Giuseppe Zuccarino
Derrida, il sovrano e l’animot
Nei versi dei Paralipomeni, Leopardi criticava il
colpevole silenzio dei pensatori moderni riguardo all’animalità: «Quei che
dell’umana mente / L’arcana essenza a ricercar procede, / La question delle
bestie interamente / Lasciar da banda per lo più si vede / Quasi aliena alla
sua con impudente / Dissimulazione e mala fede». L’accusa del poeta conserva la
sua forza polemica anche se riferita a parecchi filosofi a lui successivi, ma
non vale per Jacques Derrida, che ha più volte affrontato, con determinazione e
spirito critico, questa particolare tematica. Lo si vede soprattutto in
un’opera apparsa postuma, L’animal que
donc je suis (Paris, Galilée, 2006). Essa ha lo scopo di dimostrare che uno
dei segni di riconoscimento più sicuri di quel «logocentrismo» che da sempre
costituisce il bersaglio principale della decostruzione derridiana consiste nel
trattamento svalutativo riservato agli animali. Infatti molti grandi pensatori
del passato – gli esempi analizzati sono quelli di Descartes, Kant, Heidegger,
Levinas e Lacan – non hanno fatto altro che ribadire, in maniere diverse,
l’idea che l’animale (sempre al singolare, come se le svariate specie fossero
riducibili ad una sola) si distingue dall’uomo per il fatto di essere privo di
alcune capacità considerate tipicamente umane: «Parola, ragione, esperienza
della morte, lutto, cultura, istituzione, tecnica, vestito, menzogna, finta di
finta, cancellazione della traccia, dono, riso, pianto, rispetto, ecc.».
Derrida, sottoponendo ad attenta lettura i testi dei filosofi citati, ha buon
gioco nell’evidenziare come le argomentazioni da essi svolte riguardo
all’animalità siano viziate da un insieme di presupposti che risultano in gran
parte discutibili.
Alcuni di questi temi
tornano in un libro edito da Galilée nel 2008: Séminaire La bête et le souverain. Volume I (2001-2002). Si tratta
di un’opera importante già solo per il fatto che inaugura un progetto di
amplissimo respiro, quello della pubblicazione dei seminari tenuti dal filosofo
in varie sedi, dal 1960 al 2003. Si prevedono quarantatré volumi, che nei
prossimi decenni andranno ad affiancarsi alla copiosa lista delle opere di un
autore particolarmente prolifico. Nella pubblicazione si intende procedere,
almeno per ora, a ritroso, ossia cominciando dall’ultimo seminario (articolato
su due anni accademici). Il robusto volume che ci viene proposto evidenzia fra
l’altro la meticolosità con cui Derrida si dedicava alla stesura delle sue
lezioni. Egli lasciava tuttavia un certo spazio all’improvvisazione, nel senso
che le redigeva nel corso dell’anno, variando spesso il piano espositivo
inizialmente previsto.
Il filosofo ha indicato in
un riassunto retrospettivo alcuni degli risultati che si proponeva di
conseguire nel corso del seminario: «Non si trattava soltanto di studiare, a
partire da Aristotele, e persino in discussioni contemporanee (Foucault,
Agamben) i testi canonici riguardo all’interpretazione dell’uomo come “animale
politico”. Occorreva soprattutto esplorare le “logiche” che organizzavano ora
la sottomissione della bestia (e del vivente) alla sovranità politica, ora
un’analogia irresistibile e sovraccarica fra una bestia e un sovrano che si presume
condividano il luogo di una certa esteriorità nei confronti della “legge” e del
“diritto”». Ma nel libro troviamo assai di più: si va da una lettura della
celebre favola di La Fontaine Le loup et
l’agneau all’esame di alcuni
classici del pensiero politico (Machiavelli, Hobbes, Rousseau, Schmitt), da
un’analisi del tema della bêtise in
autori come Flaubert, Valéry e Deleuze a digressioni su una poesia di Lawrence
o su un discorso di Celan. Non mancano i riferimenti all’attualità e ad
argomenti spinosi come quello dello sfruttamento intensivo degli animali
attraverso il loro allevamento a scopi di macellazione, di studio scientifico,
di esibizione negli zoo. Un episodio emblematico commentato dal filosofo è
quello della dissezione di un elefante avvenuta in pubblico nel 1681, alla
presenza di Luigi XIV: il più grande degli animali terrestri e il più fastoso
dei re si sono dunque trovati l’uno di fronte all’altro, nei ruoli opposti di
vittima e spettatore, ma quasi a ribadire, al tempo stesso, la segreta parentela
che unisce la bestia e il sovrano.
