Wolf Bruno
l’arte cruda 4
C’era una volta l’uomo della
strada, quantomeno tutti sembravano accorgersi della sua esistenza. La bella metafora
è ancora comprensibile ma meno condivisa. A suo tempo i suoi stessi attori
sentivano in qualche modo ma sempre in larga misura di appartenervi. Non
mancava tuttavia la condotta bolsa e prepotente di una minoranza che si sentiva
offesa nell’esservi associata e questo non perché mettesse in atto una forma di
resistenza all’omologazione vera e propria – che nella metafora era
semplicemente strumentale a un discorso sull’ordinaria umanità – ma per la
ragione del tutto conformista suggerita dalla patologica autostima indotta da
una posizione più o meno faticosamente raggiunta.
L’uomo della strada era il parametro al quale si dovevano adattare
coloro che per ragioni commerciali o politiche avevano bisogno di numeri, voti
e scontrini. Di fondo ingenuo ma
consapevole dell’altrui astuzia, era la preda preferita di quella pubblica
opinione della quale avrebbe dovuto rappressentare il volto neutrale, democratico e popolare.
Benché facesse parte della folla, non riusciva a inserirsi nella minacciosa
quanto supposta compattezza di questa. Diverso dall’ “uomo medio”, che per la
sua stessa medietà andava a collocarsi nell’ambito di una decorosa condotta di
vita e di conoscenze, si confondeva col banale senza che l’effettiva condizione
sociale potesse elevarlo. Sospingervelo
era necessario per permettere ad alcuni ragionamenti di stabilire le basi
minime dell’intelligibilità diffusa.
Sociologi americani come David Riesman osservando il ceto medio e
richiamandosi suggestivamente a un’idea di atomizzzione e solitudine (La folla solitaria, dove isolati sono i
suoi componenti) tendevano a fondere “uomo della strada, “uomo medio” e “folla”
in un’angoscia metropolitana e suburbana che sapeva di un Kafka con la
lavatrice - fino ad armonizzarsi sul ciglio dei dissesti umani sia con
l’esplorazione della burocrazia (William Whyte) sia col biasimo alla cultura di massa (McDonald, Teoria
Critica). Da notare è che quando si compilavano queste analisi gli Stati Uniti
d’America erano impegnati a fornire la migliore immagine di se stessi
attraverso cucine perfettamente igienizzate, elettrodomestici da favola,
automobili a coda, clamorose visite degli extraterrestri, torte a più strati,
casalinghe soddisfatte, mariti sorridenti e fanciulli alle prese con attrezzi
sportivi, biciclette dal disegno avveniristico e berrettino con l’elica.
L’inferno, cioè, era l’altro nome del benessere.
Nei tempi antichi si raccontava di una volta che Platone incontrando
Aristippo di ritorno dal mercato con le borse piene gli rimproverasse la
vocazione allo spreco. L’altro rispose
che le offerte erano vantaggiose e non c’era ragione di rifiutarle. A quel
punto Platone osservò che a quelle condizioni conveniva anche a lui fare lo
stesso. “Dunque la tua è solo avarizia” sentenziò Aristippo. Alla posizione dell’austero
moralizzatore, in realtà non così fermo nelle sue condanne, e a quella
dell’edonista che arraffa senza metodo tutto ciò che sembra promettergli
piacere, se ne aggiunse una terza, quella di Epicuro, secondo la quale non
tutti i piaceri che pensiamo di avere a disposizione sono veri piaceri. Quando
già con Riesman si affacciò dopo il 1945 il discorso sul “consumismo” – una
parola alla quale era inscritto il carattere della società, come da lì a poco
avvenne per “spettacolo”- la sintesi migliore in sede di critica sociale poteva
essere quella di Epicuro. Un discorso sui falsi piaceri era conforme alla
critica del consumo eterodiretto, come lo definivano i critici. Per giunta,
senza negare vigore all’atteggiamento edonista, accennava allo spreco come
problema.
Questa sintesi, risolta tuttavia in gradazioni tese perlopiù a
indebolire l'aspetto dell'edonismo attraverso la chiamata a una
"vera" giustizia, la si reperisce anche in quei movimenti che a
ragione o a torto è d'uso chiamare “populisti”. Per tanti versi inclini a
strumentalizzare, per fini non di rado autoritari, gli argomenti della critica
sociale nell'ambito del nazionalismo, hanno sposato nelle loro più recenti
incarnazioni la critica del disastro ecologico sfruttando il diffuso e sacrosanto
disagio per gli sprechi e l'accumulo di spazzatura nel mondo abitato e no.
