Wolf Bruno

L’arte cruda  ovvero l’estetica di per sé  1-3

1 - Nel secolo scorso si diffuse l’idea che si dovesse definire “arte” tutto ciò che era presentato come tale. Ne fecero fede, a cominciare dalle convinzioni degli stessi artisti, un reticolo di complicità economiche, istituzionali e culturali. Contemporaneamente,  recidendo ogni legame con le specifiche tecniche del buon artigianato fin lì necessarie, si sprigionava l’esortazione a far sì che ognuno producesse i propri manufatti estetici, o anche soltanto le proprie intuizioni, affinché l’arte si insinuasse nella vita comune arricchendola di nuovi valori. Quanto ciò lo si dovesse ai turbamenti del romanticismo o alle successive estenuazioni del “movimento estetico” di fine Ottocento non è chiaro, così che il più delle volte si tendeva a prenderne qualche distanza, per quanto con un riguardo che non velando del tutto la possibile linea di continuità si infiammava nel crogiuolo delle complicate vicende politiche del secolo.

Malgrado tante prese di posizione radicali, gli artisti erano coccolati dai ceti dominanti e ne cercavano l’intimità, oltre al denaro. L’arte entrò a far parte dell’establishment rendendogli proficui servigi soprattutto come forma di controllo dei suoi elementi meno docili e dei ceti medi più ambiziosi, oltre a svolgere un compito di rassicurazione - in genere nella lusinghiera forma di uno schieramento condiviso - fra quelli popolari. Una partecipazione così sfacciata alla sfera del potere non ne intaccò minimamente il prestigio - acquisito nel del tutto ipotetico rifiuto - che anzi si consolidò proprio attraverso quelle che vennero chiamate “neo-avanguardie” il cui obiettivo dichiarato era di far pulizia nell’industria culturale conquistandone i vertici. Salvo rari casi gli stessi estetologi si adattarono a questo stato di cose optando, nella migliore delle ipotesi, per ricerche in campi poco studiati della cultura di massa finendo in anni più recenti - nella cosiddetta "filosofia pop" - col tramutare gli oggetti di studio in fonti di saggezza.

L'attraversamento estetico e culturale del XX secolo, con la sua diffusione capillare dei sistemi ideologici, trovò nell'identificazione delle folle (Sighele e Le Bon già a fine Ottocento, più tardi Ortega) nonché della pubblica opinione (Lippmann) un quadro concettuale ove ricondurre i grattacapi relativi all'inedita affluenza nelle più diverse sfere delle decisioni politiche , sia nella forma brutale di una folla che richiamava una guida, sia in quella del coinvolgimento deliberativo in questioni delle quali solo una minoranza sembrava avere piena consapevolezza. La copiosa produzione di testi sulle masse e la cultura di massa produsse qualche divisione fra avversari e sostenitori – tali però con svariate riserve e molti distinguo - ma l'ecumenismo degli intellettuali tentò con ostinazione di salvare capra e cavoli riproponendo in concreto la “centralità” degli stessi pur nel contesto tutto teorico dell'”intellettuale di massa”.

Non mancarono tematiche come “l''estetizzazione” della politica ma limitando sostanzialmente il loro raggio all'analisi dei fenomeni passati alla storia come “totalitarismi” escludendo di fatto la vita ordinaria, fosse essa configurata in relazione a democrazie, dittature o teocrazie. Grande fortuna ottenne invece, soprattutto dopo la morte del suo teorizzatore Guy Debord, la nozione di “spettacolarità” applicata alle vicende sociali. In questo caso – senza tuttavia mantenere alcun vero legame con la formulazione originaria – si assistette a continue attribuzioni che non spiegarono alcunché, risultando essere solamente una costante nella retorica delle gazzette. La risposta dell’arte – e della filosofia dell’arte – fu solo apparentemente generosa (si potrebbe dire “populista”) e non contaminò, se non in modo superficiale, il rango che socialmente aveva ottenuto. In fin dei conti all’epoca de L’Assassinio come una delle belle arti (De Quincey) e de La nobile arte di farsi dei nemici (Whistler), sia pure con ironia e avvelenato sarcasmo, si era fatto molto di più.

