le voci che corrono

Colson Whitehead/John Henry

> Colson Whitehead, John Henry Festival, Minimum fax, 2002

E l'uomo vinse la sfida con la macchina

Fortuna che Colson Whitehead è modesto e anche simpatico. “Ogni volta che uno scrittore afro-americano scrive un romanzo non convenzionale, lo paragonano a Ralph Ellison. Comunque per me va bene, lavoro nella tradizione letteraria afro-americana”. Fortuna perché altrimenti l'accoglienza riservata dalla critica americana a questo scrittore nero di trentadue anni che ha l'allegria e la disponibilità di un ventenne spensierato, potrebbe quasi confondere il lettore. Nel 1999 “Time” paragonò il suo primo romanzo, L'intuizionista, stravagante parodia della detective novel ambientata nel mondo degli ispettori di ascensori a New York, al lavoro di Ralph Ellison e di Toni Morrison. E quest'anno sulla copertina del supplemento letterario del “New York Times”, un recensore d'eccezione come Jonathan Franzen è arrivato a definire “spiritoso, acuto e sontuosamente scritto” il suo nuovo libro John Henry Festival. … E in effetti, tanto vale dirlo subito: John Henry Festival è un romanzo complicato, iper ambizioso, ironico e faticoso, un vortice letterario al centro del quale torreggia la figura del leggendario spaccapietre nero John Henry, che intorno al 1870 vinse una sfida contro una trivella a vapore, per poi cadere morto, in senso letterale, dalla fatica. Da allora in poi ballate e libri hanno variamente interpretato la sua metafora dell'uomo inutilmente in lotta contro la macchina.

Colson Whitehead ha raccolto tutto questo materiale e lo ha integrato nella storia attuale di un giovane giornalista scroccone, J. Sutter, anche lui nero, ingaggiato nell'ancor più inutile sfida di battere il record di presenza a eventi pubblici, mentre si reca a scrivere un pezzo sul lancio di un francobollo dedicato a John Henry in una cittadina della West Virginia. …

Livia Manera

Il Corriere della sera”, 13 settembre 2002

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 Whitehead. Il proliferatore afro-americano

Di Colson Whitehead, afroamericano, classe 1969, era stato pubblicato due anni or sono il romanzo d'esordio, L'intuizionista (Mondadori) storia di ascensori e di verticalità, di tecnologia e tensioni razziali, ambientata in una metropoli insieme futura e ottocentesca e scandita sui ritmi del thriller fantascientifico. Ora, esce in libreria la seconda opera di Whitehead, John Henry Festival (minimum fax, pp. 535), più ambiziosa e complessa: un romanzo storico costruito intorno alla figura e al mito di John Henry, lavoratore nero nell'epoca d'oro delle ferrovie, inarrestabile spaccapietre capace di vincere una vera e propria sfida contro una trivella a vapore, anche se il trionfo e lo sforzo immane prodotto finiscono per costargli la vita. Utilizzando come momento centrale della vicenda un festival che le due cittadine del West Virginia teatro della celebre sfida dedicano a John Henry nel 1996, Whitehead costruisce un complesso incastro di storie e piani temporali che ricostruiscono al tempo stesso le varie tappe attraverso le quali la leggenda dello spaccapietre si è consolidata e alcune delle evoluzioni fondamentali della cultura e della musica pop a partire dalle sue radici afroamericane. Accanto alle tragicomiche avventure del giornalista nero J. Sutter e dei suoi colleghi “sbafisti” … scorre davanti al lettore tutta una serie di personaggi e di paesaggi che lo trasportano di volta in volta nelle gallerie ferroviarie di John Henry e nella Chicago della grande emigrazione nera e del primo blues urbano, tra le Pantere Nere e in mezzo ai Figli dei Fiori …

Luca Briasco

Alias – Il manifesto” - 7 settembre 2002

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Il nero di Whitehead più forte di una trivella 

Grande festa popolare a Talcott, in West Virginia, nel cuore del Sud degli Stati Uniti; la data, luglio 1996, la sigla, John Henry Festival, la stessa del titolo del romanzo di Colson Whitehead, il secondo del già affermato scrittore afroamericano.

Durante il Festival ne capitano di tutti i colori, compresa una sparatoria e una tragica strage, mentre alla fine un gruppo terrorista fa esplodere un aereo, e il protagonista scampa per un caso fortunato alla morte. Fortunatamente non devo raccontarvi la storia di queste oltre cinquecento pagine, perché sarebbe davvero impossibile. Il romanzo di Whitehead è costruito grazie a un montaggio di componenti disparate, a una galleria di personaggi, a una catena di eventi. La parola chiave per descriverlo mi sembra digressione, nel senso che sarebbe piaciuto ai formalisti russi, sulla scia dei complessi edifici narrativi di Pynchon o di DeLillo. Vi si alternano il grottesco, il parodistico, l’ironico, il tragico – appunto – ridotto a evidenza quotidiana e persino banalizzato, nel segno di un grande baraccone che può diventare la cultura popolare americana, grazie a un’inesauribile invenzione linguistica. Vi basti pensare che un complesso tra rock e hip hop si chiama “L’esercitazione antincendio e le maniere ordinate”, e la canzone eseguita “Superstar post-strutturalista in preda a timore revenziale”. Whitehead, nato nel ’69 e laureato ad Harvard, appartiene alla generazione degli scrittori africano-americani in possesso di un raffinato bagaglio culturale che si sono lasciati alle spalle la fase della protesta, al punto da ironizzare persino sulle Pantere Nere. Cita Joyce, chiaramente uno dei suoi modelli, e sciorina una poesiola su Roland Barthes: “Roland Barthes l’ha investito un camion / È un significante che non puoi ignorare / La vita è un testo aperto / Da quando nasci a quando muori”. Pure non ha perso nulla della sua negritudine, della propensione schiettamente controculturale. John Henry finisce celebrato in un museo, effigiato sui francobolli o riprodotto nei negozi di anticaglie, ma la sua figura di guerriero alternativo si impone sempre, magari con uno sberleffo.

Claudio Gorlier

TtL-La stampa”, 17 novembre 2002