Massimo Bacigalupo
Zagajewski, quotidianità con le
punte
Chi aveva letto le mirabili prose saggistiche e
aforistiche di Tradimento di Adam Zagajewski
(Adelphi, 2007) attendeva con impazienza una sua antologia poetica in italiano.
Dalla vita degli oggetti. Poesie
1983-2005 (a cura di Kristina Jaworska, Adelphi, pp. 234, € 20,00) ripaga
ampiamente l’attesa con uno dei libri di poesia più notevoli in assoluto
apparsi in Italia negli ultimi anni. Sarebbe in effetti difficile trovare oggi
nel panorama internazionale un poeta più significativo di Zagajewski, che con
grande rigore e concisione comunica il senso del vivere al volgere del
millennio con un peso di memorie sempre presente ma non schiacciante
derivatogli dalla sua origine polacca e dalla sua vita apolide. Nato nel 1945 a
Leopoli, può a buona ragione essere considerato uno dei vecchi maestri della
poesia europea (se ne è infatti parlato a proposito di Nobel). Non disdegna la
prosaicità dimessa di una vita che deve fare il conto con molte disillusioni.
Eccone un primo autoritratto, intitolato Il fuoco:
Sono, suppongo, un comune borghese
paladino dei diritti individuali,
la parola libertà per me non ha confini
di classe, politicamente ingenuo, mediamente
istruito (brevi attimi di chiarezza
sono il principale alimento), ricordo
l’appello ardente di quel fuoco che prosciuga
le labbra assetate della folla, e poi brucia
i libri e carbonizza la pelle delle città, ho anche
cantato quei canti, so quanto sia stupendo
correre assieme agli altri, poi, una volta solo,
in bocca resta un sapore di cenere e odo
l’ironica voce della menzogna, e il coro che grida,
e sfiorando la testa, sotto le dita sento
il cranio convesso, della mia patria la dura sponda.
Denuncia dunque dei totalitarismi di cui Zagajewski pur
serba il ricordo. Emigrato forzatamente con la famiglia dalla gloriosa Leopoli,
divenuta ucraina nel 1945, nella insignificante Gliwice, fu nei Pionieri e ricoprì anche qualche carica, “per
scherzo”, racconta in Tradimento,
prima di emigrare a Parigi e poi negli Stati Uniti. Attualmente insegna a
Chicago, ma passa parte dell’anno nella bella Cracovia (dove studiò e divenne
amico di Szymborska), e quando può ripara sulle spiagge del Mediterraneo. Nei
suoi scritti parla spesso di nuotate, con le metafore inaspettate e azzeccate
di cui è maestro:
I nuotatori immersi in un diafano lenzuolo
con infinita lentezza si spostano lungo linee invisibili,
lungo i bianchi fili che legano ogni
sostanza,
e s’ode il mormorio grandioso delle creature infine appagate,
quando pare che persino gli insetti debbano avere il proprio Dioniso,
in agosto, quando all’improvviso tace il fragore dell’Europa...
(Piena estate)
Come negli scritti saggistici, Zagajewski si muove con
agio per una o più vasche (rare le
poesie che superino le due pagine), affiancando versi paralleli, colloquiali,
apparentemente dimessi, ma disseminati di punte affilate, espressive, proprio
come le bracciate del nuotatore solitario: ogni bracciata una metafora e una
piccola non sconvolgente ma felice scoperta. E come nelle prose, sa anche
stringere la verità in poche parole:
Anni Trenta
Io ancora non ci sono
Germoglia l’erba
Un ragazzo mangia un gelato alla fragola
Qualcuno ascolta Schumann
(il folle Schumann,
smarrito)
Che felicità
Io ancora non ci sono
Sento tutto
(Anni Trenta)
E’ una riflessione sul fatto che il mondo è esistito ed
esisterà senza di noi, ma anche questo passato e presente che non conosciamo lo
conosciamo come (non) conosciuto. Zagajewski, ricorda la Jaworska
nell’eccellente postfazione, ha fatto studi filosofici:
E se Eraclito e Parmenide
avessero ragione contemporaneamente
e due mondi esistessero affiancati
uno tranquillo, l’altro folle...
