Questo ritratto di Oscar Wilde fu
scritto nell'anno del celebre processo che costò la galera allo scittore. L'autore, una delle figure cardine del
simbolismo, lo coglie nei suoi momenti parigini ai quali dovette la tormentata
conoscenza con Whistler, Mallarmé, Moréas, il suo traduttore Schwob
e, fra gli altri, Gide e Pierre Louis.
Henri de Régnier
ricordi su Oscar Wilde (1895)
Ogni anno, in primavera e talvolta d'inverno, si
poteva incontrare a Parigi un perfetto gentleman inglese. Conduceva qui la vita
che Bourget, poniamo, potrebbe condurre a Londra,
frequentando artisti e salotti, ristoranti e personalità mondane, tutto quanto
possa interessare un uomo istruito ed elegante che sa pensare e sa vivere.
Questo straniero era di alta statura e robusta
corporatura. Un lieve rossore rendeva ancora più grande il volto imberbe ed un
collo proconsolare. Era una medaglia glabra. Gli occhi sorridevano. Le mani
apparivano belle, un poco carnose e grasse, l'una adorna di un anello con
pietra verde. Il gran personale autorizzava l'ampiezza di redingote magistrali
aperte su sgargianti gilet di prezioso velluto o morbido raso. Alle labbra
fumavano di continuo sigarette orientali dal filtro dorato. Un fiore raro,
all'occhiello, completava questa tenuta ad un tempo signorile e meticolosa. Di
carrozza in carrozza, da un caffé all'altro, di
salotto in salotto, dondolava il passo pigro da omone un po' stanco.
Corrispondeva a mezzo telegrammi e parlava per apologhi. Finito di pranzare con
Barrès si preparava a cenare con Moréas,
poiché era curioso di ogni pensiero, e le idee audaci, concise ed ingegnose del
primo l'interessavano quanto le affermazioni brevi, sonore e perentorie del
secondo.
Anche Parigi accolse quel viaggiatore con curiosità.
Hugues Le Roux ne fece le lodi, Téodor
de Wyzewa lo maltrattò, ma niente ne turbava la
solida prestanza, la sorridente serenità e la beatitudine maliziosa.
Chi di noi non lo ha incontrato in questi anni ?
Anch'io ho avuto il piacere di vederlo a più riprese. Si chiamava Oscar Wilde,
poeta inglese e persona di spirito.
Aveva scritto molto e molto parlato. Le sue poesie
valevano quanto quelle di Algernon Swinburne, forse, ma certo un volume di saggi di ingegnosa
dialettica, un romanzo drammatico ed eloquente, la raccolta di quattro
bellissimi racconti e l'indiscussa fama di perfetto esteta d'oltremanica gli
conferivano un alone di gloria e certificavano un'interessante personalità.
Piacque, divertì, stupì. Per lui ci si entusiasmò; ebbe fanatici. Ricordo che
una signora, nostra amica, pretese perfino, a tavola, di distinguere intorno
alla testa del suo ospite un'aureola
luminosa. Si cenava, finemente e a lungo, in una sala lussuosa e chiara. La
tovaglia era un trionfo d'addobbi e profumava di violette. Lo champagne
spumeggiava nelle coppe intagliate; coltelli d'oro sbucciavano frutti. Wilde
parlava. Intorno a lui i convitati silenziosi erano ben disposti ad ascoltarlo.
Di quella conversazione e di alcune altre ho conservato un ricordo vivo e
duraturo. Wilde si esprimeva in francese con un'eloquenza ed un tatto poco
comuni. Abbelliva la frase con una scelta di termini giudiziosi. Da buon
umanista d'Oxford, Wilde avrebbe potuto pure servirsi del greco o del latino.
Amava le antichità greche e romane. Il suo discorrere era pieno
d'immaginazione. Era un incomparabile narratore di storie; ne conosceva a
migliaia, l'una incatenata all'altra. Era il suo modo di esprimersi,
un'ipocrisia figurativa del pensiero. Ce n'è una che raccontò quella sera e con
cui, credo, alludesse a sé stesso.
C'era una volta, diceva, un giovane abitante di una
città in riva al mare; ogni mattina andava a passeggio sulla spiaggia e, al
ritorno, raccontava di aver visto le sirene; ora, gli successe d'incontrarne
una mentre si bagnava nell'acqua azzurra; la vide ma sulla via del ritorno,
quando lo si interrogò su ciò che aveva visto quel giorno, tacque e non
rispose.
Non bisognava insistere troppo con Wilde sul senso
di quelle allegorie; bisognava apprezzarne la grazia e l'inatteso senza
sollevare i veli di quell'ingegno fantasmagorico che rendeva la sua
conversazione una sorta di Mille e Una Notte parlate.