L'appello più stringente rimane in ogni caso quello all'uomo della strada che
ricollocato al centro della scena tenta di riacquisire, assimilato in questo
caso alla folla e all'uomo medio coi quali forma il popolo, la perduta
attualità in una chiave di onesta ma
eccitata grettezza. Chi ne rimane fuori è il nemico del popolo. Non potendosi
tuttavia meglio definire cosa sia “popolo” il suo nemico prende le sembianze
dell’arraffatutto, del disonesto, del corrotto
– solitamente l’uomo politico - contro il quale non c’è mai un’azione
adeguata di giustizia penale.
George Orwell ebbe a scrivere che la politica è quella sede di
menzogne, stupidaggini e odio - fino
all'omicidio - che usa il linguaggio specialistico "per dare una parvenza
di solidità all'aria fritta".
Guglielmo Giannini, il commediografo che nell’Italia uscita dalla guerra
fondò “L’Uomo qualunque”,
circoscriveva la politica democratica a un migliaio di marpioni interessati
soltanto ad affrontarsi per un posto in parlamento. Come partito/movimento di
matrice “populista” quello dell’Uomo
qualunque scelse una denominazione quanto mai indovinata, significativa,
intensa e immediatamente comprensibile. Da questo appellativo derivò
l’aggettivo “qualunquista” – presto radicato nella lingua italiana – usato
dagli avversari per indicare tipi umani restii a prendere posizione,
lamentazioni senza costrutto, generiche accuse alla classe politica, sfiducia
nelle compagini tradizionali, richiami al mai precisato buon senso, osanna alla
vita familiare e lavorativa, appelli all’onestà. Giannini, che ebbe trascorsi
antifascisti, dopo il rapidissimo successo e l’altrettanto rapida china, fece
l’occhiolino agli ex fascisti, cercò l’alleanza con diversi partiti, compresi i
comunisti, e infine chiuse la partita da sconfitto. Per quanto si rifacesse a
sentimenti diffusi ma solo occasionalmente organizzati per competere nelle gare
della politica, ciò nondimeno ricorrenti persino all’interno degli stessi
partiti maggiori e idealmente strutturati, il “qualunquismo”, nel clima gravido
di speranze della ricostruzione postbellica, influenzò, checché se ne dica,
l’ordinaria vena di scetticismo nei
confronti della politica attraverso un’ironia che mi pare appropriato definire
“volterriana”.
Se ce ne fosse bisogno, la vicenda dell'Uomo Qualunque dimostra la coincidenza del populismo col
giornalismo d'asssalto, le vignette satiriche e le barzellette che degradano a
grottesca maialata, senza far troppa distinzione fra George Grosz e Attalo,
l'ingente retorica della casta dirigente. Da questo punto di vista il legame
con la critica sociale si fa evidente e, dal momento che a un certo punto la
critica sociale fece tutt'uno col socialismo, si capisce anche perché alle
origini i populismi cercassero un legame con quest'ultimo senza mai reciderlo
del tutto anche in seguito, tanto che Peron poteva citare allo stesso titolo in
uno stesso discorso Hitler e Lenin. I populisti russi, dai quali deriva il
termine "populismo", si raffiguravano come dei volenterosi che si
calavano nel popolo non solo per insegnare, ma per imparare. Quelli americani a
loro volta si sentivano come la più pura espressione del mondo pionieristico e
rurale dell'Ovest (e da lì a poco anche del meridione). La ricerca di un
collegamento col dinamismo dei socialisti alla fine del XIX secolo si poteva
esprimere nei singoli in una doppia attrattiva e nelle compagini come un
dialogo fra alleati, oltre che in scampoli di ispirazione sul terreno
ideologico.
Una manifestazione ulteriore del populismo fu quella offerta dalla
Francia col movimento del generale Boulanger e l’orgoglioso e devoto
nazionalismo di intellettuali come Barrés il cui “culte du moi” si evolveva,
annullandosi, dall’io individuale a quello “nazionale”. Anche in questo caso si
cercò un rapporto col socialismo che assunse tuttavia un carattere
schiettamente gerarchico e funzionalista (tutti indispensabili e da venerare,
ma ognuno al suo posto). Fu in quel contesto che nacque la locuzione “nazionalsocialismo”
che più tardi ebbe fortuna in Germania. Dal socialismo, andandosi a sommare
all’antisemitismo di estrazione positivistica a sfondo biologico-razziale, per
altro non del tutto estraneo alla stampa socialista, proveniva anche un filone anticapitalista il cui prototipo fu
offerto dal fourierista Toussenel in un libro del 1845 – che addossava agli
ebrei e ai loro complotti finanziari la causa delle ingiustizie. A tutto questo
si possono aggiungere i comitati e i giornali fondati da David Urquhart a metà
del XIX secolo che coinvolsero anche Karl Marx, benché se ne parli poco.
