Andrea Natali
XXX Cantos per il Duemila
Come
noto, Pound cominciò a pubblicare i suoi “canti” nel
1917, su Poetry
di Chicago, e a raccoglierli in volume nel 1925 (edizione lussuosa dei canti
I-XVI, con incisioni di Henry Strater) e 1928 (canti
XVII-XXVII): due sequenze con caratteri abbastanza distinti poi confluite,
aggiunta l’appendice dei canti XXVIII-XXX, in A Draft of XXX Cantos nel 1930 (forse anche cercando un
rispecchiamento fra numero di parti di questa prima “cantica” poundiana e l’anno in cui fu congedata). Sicché leggendo i XXX Cantos ora
ritradotti e chiosati in edizione tascabile da Massimo Bacigalupo
(“poeti della fenice”, Parma-Milano, Guanda, 2014,
pp. 382, €14,00) a cinquant’anni
dalla precedente traduzione “d’autore” (firmata dalla figlia del poeta Mary de Rachewiltz ma sorvegliata da Pound
stesso) abbiamo subito a che fare con un libro che è “due in uno e uno in due”.
Questo è interessante perché in Pound conta molto
l’architettura, l’effetto di insieme, le scansioni tematiche del materiale. La
sua pagina è suggestiva e provocatoria in sé, ma vale in misura eguale la sua
relazione ad altre pagine e sezioni. Dunque non è un caso che i canti I-XVI si
aprano con la guerra di Troia e si concludano con una rievocazione atonale
della Grande Guerra in un argot traslitterato alla sua maniera da Pound (che Bacigalupo
curiosamente sceglie di tradurre in italiano, anziché lasciare il testo pseudo-francese originale, “per comodità del lettore” dice
in nota). Come è voluto il fatto che l’ouverture della seconda sequenza, XVII,
si apra con la formula “So that” che chiude
allusivamente il canto I, come a dire che da esso tutto procede. Questo XVII è
il canto che Yeats ospitò nell’Oxford
Book of Modern Verse, sontuosa evocazione di un viaggio che dalle
sensuali sponde del Mediterraneo porta alle diversamente sensuali sponde di
Venezia, città affascinante e minacciosa, incarnazione forse del principio
femminile che in questi canti assume infinite sembianze. (Come Lawrence e
Hemingway, Pound afferma la centralità del rapporto
erotico ma insiste sulla necessità che il maschio non si lasci domare e
dominare: nella vita poi egli molto
dovette alle sue generose compagne-collaboratrici, la moglie Dorothy, la musa
Olga e la figlia di questa Mary, che tuttora in età avanzata cura il lascito
del padre e cerca di difenderlo da crudeli
strumentalizzazioni.) Sulla prima pagina del canto I appare Circe, “dea
dalle belle chiome”, e due pagine dopo Pound riscrive
l’inno omerico ad Afrodite. Il canto XXIX è tutto una riflessione sul
femminile: “E’ sottomarina, è una piovra, è / Un processo biologico, / Sicché Arnaut si voltò laggiù, / Alto sopra di lui il motivo
dell’onda inciso sulla pietra…”. Marianne Moore,
nella brillante recensione ai XXX Cantos riportata da Bacigalupo
nell’apparato, non lasciò passare a Pound questa
uscita gnomica, che del resto altrove egli stesso contraddice: il tema della
furbizia femminile è spassosamente evocato alla fine di XXII (ed è come
richiamato dalla battuta di Afrodite alla fine di XXIII).
Nel
brano citato sopra da XXIX, Arnaut, come ricorda Bacigalupo nelle annotazioni, è una persona di T.S. Eliot, che a Pound
“miglior fabbro”, cioè Arnaut, dedicò The Waste Land. Quasi Pound volesse
restituirgli il complimento. In effetti questi XXX Cantos possono tutti leggersi come
una risposta poundiana a The Waste Land.