La sigaretta dorata si spegneva e riaccendeva senza
posa tra le labbra del narratore. La mano, con lentezza, faceva splendere il
verde dell'anello. Sul viso giocava la mimica più divertente, la voce
continuava inesauribilmente, un poco trascinandosi, sempre uguale.
Wilde era persuasivo e sorprendente. Eccelleva nel
certificare l'inverosimile. Il dato più dubbio assumeva, nel suo dire, una
veracità momentaneamente indiscutibile. Da una favola traeva una scena precisa
e reale, da un fatto cavava una favola. Ascoltava la Sheherazade
interiore e sembrava fosse il primo a
stupirsi delle proprie invenzioni favolose e singolari. Questo dono particolare
rendeva la chiacchierata di Wilde qualcosa di speciale nella conversazione
contemporanea e che non somigliava
all'ingegnosità precisa e profonda di Stéphane
Mallarmé, per esempio, così delicatamente esplicativa
su fatti e oggetti, quell'immaginaria iridescenza dei pensieri sfaccettati che
dona un fascino unico e raffinato ai discorsi dell'illustre maestro. Niente
nemmeno dell'anedottismo così vario di Alphonse Daudet, nelle sue
coinvolgenti considerazioni su uomini e cose; e neppure somigliava alla
paradossale bellezza oratoria dei discorsi di Paul Adam
o al didatticismo appassionato di Montesquiou.
Wilde raccontava come aveva raccontato Villiers de l'Isle-Adam; ma le le storie del terribile e febbrile narratore dei “Racconti
crudeli”, di un'ironia feroce e meticolosa, lasciavano come un retrogusto
metallico e doloroso. Quando il grande allucinato, dal viso triangolare e dagli
occhi pallidi, passandosi la mano sottile nella folta capigliatura grigia,
evocava qualche farsa del mostruoso Tribulat Bonhomet o, in un bicchiere d'acqua agitato con perizia,
simulava le miscele esplosive dell'Etna in casa propria, si provava un disagio
dovuto ad ammirazione, attesa e angoscia.
Wilde affascinava e divertiva, dando l'impressione
di un uomo felice, a suo agio nella vita. Non aveva forse abbellito la propria
immaginazione con i pensieri umani più scelti e giocato a collegarli secondo
nessi inediti ?
Egli aveva adornato la sua esistenza con qualche
azione originalmente eccentrica ma inoffensiva, come il far servire ad una
cena, quale prima portata, piatti di rose o far confezionare da un buon sarto
un vestito da “povero” per un mendicante la cui vista quotidiana, sull'uscio di
casa, lo disturbava.
Aveva viaggiato e percorso l'America in pantaloni
corti, girasole in mano, e l'Italia come un dandy byroniano. Lo si vide in
Francia rasentare in yacht le coste normanne. Con la barca discese la Loira sul
filo della corrente. A Londra partecipava alla vita elegante creata dalle
grandi fortune e grandi eredità. Lo si ammirava ed egli stesso si compiaceva
d'ammirarsi. Non gli mancavano né il seguito di discepoli né la scorta di reporters. Provò il piacere di essere pubblicato
lussuosamente. Le sue poesie erano vendute in carta pregiata con goffrature
dorate; il suo “Dorian Gray”,
sotto una copertina grigia che pareva cenere di sigaretta; la sua “House of Pomegranatis”, con guardie
d'una carta bella da tagliarci un gilet. I suoi testi teatrali si recitavano
con successo e, in occasione della prima di uno di essi, avanzò sulla scena per
salutare il pubblico, esibendo al risvolto del frac un mazzetto di rari garofani verdi. Infine, da
poeta inglese scrisse un dramma in francese. Era un uomo felice.
Oscar Wilde adesso è in prigione, ha la testa
rasata, porta una divisa di tela grezza e subisce il severo regime d'una dura detenzione. La sua casa è venduta, i libri inviati al
macero, il nome cancellato dai cartelloni teatrali. La sorte gli si è rivoltata
contro nella maniera più inattesa e brutale. Dopo le sofferenze di un lungo
processo in cui ha mostrato a sprazzi senno e convenienza, vive malato e
prigioniero. Non insisterò sui motivi di simile disavventura. Li conosciamo.
Wilde credeva di vivere in Italia al tempo del Rinascimento o in Grecia al
tempo di Socrate. Lo si è punito per questo errore cronologico, e duramente,
dal momento che viveva a Londra dove tale anacronismo è, sembra, frequente.
In ogni caso, si può ignorare come vi vivesse e
ricordare solo d'aver incontrato a Parigi, con quel nome, un cortese ed
eloquente gentleman di cui conserva memoria chiunque apprezzi i bei detti e le
belle storie. (trad. di Jean Montalbano)