Giuseppe Zuccarino

linnocenza dellocchio

Baudelaire attribuisce allo sguardo infantile quello che, a suo avviso, è un vantaggio rilevante rispetto alla modalità percettiva tipica dell’adulto, ossia il fatto di porsi davanti alle cose come se le osservasse per la prima volta. A giudizio del poeta, «il bambino vede tutto come novità, è sempre ebbro. Nulla somiglia tanto a ciò che chiamiamo ispirazione, quanto la gioia con cui il fanciullo assorbe la forma e il colore»1. L’artista in generale, e soprattutto il pittore, dovrebbe dunque sforzarsi di riacquistare questa freschezza nell’osservazione del reale, se davvero vuole raggiungere i livelli più alti: «Il genio non è altro che l’infanzia ritrovata a volontà»2.

Un noto critico d’arte inglese vissuto nella stessa epoca, John Ruskin, esprime un parere pressoché analogo, pur muovendo da una posizione teorica in parte dissimile, come ha notato Daniel Arasse: «Nei corsi tenuti al Working Men’s College, Ruskin affermerà che bisogna ritrovare l’“innocenza dell’occhio […], una sorta di percezione infantile, simile alla maniera in cui vedrebbe un cieco che ritrovi di colpo la vista”. Si potrebbe pensare qui alle frasi di Baudelaire, nel 1859, sul genio come “infanzia ritrovata”, e sull’artista come colui che “vede tutto come novità”. Ma, di fatto, si tratta di pensieri assai diversi. Il romanticismo di Ruskin si associa esplicitamente a un sentimento religioso che è estraneo a Baudelaire. L’“innocenza dell’occhio” ruskiniana corrisponde a una concezione quasi mistica della rivelazione che l’artista può avere delle leggi intime della natura»3.

Per il critico inglese, il principale riferimento nell’ambito dell’arte del suo tempo è costituito dall’opera di Turner, pittore che si pone in maniera assai seria il problema del rapporto fra percezione e rappresentazione. Scrive infatti Ruskin: «Turner, nel primo periodo della sua vita, talvolta era di buonumore e mostrava alla gente ciò che faceva. Un giorno era andato a disegnare il porto di Plymouth e alcune navi, a un miglio o due di distanza, viste in controluce. Avendo mostrato il disegno a un ufficiale di marina, questi lo osservò con sorpresa e obiettò con una comprensibilissima indignazione che, in esso, le navi di linea non avevano i portelli di murata. “No, disse Turner, certamente no. Se salite sul monte Edgecumbe e se guardate le navi in controluce, sul sole che tramonta, vi accorgerete che non potrete scorgere i portelli di murata”. “Bene, disse l’ufficiale, sempre indignato, ma lo sapete che nelle navi i portelli ci sono?”. “Sì, disse Turner, lo so, ma il mio compito è disegnare quello che vedo, non quello che so”»4. Evidentemente l’artista avrebbe concordato con un altro grande della pittura, Goya, il quale affermava: «Ma dove le trovano le linee nella natura? Io ci vedo soltanto dei corpi illuminati e dei corpi che non lo sono […]. Il mio occhio non scorge mai lineamenti né dettagli […]. Il mio pennello non deve vedere meglio di me»5.

Tale atteggiamento da parte di alcuni pittori, che cercano di sopprimere ogni forma di prevenzione concettuale e di rappresentare nulla più di ciò che si manifesta effettivamente alla loro vista, trova riscontro anche in un aneddoto su Gustave Courbet: «Una volta, mentre dipingeva presso Marly, l’artista incluse nel paesaggio un oggetto grigio, senza riuscire a distinguerlo con chiarezza. Chiese a un amico di andare a vedere di che si trattava, e il compagno fu stupitissimo di riconoscere, sulla tela di Courbet, la lontana catasta di legna che era andato a esaminare. “Non sapevo che cosa fosse” gli disse Courbet “ho dipinto ciò che ho visto senza saperlo”»6.

Sono soprattutto gli impressionisti francesi a teorizzare quest’attitudine artistica. Già il loro iniziatore Manet dichiara che in pittura bisogna «fare ciò che si vede»7, e gli altri esponenti del gruppo seguono lo stesso principio. Così se Ruskin, come abbiamo ricordato, assimila la percezione non mediata della realtà «alla maniera in cui vedrebbe un cieco che ritrovi di colpo la vista», desta sorpresa il fatto che Monet, senza probabilmente conoscere la frase del critico, giunge a formulare per se stesso un analogo auspicio. Infatti, «parlando del suo lavoro, Monet disse alla pittrice americana Lilla Cabot Perry che avrebbe voluto “esser nato cieco e ritrovare improvvisamente la vista per poter cominciare a dipingere senza sapere cos’erano gli oggetti che si vedeva davanti”»8. Appare dunque legittima la scelta di Marcel Proust, che nel creare (prendendo a modello gli impressionisti, e in particolare Monet) un  personaggio importante del proprio capolavoro narrativo, il pittore Elstir, gli attribuisce l’intento di «ritrarre le cose non come sapeva che sono, ma secondo quelle illusioni ottiche di cui è fatta la nostra prima visione», dunque di «spogliarsi, di fronte alla realtà, di tutte le nozioni della propria intelligenza»9 in modo da poter vedere e raffigurare il reale con uno sguardo vergine.

