Giuseppe
Zuccarino
sognare contro il
mondo
In uno sconosciuto e ormai irreperibile romanzo di
Marco Ercolani del 1980, ad un certo punto si legge il dialogo seguente: «Fu
Irene a parlare per prima, rivolgendosi a Francisco: “Perché non ci parli delle
tue biografie fantastiche, amico mio? So che tu hai delle idee molto suggestive
in proposito […]”. “Credevo che lei esercitasse solo la professione di medico”
– intervenne Diego. “Sono stato esclusivamente medico solo prima della morte di
Antonia, quella donna che io curavo e che le ustioni dell’incendio uccisero. Da
allora essere totalmente e unicamente dottore mi disgustò: altre passioni, da
lunghi anni represse, presero il sopravvento. Cominciai a vagabondare e a
meditare possibili esperienze, soprattutto come poeta. Fu decisiva per me
l’ospitalità di un amico eremita, un uomo vecchio e maestoso che conoscevo fin
dai giorni della mia infanzia: egli mi insegnò che bisognava leggere a lungo le
opere degli uomini – fossero essi musicisti o poeti – mescolandole con i gesti
allucinati e drammatici delle loro vite ormai scomparse: creare una specie di
regno fantastico in cui far incontrare un atto umano ormai dimenticato con un
verso immortale dello stesso uomo, edificare uno stupendo labirinto in cui le
parole e la vita si fondessero in un incendio possibile, come una seconda vita
fra l’esistenza e le opere. Io realizzai tutto questo, e divenni il biografo
dei fantasmi dei poeti […]”»1. Come si vede, attraverso le parole di
un suo personaggio, Ercolani tracciava già, in modo ancora un po’ ingenuo, il
programma dei decenni successivi. Certo, egli non ha scritto soltanto vite
immaginarie di artisti, ma anche libri riconducibili a generi diversi. Tuttavia
è come se, dopo aver afferrato, in un momento di prefigurazione giovanile, il
filo di un’opzione che era ad un tempo etica e stilistica, non se lo fosse più
lasciato sfuggire, continuando a coltivare con passione questa particolare
forma di scrittura, fino a giungere, quasi trent’anni dopo, alla raccolta che
ha per titolo Discorso contro la morte2.
Occorre subito ricordare che
Ercolani non ha mai voluto narrare l’intera esistenza di un autore, e neppure
riflettere su di lui dall’esterno, al modo di uno studioso. Chi parla nei suoi
racconti è di solito lo stesso dedicatario dell’omaggio (cioè lo scrittore,
pittore, musicista, regista cinematografico, ecc.), colto nel momento in cui
sta affidando ad un testo segreto una riflessione inattesa, e proprio perciò
illuminante, su se stesso e sulla propria opera. Uno scritto di questo genere
viene di solito designato come apocrifo, ma in questo volume Ercolani ci tiene
ad essere più preciso: «A differenza di un testo realmente apocrifo, che è un’opera attribuita a un autore diverso da quello
reale, si parla di effetto d’apocrifo
quando un testo chiede di essere letto “come se fosse apocrifo”, pur essendo
evidente l’identità dell’autore»3. Non vi è dunque alcun inganno:
chi scrive i racconti è un narratore odierno che prende a prestito la voce di
un artista defunto, da secoli oppure solo da pochi decenni.
Ma perché una persona avverte
l’esigenza, non occasionale ma ricorrente, di parlare con la voce di un altro?
