Alfredo
Passadore
yellow birds
Kevin Powers: YELLOW BIRDS. Einaudi, 2013
“Venire da un posto dove a definirti bastano pochi
dettagli, dove poche abitudini possono riempire una vita, produce un senso di
vergogna inconfondibile. Le nostre erano state piccole vite, popolate dal
desiderio di qualcosa di più consistente di qualche strada sterrata e qualche
piccolo sogno. E allora eravamo andati lì, dove la vita non aveva bisogno di
spiegazioni e dove altri ci avrebbero detto chi dovevamo essere.” Lì è l’Iraq,
l’anno è il 2004 e quello che decide chi bisogna essere è l’esercito degli
Stati Uniti. Kevin Powers riassume così, in pochi tratti essenziali, le
motivazioni di due ragazzi della Virginia che si ritrovano a vagare armati
nelle strade di Al Tafar, governatorato di Ninawa, Iraq, i protagonsti di
“Yellow Birds”, la sua folgorante opera prima e uno dei migliori romanzi di
guerra pubblicati in questi anni.
Le lodi in questo caso si sono sprecate, Dave Eggers
lo ha definito “uno dei libri più tristi letto negli ultimi anni, ma triste in
un modo importante” e ha paragonato Powers a David Finkel, vincitore di un
Pulitzer nel 2006 col suo reportage dall’Iraq “I bravi soldati”, altri hanno
parlato di Tim O’Brien e del suo classico sul Vietnam, “Mettimi in un sacco e
spediscimi a casa”. Ma i paragoni si possono allargare a piacere, fino a
includere alcune delle colonne portanti della letteratura bellica americana,
dal “Segno rosso del coraggio” di Stephen Crane, romanzo anch ‘esso di
formazione ma nell’inferno della guerra di Secessione, fino al grande dramma
bellico nel Pacifico racchiuso in “Il nudo e il morto” di Norman Mailer. Tutti
esempi magnifici del raccontare la guerra al di fuori di ogni retorica, col
disincanto di chi sa che, a ben vedere, tutti i dolori si assomigliano e
non c’è ideologia, per quanto possente, che possa giustificare il ritorno
prepotente di una barbarie incontenibile. E in Iraq non c’è nemmeno più
l’ideologia, quella della fine della schiavitù che giustificava, almeno in
parte, gli orrori della guerra civile, o quella della lotta alla dittatura che
tentava di spiegare le tragedie della seconda guerra mondiale. In Iraq domina
la menzogna, quella che ha scatenato la guerra e quella delle truppe occupanti
che “liberano”, e a combattere non sono più giovani innocenti, costretti dalla
leva obbligatoria, ma giovani illusi che hanno scelto l’esercito come via di
fuga da una vita insignificante.
Kevin Powers, 33 anni, figlio di operai in una
Virginia per molti aspetti ancora rurale e arretrata, in Iraq c’è stato per
davvero, un anno come mitragliere, e ha raccontato in un’intervista che a
scrivere il libro lo avrebbe indotto soprattutto la domanda che, al suo
ritorno, la maggior parte delle persone ossessivamente gli rivolgeva “ ma come
ci si sentiva a trovarsi laggiù?”. “Yellow Birds”, versi da una crudele
filastrocca cantata dai soldati, è la sua risposta a quelle domande, ma va ben
al di là del semplice memoir, diventa una storia universale che sa scendere nel
profondo di ognuno e Powers, che è soprattutto un poeta, lo fa con parole che
scavano dimensioni inusuali anche là dove altri vedrebbero soltanto una
cupa e sordida realtà.
Bartle, il suo protagonista, ha indubbiamente molti
punti in comune con l’autore: stesso luogo di provenienza e stessa scelta
esistenziale, quella della vita militare, dettata soprattutto dalla noia nella
tetra provincia americana, l’arruolamento come unica via di fuga da quella che
appare una trappola senza uscita per tutti quelli che il sogno americano lo
vedono solo dalla porta di servizio. Powers si è arruolato a 17 anni, Bartle ne
ha 21, ma il suo commilitone Murph, il secondo protagonista della storia, e
alla fine anche il suo centro, ne ha appena 18 e viene pure lui da un paesino
sperduto del vasto sud. Si ritrovano ad addestrarsi nella neve di Fort Dix, New
Jersey, uno strano modo per prepararsi alle sabbie torride della valle
del Tigri, legati da un sottile rapporto di amicizia-protezione reciproca,
destinato a segnarli per sempre. Terzo angolo del triangolo esistenziale che
segna questa disgraziata avventura, il sergente Sterling, colui che meglio
incarna la logica crudele della guerra, non un cinico, se mai uno stoico che si
è formato alla dura scuola dei combattimenti moderni, fatti di agguati a
tradimento, attentati suicidi e scarsa attenzione alle differenze tra civili e
nemici, visto che tra i primi sempre si nascondono i secondi.