Urquhart era un eccentrico aristocratico scozzese appassionato all’Oriente e,
fondamentalmente, un “turcofilo” che
introdusse il bagno turco in Inghilterra. In Turchia ebbe degli incarichi
diplomatici dai quali venne tuttavia rimosso. La sua idea di un complotto
russo-inglese – con la conseguenza della guerra in Crimea - fu condivisa da
Marx. Si diceva vicino ai lavoratori ma i cartisti lo accusavano di essere un
conservatore mascherato e a sua volta un complottista a loro danno.
Rispetto alle antiche attese, sublimate nel tempo in cangianti sfumature di aggressività, ciò che oggi viene
chiamato “populismo” si è distinto incrementando la presunta distanza da un
contesto politico saturo di viscidi denari entro il quale non può trovare
alleanze e nemmeno vaghe e approssimative comunanze ideali, ponendosi dunque
come assolutamente nuovo e unico rimedio alla dissoluzione sociale in atto
sulla quale, per altro, grava anche la minaccia dello straniero, specialmente
il mussulmano.
Capitò, a un certo momento, nei primi tempi del nuovo millennio, che il
nemico pubblico n.1, mussulmano, si presentasse armato di fucile mitragliatore
in alcuni messaggi filmati di funebre propaganda. Nella scena si coglieva
tuttavia, forse anche in misura maggiore dei minacciosi proclami, l'estrema
eleganza del suo protagonista, la delicatezza delle mani, la finezza dei
movimenti. Tutti gli elementi dei filmati concorrevano a testimoniare
un'inquietante ma virtuosa determinazione nell'affermare i valori di
riferimento che sembrava andata perduta fra i "crociati" europei e
americani, i quali oltretutto nella difesa dei propri procedevano con qualcosa
che troppe volte somigliava più a una passeggera finzione - corroborata da
banali notazioni storiche, religiose ed etnografiche - che a sentimenti
profondi. L'ostentata maleducazione dei crociati populisti conferiva per giunta
alle loro rivendicazioni un sapore approssimativamente nichilistico che mal si
addiceva - pur risultando persuasivo - alla difesa della virtù. Anni dopo
accadde che a compiere un atroce attacco terroristico che decimò la redazione
di un giornale umoristico fossero giovani che provenivano non già dai deserti
beduini bensì dalle periferie francesi. Non è raro constatare l’avvenuta
educazione occidentale per tiranni e malsani protagonisti delle vicende
relative al mondo che ancora poco fa era definito “terzo”. Ciò vale anche per
quello mussulmano. Il nemico pubblico di cui si è detto aveva strette relazioni
coi paesi atlantici e perfino Sayyid
Qubt, il sofisticato ideologo dei “Fratelli mussulmani”, aveva
studiato nelle Università americane. Che dei giovani terroristi mussulmani
fossero cresciuti nelle cinture esterne delle città europee destava tuttavia
ulteriore preoccupazione, sia per l’infinito discorso intorno alle realtà
alienanti imputabili a urbanisti e architetti sia perché i contrasti delle
priferie, soprattutto quelli etnici, costituivano l’argomento nuovo e decisivo
delle nuove ed esuberanti formazioni pubbliche. La confusione stilistica e
politica era al massimo ma gli argomenti tuttavia non mancavano: “Prima noi che
siamo a casa nostra!” veniva detto nella maniera scomposta che costituisce il
contegno espressivo privilegiato per annunciare indignazione e voglia di agire
non più del “popolo” quanto piuttosto di ogni singola categoria di
imprenditori, lavoratori e professionisti debitamente plebeizzata. La baraonda
di accuse, aggressività, sguaiatezze e atteggiamenti che si pensavano tipici
della rissosa plebe che così si voleva rappresentare erano a loro volta pensati
come via d'accesso alla malleabilità delle anime. Anime che, per parte loro,
avevano da esprimere lagnanze fin troppo serie - non poche volte segnate dalla
sciagura - per dover pensare a una caduta di stile, dalla quale d’altronde era
facile distoglierle con appelli al rigore morale per cui il “prima noi”, se non
voleva riscuotere un’evidenza soltanto sentimentale, abbisognava di modellare
il paese sul sistematico rispetto delle code. altrimenti funeste all’uomo della
strada. Si affacciava a questo punto l’epoca del Superuomo qualunque.
“Fogli di Via”, marzo-luglio
2015