Eric Stark

 linvenzione di Waszynski

         Quando in un giorno di febbraio del 1965 Michal Waczynski, stroncato da un colpo, piega la testa nel piatto al Jockey Club di Madrid, il castello di truffe e raggiri che ne ha retto la vita principesca è sul punto di crollare. Il numero due delle produzioni cinematografiche Bronston si è servito del rapporto fiduciario con il capo per far la cresta su ogni spesa attinente l’allestimento dei colossal acquistando per sé arredi ed dimore degni del suo inventato blasone. L’ostinazione nel raggiungere e mantenere uno status lontano dall’originario sarà stata pari a quella nell’impostura. Nuove luci su questo “minore” dell’industria filmica le dobbiamo al Samuel Blumenfeld che ne ha scritto nel recente L’homme qui voulait être prince (Grasset, 2006).

          Ebreo con ascendenze hassidiche nato in Volinia (oggi parte dell’Ucraina) nel 1904, Michal Waks (cognome poi sacrificato ad un più sonante Waszynski) aveva abbandonato gli studi religiosi per il mondo di celluloide di Varsavia, dove per tappe successive era diventato prolifico e superficiale regista di successo non senza dolcemente occultare le proprie origini. Al 1937 però risale lo strano caso di Dibbuk in cui registra il declino del mondo yiddish, denunciando l’impossibilità di progettare un avvenire in quella Polonia cattolica, fino ad indicare lo spossessamento corporeo come estrema risorsa per sopravvivere. Al mediocre W. è dato d’intuire in forma d’arte quello che pochi mesi dopo verrà pianificato; Goebbels “apprezzerà” in quel film di grande successo (per cui il regista trova oggi posto nelle storie del cinema) la spudorata ed inconsapevole esposizione di tutto quanto è esecrabile nella yiddishkeit e, per esteso, nel giudaismo.

           Deportato al momento dell’invasione sovietica della Polonia, intenzionato a superare gaiamente il trito odio di sé e la vittimizzazione in cui la maggioranza si installa, W. comincia a spacciarsi per nobile, una volta costatata la scarsa spendibilità delle due nazionalità di provenienza, la polacca e l’ebraica. Nel 1941, liberato, s’integra nell’esercito polacco nato in territorio sovietico (e tollerato da uno Stalin che a Katin lo aveva decapitato). Nel suo dossier già barra, alla voce religione, la casella “cattolico romano” quando è assegnato all’unità “spettacolo” che si occupa del morale delle truppe: exit Waks, incipit Waszynski. Seguendone gli spostamenti dei connazionali sempre più a sud verso il medio oriente, fino alla Palestina (!), W. ha tempo di produrre un film in forma di diario, I bambini (1943), per poi documentare, quando l’armata di Anders è trasferita in Italia, la battaglia di Montecassino. Alla fine delle ostilità, comincia a girare il primo dei tre film italiani, La grande strada (1946), insieme l’ultima sua produzione polacca, in cui V. Cottafavi è accreditato come co-regista.

            Ha modo di farsi apprezzare e sposare (la sua omosessualità non obstat) da un’anziana ricca contessa che subito muore lasciandogli le sostanze che potranno dare più corpo al progetto principesco: subito acquista una cadillac con cui si sposta nella nostra penisola, installandosi in una dimora patrizia con annesso ascaro in qualità di portiere. Lo sconosciuto di San Marino (con la Magnani e de Sica) è il suo titolo più “prestigioso” nella cinematografia nostrana, co-diretto anch’esso da Cottafavi e scritto da Zavattini (“un lavoro alimentare”) in cui ritornano motivi cari a W.: lo sdoppiamento, l’amnesia, la perdita di sé. Ma il capolavoro è l’invenzione di sé, di un albero genealogico su misura per il suo inserimento nel jet set romano. Frequentando la contessa Di Frasso, già intima di Bugsy Siegel, Goering e Goebbels ed ora riferimento per le puntate italiane delle stelle hollywoodiane, il nobile polacco W. diventa referente per la nascente “Hollywood

teverina”. Già prima vantava sue collaborazioni inverificabili con Murnau, adesso s’investe di una genealogia aristocratica molto più necessaria e salvifica delle particelle “von” di cui si fregiavano i (comunque) dotati Stroheim o Sternberg. Welles, transfuga dagli Usa dopo il controverso Signora di Shanghai, lo conosce allorché, terminate le riprese del Macbeth, lavora al Cagliostro di Ratoff. I due spostati si annusano e si piacciono, perlomeno il futuro autore di Mr. Arkadin ha intuito quel che il polacco cela nelle quinte di un passato sontuoso e reticente. Gli espatriati collaborano alla travolgente lavorazione dell’Otello (più che veneziano) “marocchino”, quello delle armature ricavate da scatole di sardine. I giochi speculari dei due si esaltano negli incantesimi del cinema.

