di Willard verso l’orrore, interrotto da una sosta
"civile" presso una comunità di europei, diventa meno ipnotico, meno immersivo, meno inevitabile: quella pausa spezza la
vertigine di uno sprofondamento verso le radici dell’inconscio e conferisce al
viaggio un connotato di razionale storicità. Tanto che il film appare non più
(o non solo) come un’immersione negli abissi dell’umano, ma come una cruda
diagnosi sulla follia della guerra. Un’altra cosa, insomma. O, forse, l’altra
faccia della stessa medaglia.
Perché Apocalypse Now
e il suo Redux costituiscono una sorta di dittico.
Sono complementari, non alternativi. Tracciano due possibili piste generate
dalla medesima catastrofe. Sondano in direzioni diverse (quella della storia e
quella dell’antropologia) gli effetti prodotti da un identico shock. A
sorprendere, caso mai, è il fatto che Coppola abbia optato, in questa nuova
versione, per il finale non-apocalittico del film (quello che nel ’79 era
riservato alla versione in 70 millimetri): anche Redux
termina con Willard che uccide Kurtz
e, in qualche modo, prende il suo posto, si sostituisce a lui. Il suo volto
sporco di fango e di sangue si fonde, in sovrimpressione, con la statua del Budda che già era apparsa nel delirio iniziale nell’albergo
di Saigon. Diventa anche lui un dio della giungla, una concrezione di pietra
del Male che lo ha contagiato.
Niente
fiamme
Non c’è apocalisse, nel finale di Redux:
nessuna foresta in fiamme, nessun bombardamento al napalm sul villaggio di Kurtz. Solo il nero dello schermo su cui scorrono i titoli
di coda. Redux finisce così, forse, perché
l’apocalisse si è già consumata: quel Now del titolo,
che nel ’79 suonava come sinistramente profetico, oggi rischia di essere
tragicamente postumo. Come se, nei vent’anni
trascorsi fra Apocalypse Now
e Redux, l’apocalisse si fosse davvero compiuta.
Dirlo oggi, dopo l’11 settembre, può risultare fin troppo facile. Ma Coppola
l’aveva intuito prima: rimettendo mano ad Apocalypse Now, ha rivendicato l’idea di un cinema come "opera
aperta" potenzialmente infinita e infinitamente modificabile, pronta a
ricevere dalla storia quei fantasmi e quegli incubi che la storia stessa ha
bisogno di proiettare di tanto in tanto nella finzione del cinema per
illudersi, almeno per un poco, di potersene liberare.
“Letture”, periodici San
Paolo, n. 583, gennaio 2002
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