Qualcuno, come Ron Charles del Washington Post, ha
criticato il libro, sostenendo che ”le parti sono meglio del tutto”, come dire
che Powers, più poeta che narratore, sarebbe riuscito perfettamente a cogliere
singoli frammenti, tracciando con il pennello di una parola tagliente, ma
precisa e spesso lirica, una quadro toccante della vita di questi soldati
smarriti nel vuoto immenso di un Iraq completamente ostile, ma perdendo spesso
di vista il quadro narrativo d’insieme. E in effetti il libro risulta in
qualche modo frammentario, ma l’effetto sembra completamente voluto, la
narrazione si spezza, perde coerenza, segue più l’umano sentire del suo
protagonista che le ragioni della storia, inevitabilmente sembra destinata a
perdersi nelle circonvoluzioni di una mente a tratti disperata.
Powers, della guerra in Iraq in quanto fatto
“politico”, decide di non parlare, nel libro non ci sono le ragioni delle parti
in lotta, la retorica delle ideologie o un qualsiasi spirito di presunta
grandezza. C’è semplicemente la narrazione del “fatto” e i sentimenti umani di
chi, per varie ragioni, vi si ritrova a muoversi in mezzo. Bartle e Murph sono
semplicemente due molecole in un precipitato completamete e follemente
illogico, due atomi in fuga che pensano soprattutto a restare vivi. Il racconto
spazia in narrazioni temporalmente diverse: c’è un prima, l’arruolamento, il
pianto di una madre che non capisce, l’addestramento e l’incontro con Murph.
C’è un durante, l’azione ad Al Tafar, l’avanzare in una cittadina
semidistrutta, dove anche il luogo più ameno, la macchia lussureggiante di un
frutteto al centro della desolazione desertica, può rivelarsi una trappola
fatale. E c’è inevitabilmete un dopo, il ritorno a casa col fardello di quanto
si è visto, di come le cose ti abbiano cambiato dentro per sempre, di quanto
sia impossibile comunicarlo a quanti non abbiano vissuto le medesime
esperienze. In più, per Bartle e Sterling, c’è il peso insopportabile di sapere
cosa realmente è successo a Murph, di quanto hanno visto perpetrato sul suo
corpo e di cosa sono stati costretti a fare per puro senso di umana pietà.
La guerra raccontata da Powers non è mai quella delle
maiuscole, non ci sono nel suo libro riflessioni che inducano a prese di
coscienza più vaste, non c’è nemmeno una critica aperta al sistema che l’ha
generata: Bush e la sua cricca restano sempre sullo sfondo, per i
soldatini che si muovono come innocenti pedine sullo scacchiere del mondo sono
distanti come gli dei che, dall’Olimpo, decidono di chi sarà il corpo destinato
ad intercettare la prossima pallottola. Altrettanto indifferenziati sono
i nemici, anonimi nella folla che osserva distante l’avanzare di questi
“liberatori” travestiti da robot di guerre molto poco stellari. Quello che
emerge con solida chiarezza è l’efferatezza dei metodi, dall’una e dall’altra
parte, la crudeltà indifferenziata che scatena offesa e reazione, la paranoia
costante che offusca l’esistenza, quella stessa che, per anni, una volta
ritornato alla vita civile, ti farà osservare la riva tranquilla di un fiume
alla ricerca di un riparo sicuro dal fuoco nemico. Un’ossessione da cui sarà
difficile liberarsi, stampata nel cervello dalle immagini, quelle sì reali, del
sangue, delle viscere, degli escrementi, degli elementi più basilari della vita
e della morte che la guerra rende crudelmente evidenti e onnipresenti.
Il pregio maggiore del libro di Powers sta nell’aver
umanizzato tutto questo: non si è limitato a raccontarci le sue storie
dell’Iraq, ci ha portato dentro alle sue piane assolate, alla sua desolazione
umana e materiale, e lo ha fatto restituendo all’esperienza il suo senso di
umanità più profonda. Con lui noi viviamo dentro a Bartle, ne seguimo attoniti
il lento avanzare al centro di mille possibili imboscate, ascoltiamo il suo
cuore battere all’impazzata o farsi tenero per un impeto improvviso di umana
pietà o di fraterna amicizia. Quello di Powers non è mai, comunque, semplice
voyerismo, non offre la visione gratuita di massacri e tanto meno un sadismo
bellico a buon mercato, ad uso di quanti sognano sensazioni forti standosene
comodamente in poltrona.
“Yellow Birds” è prima di tutto, come detto, un libro
poetico, un testo doloroso sull’amicizia, sulla follia e sulla solidarietà che
pure permane anche nelle situazioni più orribilmente sconvolte. Un libro di
guerra in cui, per fortuna, vediamo poco della guerra e molto più degli uomini
che la combattono. Un libro in cui la follia trova una personificazione
scolpita nella pelle stessa dei suoi protagonisti. Sarà Murph, nella sua fine
grottesca, a incarnare alla perfezione il senso stravolto dell’incubo che tutti
stanno vivendo in Iraq. Un gesto estremo di rivolta, ma disperato e
autolesionista, che non porterà a nulla, se non a segnare per sempre il destino
dei suoi due compagni, il sergente e l’amico, accumunati in un ultimo
gesto di estrema pietà, ma pure di assurda insensatezza, almeno secondo i
dettami dei regolamenti.
Con “Yellow Birds” Kevin Powers ha scritto
indubbiamente un libro potente, estremamente maliconico come dice Eggers, ma
anche terribilmente umano, troppo umano nel senso buono del termine, una
discesa agli inferi al cui termine non ci attende nessuna liberazione ma, se
non altro, uno sguardo meno disperato su noi stessi.