Il romanticismo aveva fondato la propria estetica sui sentimenti e le comuni credulità, sebbene sottoposti tante volte a un’estensione fatata ed eroica. Ancora nel 1938 il filosofo inglese Robin Collingwood, ammiratore di Benedetto Croce, ebbe a rimarcare che l’arte consisteva non in tecniche particolari ma nel riferire le emozioni. La psicologo cognitivo (e romanziere) canadese Keith Oatley ha sostenuto più recentemente che l’arte è una facoltà romantica dell’uomo comune. Niente di speciale si dirà, che ognuno possegga la facoltà di fare arte è evidente ed è altrettanto evidente che nel minestrone della vita siano scelte solo alcune esemplari esperienze estetiche per rappresentarle tutte e al meglio. La storia del resto si concentra su alcune figure e figuri, su determinate comunità e varie forme di cittadinanza che vengono raccontate basandosi su documenti che a loro volta sono dei racconti. Non è verosimilmente quella dell’umanità, come avrebbero voluto brillanti personalità alla Van Loon, ma è la storia che leggiamo e ascoltiamo come il possibile avvicinamento  ai suoi problemi, il massimo che riusciamo a fare per ridurre la distanza fra noi e chi ci ha preceduto in questa valle di lacrime e allegre bisbocce.

Ciò che rimaneva poco chiaro era cosa ci si dovesse aspettare dalla “realizzazione” dell’arte (o dal suo “superamento”) che in vario modo avevano auspicato tante personalità in vista. Un’ipotesi – tutto sommato non sgradevole – era che all’intera umanità fossero concessi i privilegi nei quali si arrabattavano gli artisti di fama. Un’altra era che con la sua propagazione nel tessuto sociale l’arte avrebbe reso più bella e gioiosa la vita.  Come se non bastasse si poteva pensare che l’arte avesse il potere  di modificare lo stato della mente (Baudelaire diceva che al cospetto delle opere wagneriane provava gli stessi piaceri procurati dall’oppio).

C’è tuttavia da considerare quel che osservava Walter Lippmann e cioè che nel secolo della “pubblica opinione” la conoscenza dell’individuo si fonda su immagini incontrollabili quanto socialmente diffuse. Se parliamo di “barocco” ci facciamo un’idea abbastanza precisa di un gusto che presumiamo fosse largamente condiviso, quantomeno ammirato. Più difficile è interpretare sotto una specie comune o ampiamente rappresentativa il gusto del secolo scorso (o dell’attuale) se per segnarlo, si continua a dare per scontata l'importanza di opere come les demoiselles d'Avignon o le grand verre senza interrogarsi troppo da dove provenga e come si sia formato il loro prestigio.  Sta di fatto che la vita di ognuno era già satura di scelte estetiche, ancorché il più delle volte su di esse gravasse il sospetto che fossero pilotate, motivo per cui si esigeva un sommovimento (hegeliano, marcusiano o cosa?) che rimuovesse la supremazia di chi era interessato a pilotarle. Lo stesso disvelamento, la voglia di chiarire, assumeva a sua volta l’aspetto di un complotto.

 

2 - Negli anni Trenta del XX secolo il rapporto di artisti e intellettuali con la politica ebbe un'impennata che solo indirettamente si poteva ricondurre al senso di responsabilità sociale implicato dalla consapevolezza della crisi esplosa nel 1929 in quanto incrementata prima di tutto nell'adesione militante alle formazioni che imputavano l'origine di quella crisi a un mondo già degenerato e in via di putrefazione. In tutt'altro che rare combinazioni di buona volontà e accecamento, ma anche di malafede, ciò significò la proliferazione di un vincolo con le dittature europee dell'epoca, specialmente con quella staliniana, ancorché non mancassero casi di identificazione - e alcuni assai importanti - coi regimi chiamati, assimilandoli al più antico, fascisti.