Un artista che rientra solo in parte nell’impressionismo, perché si propone l’arduo compito di procedere al di là (riuscendo fra l’altro ad aprire la strada ad alcune correnti delle avanguardie novecentesche), è Cézanne. Nonostante ciò, egli condivide con gli altri esponenti di quel gruppo artistico il sogno di poter guardare la natura senza farsi condizionare dal ricordo delle grandi opere pittoriche del passato: «Ora, la tesi da sviluppare è – qualunque sia il nostro temperamento o la nostra energia di fronte alla natura – quella di offrire l’immagine di ciò che vediamo, dimenticando tutto ciò che è apparso prima di noi»10. E si ricordi un’altra sua dichiarazione (fatta nel 1902 a Jules Borély), ancor più rivelatrice: «Quant’è difficile dipingere bene! Come andare senza ambagi verso la natura? Guardi, da quest’albero a noi c’è uno spazio, un’atmosfera, lo ammetto; ma poi c’è questo tronco, palpabile, resistente, questo corpo… Vedere come chi è appena nato!…»11.

Certo, l’idea dello sguardo innocente, neonatale, che l’artista aspira a recuperare, è facilmente riconoscibile come un mito. Tuttavia ciò non toglie che essa, una volta entrata a far parte delle poetiche degli artisti del secondo Ottocento, e in particolare degli impressionisti, abbia svolto una funzione positiva, rivelandosi utile a produrre uno svecchiamento del linguaggio pittorico. E forse non è un caso che uno dei primi scrittori stranieri ad aver compreso a fondo l’importanza di Cézanne sia stato proprio Rilke, il quale nutriva, riguardo all’arte, un’opinione assai simile a quella baudelairiana. Dunque le sue parole possono consentirci di chiudere, per così dire, il cerchio: «L’arte è l’infanzia, ecco. È non sapere che il mondo già esiste, e fabbricarne uno»12.

NOTE

1 Charles Baudelaire, Le Peintre de la vie moderne, in Œuvres complètes, II, Paris, Gallimard, 1976, p. 690 (tr. it. Il pittore della vita moderna, in Scritti sull’arte, Torino, Einaudi, 1981, p. 284; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).

2 Ibidem.

3 D. Arasse, Le Détail. Pour une histoire rapprochée de la peinture, Paris, Flammarion, 1996; 2013, pp. 108-109 (tr. it. Il dettaglio. La pittura vista da vicino, tr. it. Milano, Il Saggiatore, 2007, p. 103).

4 J. Ruskin, The Eagle’s Nest, cit. in Marcel Proust, Pastiches et mélanges, in Contre Sainte-Beuve précédé de Pastiches et mélanges et suivi de Essais et articles, Paris, Gallimard, 1971, p. 121 (tr. it. John Ruskin in M. Proust, Il fantasma del bello. Scritti sulle arti, Milano, Medusa, 2008, p. 108).

5 Francisco de Goya y Lucientes, frasi riportate in D. Arasse, op. cit., p. 446 (tr. it. p. 405).

6 John Rewald, La storia dell’impressionismo, tr. it. Milano, Mondadori, 1976; 1991, p. 503.

7 É. Manet, cit. in  Antonin Proust, Édouard Manet, souvenirs, in «La Revue Blanche», febbraio-maggio 1897.

8 J. Rewald, op. cit., pp. 472-473.

9 M. Proust, À l’ombre des jeunes filles en fleur, in À la recherche du temps perdu, Paris, Gallimard, 1999, pp. 659-660 (tr. it. All’ombra delle fanciulle in fiore, in Alla ricerca del tempo perduto, Torino, Einaudi, 2008, pp. 624-625); ma, più in generale, si vedano le pp. 655-660 (tr. it. pp. 621-625).

10 Paul Cézanne, lettera a Émile Bernard del 23 ottobre 1905, in Correspondance, Paris, Grasset, 1978; 2011, p. 394 (tr. it. in Lettere, Milano, SE, 1985, p. 140).

11 P. Cézanne, cit. da Borély in un articolo del 1926, ora in AA. VV., Conversations avec Cézanne, Paris, Macula, 1978; 2011, p. 52 (tr. it. Cézanne. Documenti e interpretazioni, Roma, Donzelli, 1995, p. 23).

12 Rainer Maria Rilke, cit. in Georges Didi-Huberman, Phalènes. Essais sur l’apparition, 2, Paris, Éditions de Minuit, 2013, p. 190. Di Rilke, cfr. Lettere su Cézanne, tr. it. Milano, Electa, 1984.