Valéry sosteneva che «se ogni uomo non potesse vivere una quantità di altre
vite oltre la propria, non potrebbe vivere nemmeno la propria»4. La
frase si può intendere in un senso banale, che appare valido per tutti: se
vogliamo rapportarci costruttivamente con gli altri, dobbiamo cercare di
comprendere almeno in parte la loro esistenza e il loro modo di pensare. Ma le
parole citate assumono un significato più pregnante quando vengono riferite
alla riflessione di Ercolani. Egli infatti sembra chiedersi (e chiederci) come
potremmo sopportare la nostra vita, così limitata nel tempo e nelle
possibilità, così funestata da dolori e delusioni, se non avessimo la valvola
di sfogo costituita dalla possibilità di penetrare, con l’ausilio
dell’immaginazione, in quella dei grandi autori del passato, ossia di coloro
che sono, per chi ama e pratica l’esperienza artistica, non soltanto dei
maestri ma anche dei compagni, degli interlocutori costanti, sia pure
nell’ambito di un dialogo soltanto mentale. Non si tratta di una strategia
compensatoria, di un’evasione fantastica rispetto a una realtà frustrante.
Anzi, appena l’impulso ad entrare nelle vite altrui diventa una forma di
pensiero e di scrittura, quindi un gesto creativo, giunge a confermare
l’esattezza delle parole di Deleuze, secondo cui «esiste un’affinità
fondamentale tra l’opera d’arte e l’atto di resistenza»5. Resistenza
verso il presente – basata sulla proposta, implicita o esplicita, di un sistema
di valori alternativo rispetto a quello dominante –, ma anche resistenza verso
il passato.
Poiché quest’ultimo aspetto può
apparire paradossale, converrà chiarirlo meglio. Gli eventi accaduti, per
definizione, risultano immodificabili, ormai consegnati alla memoria,
individuale o storica. Tuttavia, ammoniva Benjamin, «la storia non è solo una
scienza, ma anche e non meno una forma del ricordo. Ciò che la scienza ha
“stabilito”, può essere modificato dal ricordo. Il ricordo può fare
dell’incompiuto (la felicità) un compiuto e del compiuto (il dolore) un
incompiuto»6. Ma la stessa cosa vale per la letteratura, come viene
dimostrato esemplarmente dai racconti di Ercolani.
Non potendo esaminarli tutti,
cominciamo a considerare il testo dedicato ad Hölderlin, che è incentrato sugli
ultimi decenni di vita del poeta, cioè sul periodo della follia, trascorso
nella celebre torre di Tubinga sotto la custodia del falegname Zimmer. Come
raccontare ancora una volta questa vicenda, dopo che tanti biografi e anche
narratori moderni si sono cimentati con essa, affascinati da quella che
appariva loro come la caduta tragica di un grande ingegno, di una sorta di
Icaro della poesia? Lo si potrà fare marginalizzando gli elementi romantico-elegiaci
e sostituendo ad essi una buona dose di ironia. Ercolani infatti rifiuta
l’immagine di un Hölderlin patetico e vaneggiante, e ne propone una inedita,
quella di un poeta che «riflette lucidamente intorno alla propria follia»7.
Non un semplice simulatore, che finge di essere pazzo, ma qualcuno che, pur
presentando dei chiari sintomi patologici («sente le voci», al modo degli
psicotici), nel contempo stesso riesce a spiegare il proprio comportamento e lo
presenta come una scelta deliberata. Questa riscrittura degli eventi non serve
solo a mettere in dubbio l’esistenza di un rigido confine di separazione tra
follia e salute mentale (Ercolani è psichiatra di professione, e quindi sa bene
ciò che dice), né dev’essere scambiata dal lettore per un’ipotesi formulata sul
piano storiografico. La sua legittimità è di natura puramente poetica, ed anzi
il testo è scritto contro i dati
accertati. Esso presenta ad esempio vistosi anacronismi, dato che l’Hölderlin
del racconto conosce e cita, spesso con sarcasmo, le testimonianze lasciate dai
suoi contemporanei che sono andati a trovarlo a Tubinga, ed anche certe
affermazioni attribuibili a studiosi novecenteschi. Ma il senso dell’operazione
di Ercolani diventa ancor più chiaro se si considera un episodio da lui inventato,
quello di una visita di Goethe alla torre, con Hölderlin che dapprima aderisce
alla richiesta di scrivere una lirica, ma poi ci ripensa, appallottola il
foglio e lo scaglia sulla faccia del poeta ufficiale, che infine viene da lui
messo in fuga con gesti incongrui e grugniti da maiale. Certo, tutto ciò non è
mai accaduto, ma molti di noi hanno sognato una scena del genere e saranno
dunque grati ad Ercolani di aver avuto il coraggio di scriverla. Del resto il
racconto, come gli altri compresi nel volume, contiene molti riferimenti
storicamente accertati, ed anche estratti da poesie e prose autentiche di
Hölderlin. Lo scopo, infatti, non è di escogitare vicende o interpretazioni
arbitrarie, bensì di cercare nei testi che sono giunti fino a noi il senso
della vita di chi li ha redatti, nonché lo spunto per crearne altri, possibili
e perciò immaginabili.
