Eric Stark

Wat vuota il sacco

Alexander Wat  IL MIO SECOLO.  Sellerio, 2013

“Io sostengo sempre in modo assoluto che l'unica perfetta e pura realizzazione del marxismo e del comunismo sia stato lo stalinismo, e in particolare lo stalinismo degli anni dal 1937 al 1941 col suo magnifico terrore”; ed ancora: ”Non in Russia, ma nella Polonia Popolare e in paesi come la Francia e l'Italia, c'è una sorta di corrente di dandismo -direi quasi baudelairiano- congiunto con un portamento ascetico e con la provocazione come scelta: io scelgo Satana, perché è bello e provoca e irrita i filistei; è inflessibile, crudele e fa paura ai profani”. Le due citazioni, distillate dall'esperienza dolorosa dello scrittore polacco Wat (1900-1967) estratte e messe in forma dalla sbobinatura delle lunghe conversazioni con l'amico C. Milosz (prima in California e poi a Parigi) nel momento in cui appaiono volte in italiano hanno perso parecchio in qualità rivelativa o urticante. L'ovvio confronto con il capolavoro del connazionale Herling, senza dover tirare in ballo le relazioni dal gulag russo-sovietiche, è per molti aspetti improponibile e d'altra parte Wat non conobbe, tecnicamente, i campi di Stalin, ma ne percorse per così dire le stazioni periferiche in quanto mai giudicato e formalmente condannato. Il suo mondo a parte, sfocato ed intuito, se perde in geometrico rigore guadagna, per la viva e digressiva voce di Wat, in pullulare di umanità sbandata, raffigurando, lontano da un centro organizzatore, province  formicolanti di fantasmi anche quando questi si chiamino Šklovskij o Zoščenko, opprimenti e soffocanti anche nei mesi sottratti al contrappunto burocratico delle celle staliniste (Leopoli, Kiev o Mosca ed infine Alma Ata).

Al tempo di questa rievocazione, gli anni sessanta della sofferta maturità, l'incomprensione con il sistema letterario polacco dei giovani critici marxisti e l'esilio di Wat erano conclamati ed alle sue spalle stava pure il soggiorno a Genova Nervi, quando aveva collaborato con l'editore genovese Silva,  occupandosi particolarmente della collana di slavistica. (Nel libro c'è una foto del notevole terzetto Wat, Milosz e Herling in Riviera).

Personalmente abbiamo apprezzato, si sarà intuito, il ricordo degli anni polacchi più che la rievocazione dell'esperienza carceraria (dal 1939) culminata nelle deportazioni e nel genocidio di intere popolazioni, sotto la pressione dell'avanzata nazista e della geopolitica staliniana.  Il tomo è massiccio nonostante, per anticipata morte dell'autore, si soffermi soprattutto sullo sgradevole soggiorno in terra di soviet e pur dopo l'editing dello stesso Milosz  e i tagli aggiuntivi del traduttore: molte le ripetizioni nell'andirivieni dell'affabulazione, ma valga come giustificazione che occasione scatenante fu non solo l'intento di fornire un meditato punto prospettico sui destini polacchi nel novecento. Origine conclamata furono il trauma di un espatriato e il tentativo quasi impossibile di alleviare il senso di spaesamento e distacco di Wat all'epoca di un soggiorno americano che avrebbe dovuto sancirne la fedeltà ai valori occidentali. Queste memorie, più che rapporto dall'interno del comunismo polacco, importano i due dialoganti come terapia, votata ahimé allo smacco, e dunque il lettore comune rischia di perdersi, se non di annoiarsi, tra le minuzie ripetitive delle spesso strazianti disavventure dell'autore di Lucifero disoccupato.

Simile a tanti, Wat, ebreo per nulla osservante, si lasciò abbracciare, dopo i giovanili esordi di un velleitario marinettismo (durante i quali attrasse l'attenzione del Majakovskj in tournée)  e l'influenza  del geniale Witkiewicz, imitato ed ineguagliato compagno di bevute, da un comunismo poi abbandonato come si lascia indietro un punto alto generoso e disinteressato. Solo dopo l'incarcerazione (in quanto polacco e tiepido comunista) e gli anni di sfollato esilio, di volta in volta alleato o traditore secondo la paranoia staliniana, gli venne chiaro come a spingerlo verso il comunismo fosse stata  non tanto l'adesione ad una fede, quanto l'impossibilità di vivere fino alle estreme conseguenze uno scetticismo assoluto. Per il Wat sessantenne in dialogo con Milosz, a fronte  di un ideale comunista creatore di una setta di fratellanza, di una “delinquenza settaria”, stava un semplice incontrovertibile fatto: del primo gruppo letterario di otto persone di cui fece parte, formatosi sul finire degli anni venti intorno al Mensile letterario, cinque morirono in Russia; al momento di questi ricordi, lui, unico sopravvissuto, bollato come rinnegato dai compatrioti più o meno sovietizzati; non solo, convertito segretamente ad un cristianesimo dubbioso che comunque lo tenne lontano dalle espressioni della fede popolare,  nella ritrovata patria prima, in Italia poi, dove ebbe un traumatico e deludente incontro con l'iroso Padre Pio.

Traendo le somme da quelle esperienze, la sua  giovanile adesione ad un generico comunismo viene ripensata, in queste pagine, a partire da un socialismo persistente e diffuso anche in ambiente ebraico, mentre  il progetto comunista risulta equivocato, dagli intellettuali del suo tempo, come sbocco salutare e salvifico di un iniziale nichilismo e teppismo intellettuale che tutto metteva in discussione. In tal senso l'umanista Wat assimila nel ricordo la sua fascinazione per il comunismo alle traiettorie tipiche di un Brecht o Aragon, ma con l'imprigionamento in più a segnarne il risveglio, il limite della caduta, toccato il quale, l'uomo può rialzarsi sulle proprie gambe, uscendo dall'equivoco. Fogli di Via”, marzo-luglio 2014