            Ma già nel 1950, chiamato da M. Le Roy, W. inizia ad organizzare la produzione di Quo vadis prima, dedicandosi subito dopo a Vacanze romane, senza dimenticare l’assistenza ed il conforto di E. Flynn durante le riprese del Don Giovanni (1953): presentandolo a re Faruk, W. può ben dirsi entrato nella dolce vita romana. L’intoppo del seguente film di Flynn, il Guglielmo Tell diretto da J. Cardiff, girato, finché ci sono soldi, nella location italiana (Courmayeur) più svizzera secondo gli americani, è brillantemente risolto ingaggiandone la troupe per La contessa scalza, il nuovo lavoro di un J.L. Mankiewicz appena giunto a Roma, e per il quale le entrature di W. nell’aristocrazia romana torneranno utili. E’ l’inizio della collaborazione di Mankiewicz e W. nella Figaro Inc. strettamente collegata alla United Artists. L’ormai dimenticato regista di Dibbuk sarà produttore associato pure di Un americano tranquillo, prima di spostare le operazioni nella Spagna delle seguenti superproduzioni: nella Spagna franchista si danno appuntamento i megalomani che Hollywood non accontenta, gli Arkadin che fantasticano rivincite imperiali come il Bronston che, foraggiato dal miliardario P. Du Pont III, allestisce le costose produzioni del Cid e de La caduta dell’Impero Romano. Insieme a Bronston, W. progetterà la rivincita del giudeo in terra falangista e cattolicissima. Bronston, nato Bronstein, proviene dall’America ma è originario della Bessarabia: suo zio, prima di saggiare la punta di una piccozza messicana, si è illustrato, come Lev Trockji, nell’Armata bolscevica. Il nipote ha intuito le possibilità commerciali dei romanzi di Jack London ottenendone dalla vedova i diritti di sfruttamento cinematografico; un primo adattamento cui ha messo mano, Martin Eden, aveva come protagonista Glenn Ford, ma dopo alterne vicende, tra cui un Conte di Montecristo filippino, è ritornato in Europa. Insieme Bronston e W. con i soldi di Du Pont e giocando la parte ora del fervente cattolico, ora dell’ebreo perseguitato, insceneranno le truffe che Welles ha solo sognato.

          Una prima sceneggiatura di John Farrow intitolata The Sword and the Cross (scopiazzatura dei Vangeli “zeppa”, a dire del produttore, di incomprensibili “thee” e “thou”) diverrà, dopo vari trattamenti, nelle mani di N. Ray, Il Re dei Re. Philip Yordan completa un terzetto che viaggerà di conserva per i successivi colossal: accreditato sceneggiatore hollywoodiano, Yordan è noto come firmatario di lavori scritti da blacklisted ai tempi di Mc Carthy (di lui Ben Maddow, “vero” autore di Johnny Guitar, impietosamente dirà: “Yordan non ha mai scritto una riga in vita sua”). L’argomento dà modo a W. di rispolverare le vantate amicizie romane e, segnatamente, vaticane da cui riceve incoraggianti segnali di approvazione che rimbalzano in terra iberica.

           Mettendo in produzione Il Cid (1961, diretto da A. Mann in cerca di rivincita dopo lo smacco di Spartacus strappatogli da Kubrick) i nostri sanno di omaggiare il generalissimo Franco che a sua volta li ospita all’interno di quell’operazione simpatia promossa dal regime per uscire dall’isolamento. A completare la ronda degli equivoci, la sceneggiatura viene affidata ad un altro “reietto” in lista nera, Ben Barzmann, comunista e antifranchista della prima ora. Ora W. può girare in una Rolls con le insegne della monarchia polacca, regnando nelle notti della movida madrilena affollata di parvenus franchisti in cerca di visibilità. Le triangolazioni finanziarie al centro di un programma “oil for movies” garantiscono la più allegra gestione dei budget stanziati: per la produzione di 55 giorni a Pechino di N. Ray, accortisi che in Spagna i cinesi a disposizione per far massa erano meno di duecento, vennero svuotati i ristoranti orientali di mezza Europa. Il delirio dispiegato copre le spese gonfiate, l’eccesso di paccottiglia gioca la pesantezza del reale. I sani principi d’economia sono demonizzati sull’altare del lavoro a fondo perduto. Welles è ormai lontanissimo: come a sfottere le antiche ristrettezze, W. ama scialacquare per esorcizzare temute povertà, tanto meglio se i costumi sono confezionati nelle più costose sartorie romane e spediti a Madrid; maggiore il costo, più alto il ricarico per lui. Come un Visconti dell’ultima ora, W. fa dipingere le sedie di oro fino a 24 carati per un sovrappiù di “verosimiglianza”. Insegue l’autentico sullo schermo, lo stile nel décor. Nella sarabanda tutti sono coinvolti: il crollo dell’alcolizzato Ray, sostituito da A. Marton, specialista in sequenze di battaglie ed inseguimenti, si accompagna alla fine prematura, previa opportuna modifica della sceneggiatura, del personaggio (ancora una contessa) interpretato da un’Ava Gardner difficile da gestire non solo per via della bottiglia.

           L’inarrestabile macchina divora soldi delle Produzioni Bronston attrarrà nel suo luccicante walzer i registi che in quegli anni faticano a lavorare ad Hollywood: oltre a Ray e Mann, bussano, tra i tanti, alle sue porte Capra, Ford, Hathaway e Fleischer. La caduta dell’Impero Romano del 1963, ancora diretto da Mann, sigla nei suoi temi le ossessioni dei film precedenti: la fine, il tradimento, il tramonto. La fiducia tradita, l’insostenibilità di una nuova origine braccano l’esistenza di W. che continua fino all’ultimo a sottrarre fondi dalle produzioni gonfiando spese superflue sicché anche per lui può valere quanto il regista Mann (nato Anton Bundesmann ed esperto di cose ebraiche) dirà del proprio film: “Ho voluto mostrare la follia del mondo, il declino e la morte dello spirito”.

Non ironicamente, l’ultima sua produzione sarà intitolata Il circo e la sua grande avventura (Circuì world, con Wayne, la Hayworth e la Cardinale, diretto da Hathaway).