L'arruolamento degli intellettuali alla causa moscovita si espresse certamente in quegli anni attraverso una moltitudine di ingenue quanto bellicose, ma soprattutto disinformate e mal riposte. richieste di giustizia che si evolvevano per mezzo di giornali, appelli, organizzazioni di solidarietà apparentemente ragionevoli ma non sempre esplicite su chi ne esercitava effettivamente il controllo. C'era in atto, si può dire, una strategia cospirativa dell'annebbiamento che, non fosse vera, sembrerebbe oggi il parto di un qualche strampalato teorico del complotto. Agente fondamentale di questa strategia fu colui che nel suo contributo a Il Dio che è Fallito Arthur Koestler definiva come dotato di una magnetica personalità anche se a tutta prima appariva un ometto insignificante. Si chiamava Willi Munzenberg ed era di umili origini. Tedesco di Erfurt, nato nel 1889, nelle sue peregrinazioni approdò in Svizzera e si legò all'emigrazione russa e a Lenin, che poi lo insedierà a capo dell'Internazionale giovanile comunista. Una volta dimesso dalla carica, lavorò a contatto della Lega sindacale internazionale e da lì partì per avviare il "Soccorso rosso", fondare giornali d'ogni tipo fino in Giappone, organizzare congressi, appelli, cortei, comitati, aiuti al cinema e al teatro "proletari". Con finanziamenti che andavano dalle ordinarie sottoscrizioni agli interventi di banchieri e uomini d’affari, con la moglie Babette Thüring, sorella di Margaret Buber-Neumann, avviò per la propaganda una sorta di organismo esoterico, puntellato di uffici in diverse capitali, che aveva collegamenti fino a Hollywood, dove il tramite era nientemeno che la raffinata Dorothy Parker.

Un robusto scossone a queste manovre lo diede Gaetano Salvemini a Parigi nel corso del Congrès international des écrivains pour la défense de la culture che si tenne al Palais de la Mutualité verso la fine di giugno del 1935. Salvemini sollevò il caso di Victor Serge, arrestato in Russia, e paragonò Stalin a Hitler. Dal congresso non emerse l’auspicato unanimismo "solidadaristico" e fu, più che altro, teatro di litigi. L'episodio forse più celebre e citato - che sancì fra l'altro il definitivo distacco dell'ormai stalinista Aragon dal gruppo - è lo schiaffo che Breton diede a Ehremburg, l'ambasciatore culturale moscovita in Francia, per aver messo in ridicolo i surrealisti. A Parigi erano convenuti duecentotrenta delegati da trentotto paesi e vi intervenirono, fra gli altri, Benda, Tzara, Pasternak, Aragon, Gide, Forster, Malraux, Babel, Huxley, Breton, Nizan e Brecht, che tuttavia avversò il congresso.

Munzenberg morì nel sud della Francia nel 1940. Le circostanze non furono mai chiarite. Critico dell’atteggiamento russo nella guerra di Spagna, cadde anche lui in disgrazia. Dopo il 1945 qualcosa che si può vagamente paragonare alla sua attività venne non dall’Unione Sovietica, bensì dagli Stati Uniti i quali, sguinzagliando i servizi segreti, si servirono di vari uomini di cultura per creare riviste - un modello seguito fu proprio la rivista che Munzerberg fondò dopo la rottura con Stalin - finanziare convegni e diffondere la cultura americana, compresa quella artistica, diventata nel frattempo più potente di quella europea. I contributi a questo piano venivano ad ogni modo da personaggi assai diversi e di orientamento eterogeneo – dai liberali ai comunisti dissidenti – messi insieme da un collante dalla tenuta variabile come l’anticomunismo. Per parte sua, l’Unione Sovietica, con Zdanov, aveva irrigidito ulteriormente la sua “politica culturale” e non mostrava più nemmeno la benevolenza paternalistica che fuori dai suoi confini aveva strumentalmente potuto mostrare in passato. Malgrado tanti malumori e varie defezioni, soprattutto dopo i fatti del 1956 culminati con l’invasione dell’Ungheria, spendendosi come la maggior forza “antifascista” e perfino “pacifista”, sembrava mantenere un ruolo forte e centrale che aveva a disposizione la capillare rete propagandistica costituita dai vari partiti comunisti nazionali. La psicologia della Guerra fredda faceva il resto trattenendo gli insicuri, anche in casi di avanzata disillusione, nel blocco ideologico di riferimento.