Ma che tipo di pagine vengono
attribuite, nella finzione ercolaniana, agli autori del passato? Non si tratta
di lavori letterari in senso stretto, bensì di scritture private, perché «nei
diari e nelle lettere degli artisti abita quella misteriosa e comune affabilità
che, nelle loro opere maggiori, quegli stessi artisti non possiedono o
rifiutano di mostrare»8. È proprio quando il discorso non si rivolge
ad un pubblico generico, ma a un preciso interlocutore, o addirittura soltanto
a se stessi, che possono emergere più facilmente le riflessioni segrete, le
confidenze nascoste, i dubbi o i pentimenti altrove censurati e sottaciuti.
Vediamo qualche esempio,
considerando che sovente Ercolani adotta il punto di vista dello scrittore
«minore» (non per qualità o importanza, ma per situazione) posto in dialogo con
un altro avvertito come «maggiore». Così Keats, ancora giovane e già maturo per
la morte, si rivolge epistolarmente a Coleridge, che gli appare assai più
padrone dei propri mezzi espressivi, e la stessa cosa fa Hawthorne, che
rimprovera a Melville l’enfasi retorico-sublime di Moby Dick. Solidali fra loro possono essere i perdenti, come
Germain Nouveau e Arthur Rimbaud, accomunati dal rifiuto del ruolo di letterato
e dalla propensione ad andare alla deriva nella vita. Ma spesso lo sconfitto è
qualcosa di peggio, ossia un perseguitato. È il caso di due autori carissimi ad
Ercolani, il polacco Bruno Schulz e il russo Osip Mandel’štam. Vediamo il primo
rivolgersi a un’amica per descriverle la propria condizione, sospesa tra la
speranza di sopravvivere (pur essendo ebreo) durante l’occupazione nazista del
suo paese e la lucida premonizione della prossima morte violenta. Del secondo,
nel racconto più lungo fra quelli inclusi nel volume, ci vengono presentate
note di diario, lettere che costituiscono disperate richieste di aiuto e
persino una nuova e sorprendente versione del Discorso su Dante, scritta da chi sta ormai sperimentando l’Inferno
sulla propria pelle. Tuttavia Mandel’štam ci appare qui non solo cosciente
della propria effettiva impotenza di fronte a uno strapotere ingiusto e
tirannico, ma anche desideroso di strappare ai giorni che restano qualche minima
(e proprio perciò ancor più preziosa) briciola di dignità e di felicità. Un
ruolo a parte sembra spettare all’ultimo testo, che comprende estratti dai
taccuini di uno scrittore sovietico, Jurij Oleša. In esso, però, il ruolo di
protagonista viene assegnato ad un personaggio immaginario, l’attore Djuma
Petrov. Questi ha l’abitudine di recitare, nei cabaret d’avanguardia, dei
monologhi di sua creazione che vertono sui letterati del passato e del
presente, dei quali riesce ad evidenziare il segreto nascosto. Non sarà
difficile, dunque, cogliere in Petrov una controfigura quasi esplicita dello
stesso Ercolani.