(Lava)
Ma il mondo di Zagajewski è concreto nel senso che vive
nei luoghi percepiti e immaginati: già nei titoli troviamo Roma, Houston,
Cracovia, la Sicilia, Vicenza, il Rodano, la Borgogna, e naturalmente Leopoli
(lasciata a pochi mesi ma rimasta mito). I luoghi ci sono nella loro
concretezza prosaica, passibile però sempre di un riscatto, di un momento in
cui il mondo acquista senso o si illumina, ciò che si dice un’epifania.
Zagajewski è diventato celebre negli Usa perché il New Yorker pubblicò sull’ultima pagina del numero uscito dopo l’11
settembre 2001 la poesia Prova a cantare
il mondo mutilato:
Ricorda le lunghe giornate di giugno
e le fragole, le gocce di vino rosé.
Le ortiche che metodiche ricoprivano
le case abbandonate da chi ne fu cacciato.
Devi cantare il mondo mutilato...
Hai visto i profughi andare verso il nulla,
hai sentito i carnefici cantare allegramente.
Dovresti celebrare il mondo mutilato.
Ricorda quegli attimi, quando eravate insieme
in una stanza bianca e la tenda si mosse...
Non ci sono grandi gesti retorici, e nemmeno una
sopravvalutazione leziosa della quotidianità, che è sempre scrutata alla luce
dell’assenza e della violenza, scatenata oppure strisciante.
A questo proposito si veda Lettera da un lettore, una sorta di dichiarazione di poetica:
Troppo sulla morte,
sulle ombre.
Scrivi della vita,
di una giornata normale,
del desiderio di armonia...
Guarda,
popoli ammassati
in stadi stretti
cantano inni d’odio.
C’è troppa musica,
troppa poca concordia, pace,
saggezza.
Scrivi degli attimi in cui le passerelle dell’amicizia
paiono più durature
della disperazione.
Scrivi dell’amore
delle lunghe serate,
delle albe,
degli alberi,
dell’infinita pazienza / della luce.
Non è facile scrivere di questa quotidianità facendocela
riscoprire solo dicendola di verso in verso, pagina in pagina. E’ questo il
dono unico che ci fa Zagajewski: un libro in cui possiamo ritrovarci e trovare
frammenti di percezione precisa, succosa e non compiaciuta. Sembra che i
giovani poeti polacchi di oggi preferiscano i versi sornioni e avvitati su se
stessi di un John Ashbery, che però è anche più anziano di Z. e in definitiva
cerca di sorprendere la realtà con la lingua e confermarla in modo simile al
confratello europeo. Zagajewski evita le tentazioni (e anche la facilità e
riproducibilità) di un certo sperimentalismo, nonché l’espressionismo e l’urlo
anch’essi troppo facili, per quanto abbia fatto esperienza di repressione ed
esilio. Le poesie di Zagajewski hanno il carattere dell’unicità, da ciò anche
la popolarità di alcune. Sia che si tratti di una caricatura affettuosa come Le mie zie (riprodotta curiosamente sul
risvolto dell’indovinata copertina gialla di questo Dalla vita delle cose, intonata al disegno di una via londinese di
Jòsef Cazapski, un amico di Z. dedicatario di un’altra poesia programmatica
memorabile, Crudele), sia che tocchi
ai defunti avvertirci di vivere la vita:
I viventi vivono così spensierati, noncuranti
che i morti ne strabiliano.
Ridono tristi ed esclamano, ah, ragazzi,
anche noi eravamo così. Proprio eguali.
(Requiem per i viventi)
Sia che ci si presenti un
apologo ambiguo come Le scimmie:
Un giorno le scimmie presero il potere.
Si infilarono alle dita sigilli d’oro,
indossarono camicie bianche inamidate,
fumando sigari avana profumati...
Non lo notammo, perché eravamo intenti
ad altre occupazioni: chi leggeva Aristotele,
chi proprio allora viveva un grande amore.
I discorsi dei potenti si fecero caotici,
persino farfuglianti, comunque non li ascoltavamo...
E’ una rappresentazione della sfiducia ampiamente
giustificata per le scimmie che “prendono il potere” con la nostra tacita
connivenza? E se le scimmie riescono anche a farsi ascoltare escludendo ogni
altro discorso? E’ la differenza fra il totalitarismo subito nell’indifferenza
e la politica-spettacolo dei nostri tempi. Ma gli apologhi non vanno spiegati,
e nemmeno le poesie.
“Il manifesto-alias”, 28 luglio 2013