Benché i gruppi dirigenti dei partiti comunisti dell’Europa occidentale non fossero distanti, quanto a gusti culturali, letterari e artistici, dai funzionari dell’Est, le ritrovate regole democratiche favorirono nei loro paesi una libertà di espressione con cui dovettero fare i conti, anche perché moltissimi letterati e artisti ostentavano di apprezzare le loro battaglie. Ciò nondimeno, non si esitava a definire questi “compagni di strada” come degli “utili idioti”. Palmiro Togliatti – capo dei comunisti italiani – avrebbe definito le mostre di arte contemporanea su “Rinascita” – la rivista del partito dove firmava queste invettive come Roderigo di Castiglia – quali grovigli di “mostruosità”. Del resto, da lì a poco, non esitò a paragonare i primi dissidenti a dei “pidocchi sulla criniera di un cavallo di razza”, il che faceva il paio con la colorita espressione del Ministro dell'Interno, il democristiano Mario Scelba: "culturame".

Ma certe “battaglie delle idee” equivalevano soltanto alle smanie coercitive della politica,  alla quale gli artisti delegavano volentieri il senso ultimo del loro fortunato operare - con l’estetica che rendeva suadente e pervasivo il messaggio. Arte ed estetica si ritrovavano molte volte sovrapposte e ancor più spesso confuse. L’attività di certi artisti era all’apparenza – e talvolta per espressa volontà – orientata a un giudizio estetico che poteva millantare tanto una visione globale dei rapporti globali quanto quella dell’individuale percezione di cose, fatti, problemi, gusti. L’arte come luogo privilegiato dell’estetica era ed è una di quelle complicazioni travestite da ovvietà dalle quali non è facile liberarsi. Ciò nondimeno la mitopoiesi, se si preferisce “il fare arte” di tutti, proprio di tutti coloro che erano esclusi dal rango di artisti, rifletteva talvolta con un’energia sconosciuta ai professionisti dell’immagine (ancorché l’espressionismo ne avesse arrischiato l’avvicinamento) il significato di un vivere sociale per niente rassicurante.

 

3 - Uno degli assassini seriali che più mi hanno intrigato ha a che vedere con gli aghi, benché non fossero aghi e spilli gli strumenti di offesa come invece è stato ipotizzato per la morte di Don Orione, trafitto, secondo certe voci, da un ago nel cervello. Questi strumenti puntuti - la cui utilità svolge fra l’altro una cristallina funzione estetica - hanno costituito un tarlo ineludibile nella coscienza del buon Alioscia dei Karamazov, tormentato da un boccone che li nascondeva dato in pasto agli animali. Leggendari sono gli spilli usati con le bamboline Voodoo, perfetta rappresentazione della magia come ricostruzione (al pari degli esperimenti scientifici) della scena sulla quale si vuole intervenire. Agli inizi del XVIII secolo qualcosa del genere venne alla luce, con almeno due protagonisti, nella Torino dei Savoia, per colpire Vittorio Amedeo II, artefice dell’indipendenza del suo piccolo regno ma anche repressore della guerriglia monregalese e vessatorio coi Valdesi.

Il caso al quale faccio riferimento è quello di Albert Fisch. Di lui si è occupato anche un bravo documentarista di Chicago, John Borowski, autore di una trilogia che comprende, oltre a Fisch, H.H. Holmes – il celebre “dottor Tortura” che commetteva i suoi delitti nel “Castello” che aveva progettato irto di trappole e nascondigli alla fine del XIX secolo – e Carl Panzram – violentatore di maschi e pluriomicida che nell’adolescenza subì numerosi pestaggi nell’istituto scolastico al quale l’avevano destinato i suoi genitori maturando un feroce odio contro il cristianesimo che tentavano di inculcargli.

Albert Fisch era un ometto dall’aria affidabile al quale i sempre nuovi vicini di casa consegnavano volentieri i figlioletti, maschi o femmine che fossero, che lui regolarmente violentava e faceva fuori. A suo dire ne aveva violentato un’infinità e fatto fuori un centinaio. Se questo può essere già un sufficiente motivo di orrore, la sua abitudine di infilzarsi il corpo con numerosi aghi è sbalorditiva. Con molti di questi aghi infilzati nel corpo, soprattutto attorno ai genitali, convisse sistematicamente tanto che, leggenda vuole, al momento del fatale contatto fecero entrare in tilt la sedia elettrica alla quale fu condannato.