Questo seminario tocca
dunque una grande varietà di argomenti e prende in esame un numero elevato di
brani desunti da opere importanti. Se il lettore stenta a volte a capire la
logica che regola il passaggio dall’uno all’altro dei temi trattati, l’autore
non sembra preoccuparsi troppo di seguire un percorso rigidamente orientato e
pare trovarsi a proprio agio in mezzo al labirinto di riferimenti che gli
vengono suggeriti da una cultura e da una memoria impareggiabili. Pur essendo
il suo testo destinato ad essere esposto oralmente, egli non rinuncia a
conferirgli le abituali qualità stilistiche, inclusi i tipici giochi
grafico-fonici sulle parole e sulle locuzioni idiomatiche: si vedano in
particolare le variazioni sul loup,
vero protagonista del seminario, non solo in quanto animale ma anche in quanto
vocabolo. Del resto, nel citato libro derridiano del 2006 questi due aspetti
venivano unificati tramite la coniazione del neologismo animot, che presenta il vantaggio aggiuntivo di essere omofono
rispetto ad animaux, ricordando
quindi l’effettiva pluralità dei diversi animali. Il filosofo non dimostra
alcun timore di affaticare se stesso e i propri ascoltatori con lunghe sedute,
basate su analisi minuziose dei testi. Ma è agevole rilevare come, nonostante
ciò, egli avverta di continuo la sensazione che il tempo a sua disposizione sia
insufficiente, che occorrerebbe potersi soffermare più a lungo sulle pagine
degli autori che sta esaminando, per rendere loro giustizia e non incorrere
nella colpa di appiattirne la ricchezza e complessità.
Come abbiamo detto, Derrida
si confronta non solo con i classici, ma anche con alcuni pensatori suoi
contemporanei. Così, ad esempio, giudica interessanti la distinzione operata da
Deleuze tra bêtise ed errore e
l’assegnazione della bêtise non
all’animale bensì soltanto all’uomo. Prende invece le distanze sia
dall’abitudine deleuziana di ridere con eccessiva facilità della psicoanalisi,
sia dal concetto di «divenire-animale», che considera troppo intriso di
antropomorfismo. Allo stesso modo contesta il termine, proposto da Foucault, di
«biopolitica», specie se con esso si crede di designare un fenomeno che si
sarebbe manifestato solo in epoca moderna. Quanto ad Agamben, Derrida
raccomanda la lettura del primo volume di Homo
sacer, ma al tempo stesso ne evidenzia i gravi difetti, quali la tendenza a
voler individuare (perlopiù in modo erroneo o indimostrabile) il primo autore
che avrebbe sostenuto una determinata idea, oppure il tentativo di attribuire
ad Aristotele un’opposizione tra bíos
e zoé che, di fatto, non trova
sufficienti riscontri nei testi del filosofo greco.
Ma questi sono solo alcuni esempi delle discussioni condotte da Derrida
con coloro che diventano i suoi interlocutori ideali nelle pagine del
seminario. Il modo in cui li legge è molto stimolante, perché per un verso egli
appare vigile nel rilevare le differenze rispetto alle proprie posizioni,
talvolta impietoso e ironico nel segnalare i punti deboli del ragionamento o
dell’argomentazione altrui, ma al tempo stesso attento a evitare ogni polemica
preconcetta, come risulta dal fatto che egli cita ed esamina sempre con
scrupolo i testi a cui intende riferirsi. E appunto in questa pazienza, in
questa volontà e capacità di lettura approfondita delle opere dei classici e
dei contemporanei, è lecito ravvisare un insegnamento particolarmente valido ed
attuale sul piano metodologico. (2008)