Pound era un vitalista e si ribellava alla diagnosi
impietosa della storia e del “futile” destino terreno implicita nel poema eliotiano. L’intenzione è esplicita in apertura alla
sequenza dei canti riguardanti Sigismondo Malatesta (VIII-XI), che non per
nulla apparvero sul Criterion
di Eliot nel 1923, a conclusione del primo volume della rivista. Che si era aperto
appunto con The
Waste Land. “These fragments you have shelved (shored)” recita
l’incipit di VIII, alludendo alla chiusa eliotiana (“These
fragments I have shored against my ruin”). Bacigalupo
traduce: “Questi frammenti tu hai sepolto (raccolto)”. Pound
suggerisce che mentre Eliot ha archiviato i frammenti del passato lui invece li
estrarrà dagli archivi per far cantare la storia, e saranno le vicende epiche
di Sigismondo a cui si dedicherà nel corso di questi quattro canti, fra i più
elaborati che abbia scritto, vera Malatestiade. Come
vediamo dalla preziosa serie di testimonianze raccolte da Bacigalupo
alle pp. 15-30, Pound
visitò numerosi archivi, fra Roma, Cesena, Rimini, Venezia, Milano, cercando
notizie sul condottiero-mecenate di cui si era invaghito, e convinse Hemingway
ad accompagnarlo sui luoghi dove aveva combattuto per studiarne la strategia.
Questo episodio malatestiano oltre a dare a Pound uno
dei suoi principali eroi in lotta contro forze soverchianti, vincitori pur
nella sconfitta, fornisce un modello strutturale che egli riprenderà fino alla
fine, dedicando sequenze di canti a un tema storico (gli Estensi e i Medici nei
canti XX-XXI e XXIV, le vicende della Serenissima dalle origini alla decadenza
in XXV-XXVI), e alternandoli con scomparti mitici (straordinario il XXIII che
termina con l’apparizione di Venere sopra citata) e scene contemporanee (qui
XVIII-XIX, XXII, XXVII-XXIX). Una
sezione a sé è la rivisitazione dell’Inferno e Purgatorio dantesco in XIV-XVI,
e di nuovo notiamo la voluta rima fra le pagine iniziali e finali della
sequenza dei canti I-XVI: dall’Ade omerico a Malebolge.
Poi all’interno di singoli canti materia attuale, storica e mitica si
intreccia, spesso collegata con un sistema di leitmotive come se ne trovano
negli altri capisaldi del modernismo di Eliot e Joyce. Qui spesso è evocata
l’Arena di Verona come scenario di uno spettacolo millenario, e sentiamo il
ritornello “Keep the peace,
Borso!”. Uscendo dalla Grande Guerra, Pound sentiva molto il tema della pace, ma era già
sospettoso sulle proposte di Wilson (fra i dannati dell’Inferno di XIV) e la
Società delle nazioni. Buona parte di
XVIII è una biografia di un ambiguo magnate degli armamenti, Basil Zaharoff. Pound registra la storia e il presente come li ha visti o
conosciuti di persona. E’ sempre il viaggio di Ulisse che partendo da Troia
alla fine della guerra spera di raggiungere Itaca, come del resto Tiresia gli promette nel canto I. Fra mille difficoltà, e
sappiamo che anche Pound ne incontrerà (e se ne
cercherà) parecchie. Bene o male anche lui giungerà a una conclusione serena ancorché
travagliata: “due falene e un topo mia guida / avere udito la farfalla
sospirare, come verso un ponte sui mondi…” (sono i
frammenti, circa 1960, che si leggono nelle pagine conclusive dei Cantos). Ma intanto i XXX Cantos sono opera di un Pound che
spavaldamente procede alla sua ricognizione del mondo, cantando e divertendosi,
sognando come suol fare, inveendo contro gli
oscurantisti e i professori “che oscurano i testi con la filologia” (XV). La
nuova versione di Bacigalupo rimette in circolazione
nella lingua di oggi questo brogliaccio impagabile di un poeta-storico,
affidandolo alla passione del lettore che avrà un compito non sempre facile.
Infatti, come nella precedente versione de Rachewiltz,
Bacigalupo ha scelto di riprodurre i testi originali
italiani rielaborati da Pound nel suo inglese, sicché
ci imbattiamo in voci lontane e possiamo verificare direttamente come il poeta
le ha intese. In questo modo Il poema diviene ancor più polifonico. Ma il
lettore non si spaventi. La vitalità contagiosa di Pound
viene a capo dell’ardua impresa, e sarebbe divertente organizzare una lettura
ad alta voce dell’intera cantica nella nuova versione. L’ascoltatore
intenderebbe senz’altro i temi di fondo e l’indubbia grandezza di questo
monumento di poesia.