Come già detto, non possiamo
avanzare la pretesa di esplorare in un breve spazio tutti i racconti di Discorso contro la morte, e ancor meno
ci è lecito tentare di raffrontare questi testi all’insieme dell’opera
ercolaniana, ormai molto vasta e variegata. Accenniamo solo al fatto che tale
ricchezza dipende da un rapporto particolare con la scrittura, simile a quello
che Foucault attribuiva a Gérard de Nerval, di cui il filosofo diceva: «Sin
dall’inizio, è stato ghermito e preceduto dal vuoto obbligo di scrivere.
Obbligo che di volta in volta assumeva la forma di romanzi, di articoli, di
poesie, di teatro solo per essere subito dopo distrutto e ricominciato. I testi
di Nerval non ci hanno lasciato i frammenti di un’opera, ma la ripetuta
constatazione che bisogna scrivere»9. La soluzione migliore, per
noi, sarà allora quella di cedere da ultimo la parola allo stesso Ercolani, che
ha saputo spiegare meglio di ogni altro il senso profondo dei suoi racconti
basati sull’effetto d’apocrifo, ed anche il titolo scelto in questo caso per la
nuova raccolta: «Sognare contro il
mondo. In che modo sognare? Rubando voci.
Rubando l’attimo in cui ci si mette a
nudo, in cui si scrive la lettera definitiva, la confessione sconcertante,
il frammento inatteso che fa luce sull’enigma. Ogni metafora nasce dallo stesso
presentimento: la morte imminente. Cosa fare, contro questo assedio? Sviluppare molteplici modi di sognare.
Allontanare il peso assoluto della morte. Nei tratti di penna e di matita che
riempiono il foglio non si parla di letteratura o di pittura ma di qualcosa che
sarebbe inesprimibile senza quelle frasi e senza quei segni: non si tratta di
un esercizio stilistico o di un capriccio pittorico, ma di un destino fatale,
di una questione di vita o di morte. Per lottare si entra nelle vite altrui. Anche la propria è una vita altrui. Si cercano frasi mai
esistite, si trovano, si inventano. È un modo per dire che niente è realmente
morto, niente si è realmente polverizzato – per dire che possiamo pensare e
ripensare, riscrivere e ricreare, perché nulla è definitivamente concluso, per
noi che soffriamo di metamorfosi»10.
Note
[1] Marco Ercolani, Labirinto Irene, s. l., s. d. (Genova,
1980), pp. 88-89.
2 M. Ercolani, Discorso contro la morte, Novi Ligure, Joker, 2008.
3 Note di lettura, in Discorso
contro la morte, cit., p. 103.
4 Paul
Valéry, Poésie et pensée abstraite,
in Œuvres, I, Paris, Gallimard, 1957;
1997, p. 1320 (tr. it. Poesia e pensiero astratto, in Varietà, Milano, SE, 1990, p. 282).
5 Gilles Deleuze, Qu’est-ce que l’acte de création?, in Deux régimes de fous. Textes et entretiens 1975-1995,
Paris, Éditions de Minuit, 2003, p. 300 (tr. it. Che cos’è l’atto di
creazione?,
Napoli, Cronopio, 2003, p. 22).
6 Walter Benjamin, Appunti e materiali, in Opere complete, IX, tr. it. Torino,
Einaudi, 2000, p. 528.
7 Note di lettura, cit., p. 103.
8 Di voce in voce, in Discorso
contro la morte, cit., p. 100.
9 Michel
Foucault, L’obligation d’écrire, in Dits et écrits, I, Paris, Gallimard,
1994, p. 437 (tr. it. L’obbligo di scrivere, in Archivio Foucault, 1, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 98).
10 M. Ercolani, Rubando voci, in Prose buie
(2007), in AA. VV., Genovainedita
2007-2008, Genova, De Ferrari, 2008, p. 33.