Viene da ridere al pensiero che stimati critici d’arte, come Harold Rosemberg, abbiano potuto definire “oggetti ansiosi” le innocue opere d’arte contemporanea delle quali si occupavano. Il senso più profondo – se si vuole “estremo” – della vita era riposto nell’arte e quel che di estremo la vita offriva prendeva senso solo se l’arte concedeva direttamente o indirettamente la sua elevata lettura. Collingwood, crocianamente, aveva separato l’arte dall’artigianato, cosicché avesse dovuto interpretare vicende a dir poco malsane come quelle di Fish le avrebbe assegnate alla “non poesia” del mentore napoletano. Attribuire valore estetico a simili vicende è a sua volta un’operazione esterna che nella sua stessa procedura somiglia a quella artistica. Sembra impossibile poter sfuggire alla dialettica fra la realtà e la riflessione. Il percorso normalmente seguito per farlo è quello dell’attribuzione di una peculiare autonomia all’arte. Ma questa "autonomia" non ha altra utilità che quella di permetterci di chiarire ciò di cui stiamo parlando, vale a dire, ancora una volta, l'esteriorizzazione del problema in un ordine concettuale della cui necessità pratica non si discute, a meno che con questa operazione non si voglia trasformare la stessa necessità in un culto esagerato della Ragione, quella Dea capricciosa che reclamando imparruccati sacrifici raccomanda l’affrancamento dalla confusione, in un certo senso dalla vita stessa. Ma nella confusione – e mi è ovviamente chiaro che tale termine significa “fuso insieme” - vita e morte, mente e corpo, ragione e follia, virtù e indecenza, pace e guerra, bellezza ed orrore, pubblico e privato, le opinioni e la loro manipolazione non è che perdano ogni carattere tipico ma, vivendo nel patto originario stabilito con questo mondo, si rincorrono, entrano in conflitto, si sovrappongono, prendono un po’ dall’altro e cedono qualcosa di sé. Aristotele ci avrà anche portato fuori dalla sofistica ma non ci ha fatto uscire dal mondo. Nemmeno Gesù Cristo, checché se ne dica, si è definitivamente imposto sul buon vecchio e trascurato (ma mai domo) Pan.

La letteratura (ma anche il cinema e i fumetti) dispone di capacità descrittive che sono ignote alla pura evocazione simbolica delle immagini o meglio, per dirla tutta, favorisce una moltiplicazione delle stesse tale da assicurare direttamente il loro raccordo, come non succede, quando c’è,  in quell’estasi della visione, compromessa di continuo dai tentativi decrittatori, di fronte all’immagine unica (per tacere degli inesauribili “cosa vuol dire” che hanno accompagnato per un secolo l’arte contemporanea). I critici d’arte, esprimendosi con la letteratura, aspirano a proteggere artisticamente l’arte di cui si impossessano, la quale nel tempo, e del tutto arbitrariamente, è diventata “l’arte” per definizione non potendo più termini come “pittura” rendere pienamente conto delle molteplici attività degli “artisti”, d’altra parte bene o male partecipi della tensione esistente fra ordine e caos che, tanto per far finta di averla capita, l’opinione pubblica ne ha architettato il trasloco dall’intenditore al turista.

Fra i critici (e gli storici) d’arte del secolo scorso si assistette a una patetica gara fra chi formulava le metafore più indovinate che andassero a coprire l’intera gamma della produzione estetica. Trasgredendo all’autonomo dettato dell’arte come l’intendevano, non poche erano le allusioni a una professione generale dell’epoca, sociale o politica che fosse. I politici, dal canto loro, per non esser da meno, avrebbero inventato più tardi la formula del “male assoluto” senza rendersi ben conto che così indicavano semplicemente i confini della loro azione. È a questo punto che orrifiche vicende come quella di Fisch insinuano tanto il limite dell’attività estetica quanto l’impulso umano a non tenerne conto. Nelle malferme restrizioni sociali e personali, la partita di pallone giocata con un teschio in una novella di Pirandello era probabilmente una gara più comunicativa e intensamente vissuta di ogni  “intelligente” metafora escogitata dai critici d’arte e dai politici.

“Fogli di Via”, novembre 2014