Nel 2000 una
rivista letteraria aveva cominciato a raccogliere materiali per un
numero-inchiesta sul tema «Non avere paura di dire». Il fascicolo non è stato
poi pubblicato. Quella che segue è la risposta, rimasta inedita, che Giuseppe
Zuccarino, su invito dei redattori, aveva inviato.
Giuseppe Zuccarino
breve elogio della paura
In presenza di una formula suadente, il
cui tono sembra esitare tra la rassicurazione e l’esortazione – «Non avere paura
di dire» – il primo impulso può anche essere quello di chiedersi perché non
dovremmo aver paura. Dopo tutto è in causa uno stato d’animo non sempre
meschino e disprezzabile. Così Hobbes (ripreso da Barthes in epigrafe a un suo
libro) poteva ammettere senza vergogna: «L’unica passione della mia vita è
stata la paura». Di ciò si è accorto qualche letterato, che, oltre a far tesoro
di tale scoperta, ha osato contrapporre il terrore ad altri – più celebrati ma
forse meno intensi – moti dello spirito: «La gente scherza con l’amore, ma a
mio avviso l’amore non è affatto una grande passione. La vera, autentica
passione è la paura: è con essa che dovete trattare, se volete assaporare i più
intensi piaceri della vita» (Robert Louis Stevenson).
Si potrebbe eccepire che tutto ciò
suggerisce alla letteratura una tematica fra le più efficaci, ma non riguarda
l’atto scrittorio in se stesso. Anzi, così come è noto che per tematizzare
adeguatamente l’amore occorre essere abili scrittori ma non occorre essere
innamorati, altrettanto può dirsi per la paura. «Il vero artista è colui che
procede, non dal sentimento alla forma, ma dalla forma al pensiero e alla
passione», diceva Wilde. E altrove, rispondendo a una domanda di Amleto (la
stessa eletta a titolo di libro da Nanni Cagnone), aggiungeva che «le sole cose
belle sono quelle che non ci riguardano. È […] perché Ecuba non è niente per
noi che i suoi dolori sono un così eccellente motivo di tragedia». Lo
scrittore, al pari di chi legge, fa dunque bene ad esimersi da un eccessivo
coinvolgimento nella materia dell’opera.
E tuttavia resta vero che una certa
esperienza della paura, di fronte alla pagina bianca, dovrebbe essere familiare
a chiunque scriva veramente, anche perché è ormai venuta meno, persino per i
poeti, la fiducia nella possibilità di giovarsi dell’assistenza di una qualche
entità estranea alla coscienza individuale (le Muse, il dio Amore, l’Inconscio,
il Caso) che ispiri o detti ciò che si tratta di mettere su carta.
L’apprensione può allora essere vista come un indizio o una prova del fatto che
ci si sta davvero confrontando con qualcosa di significativo, che non si è
semplicemente sul punto di svolgere un’attività meccanica e rassicurante, del
tutto priva di stimoli e di insidie. Enfasi a parte, non ha torto Jabès ad
affermare: «Se, […] chinandoti sul foglio, non tremi, all’improvviso, di paura,
getta lontano la penna; quello che scriveresti sarebbe di poco valore».
Per quale motivo dovremmo tentare di
affidare delle parole a un supporto, cartaceo o no, conoscendo in anticipo il
risultato, essendo già certi di poter finire il testo che ci prefiggiamo di
scrivere e di poterlo redigere nei modi e nei termini che avevamo previsto? Se
anche fosse vero che non esistono più sanzioni esterne che possano mettere in
pericolo chi scrive (ma la sorte tragica che minaccia ancor oggi in vari paesi
del mondo coloro che esercitano non servilmente tale attività ridimensiona
subito ogni ottimistica credenza al riguardo), basterebbe, per dar sapore alla
scrittura, il rischio connesso all’immagine di sé che si offre agli altri, o
che si mette in gioco di fronte a se stessi. Notava Leiris che la letteratura è
paragonabile alla tauromachia, giacché pone chi la pratica a confronto con
qualcosa di minaccioso. Egli affidava al resoconto autobiografico il compito di
introdurre nell’opera, se non un rischio effettivo, almeno «l’ombra di un corno
di toro». Va detto però che ogni scrittura, anche la più astratta e teorica,
comporta implicazioni autobiografiche, non solo perché quello dell’impersonalità
è ormai perfettamente riconoscibile come un mito letterario, ma anche nel senso
già segnalato, ossia che chiunque scriva e pubblichi (una cosa scritta è già
pubblica, anche se resta chiusa in un cassetto) si trova coinvolto in un
pericoloso gioco con la nozione e la valutazione di sé. Dovrebbe essere
evidente, infatti, che il solo atto di scrivere un testo letterario modifica
chi lo compie: questi si scopre (nei due sensi del verbo) attraverso le sue
opere, e queste ultime retroagiscono su di lui modificandolo. Non a caso ci
sono autori che hanno finito coll’identificarsi, più o meno lucidamente, con i
personaggi da loro stessi inventati, ed altri che si sono a lungo sforzati di
convincere il pubblico di aver conseguito un’ammirevole coincidenza tra vita e
opera. Altri ancora, seguendo le premonizioni o le intimazioni che a posteriori
risultano reperibili nei loro scritti, hanno finito col farsi guidare verso
esiti biograficamente funesti. La letteratura, se anche potesse essere detta
innocua per chi legge – ma sarebbe agevole dimostrare il contrario – non lo
sarà mai per chi scrive (e per chi ne scrive: non dimentichiamoci dei critici).
Di fronte al foglio o al monitor su cui
stanno per comparire – o scomparire, se con un rapido gesto decideremo di
cancellarle – le nostre parole, è dunque giusto, ragionevole ed opportuno avere
una certa paura. Ma tra le cose che dobbiamo temere c’è anche l’eccessivo
timore, quello che va oltre la giusta vigilanza e ci conduce diritti al
silenzio, alla non-scrittura. Il silenzio, occorre ammetterlo, ha un suo
fascino e una sua difendibilità, specie in epoche in cui infurino, anche in
ambito letterario, la chiacchiera e l’effimero. Eppure può rivelarsi da ultimo
ingannevole e pericoloso, può risultare una forma di complicità, ancorché
indiretta e involontaria, con l’esistente (inclusi i suoi aspetti più
riprovevoli), può equivalere a lasciar parlare soltanto coloro la cui voce è
artificialmente e artificiosamente amplificata. Se davvero intendiamo evitare
che siano gli altri a parlare al nostro posto, se cerchiamo di pronunciare una
parola che non sia troppo lontana dal silenzio, una parola a cui ci si senta
costretti ma che per converso non costringa nessuno ad ascoltarla, se sappiamo
affrontare anziché eludere il timore di fronte al foglio bianco, allora – e
solo allora – potremo far nostra la formula da cui siamo partiti: «Non avere
paura di dire».