Di seguito il testo del catalogo pubblicato in occasione della mostra tenutasi nell'aprile del 2.000 al palazzo del Podestà di Pescia

Carlo Romano

Rodolfo Vitone

 Qualcuno, e forse più d’uno, deve aver detto che la scrittura è data agli uomini perchè possano leggere fra le righe. Non l’avesse detto nessuno, mi prenderei volentieri la responsabilità di essere il primo, ma indovinare fra quali righe ci sia oggi qualcosa da leggere è diventata una fatica sempre più inutile. Forse tutto è talmente preciso da aver sottratto spazio all’ambiguità o forse tutto è già così ambiguo che l’ambiguità non riesce ad essere ulteriore. Sembra un bel problema ma non lo è. La verità è che di inutile c’è la fatica, e non da oggi. Oggi, semplicemente, ancorché tutti si affannino a dimostrare il contrario, non c’è più niente da leggere. L’umanità, non c’è che dire, si è tolta un bel peso, eppure non è contenta. Leggere, in fondo, le piaceva. Così, almeno, si dice. Tutto è accaduto in fretta, da un giorno all’altro, ma è accaduto, e oggi, per scongiurare lo stato d’animo della perdita gli uomini che fanno? Aprono un libro, vanno al cinema, guardano i quiz televisivi, leggono la posta elettronica, si soffermano su un quadro.

Ho l’impressione di essere condannato a subire ancora per molto tempo scrittori e artisti che si dicono "nuovi" e che se non son nuovi son "giovani". Pazienza. Se considero che la terra è destinata a spegnersi col suo sole, il peggio deve ancora venire. Peggio ancora di leggere già adesso è scrivere. Scrivere d’arte è poi inverosimile, eppure le occasioni per farlo si sono moltiplicate. Si dev’ essere diffusa quell’ebbrezza che spinge a svaghi insensati chi è accerchiato da effluvi ammorbanti, la stessa, grosso modo, ma più consona al tema, che sollecita contese di bellezza quando i barbari sono alle porte. Naturalmente il divertimento è coatto e la bellezza posticcia, come l’arte di cui si parla chissà cos’è.

Fa tenerezza indovinare in lontani esegeti, che pure facevano di tutto per rendersi antipatici, lo sforzo impresso alla pagina per stabilire cosa l’artista volesse dire. Era un’ingenuità che si faceva pagare a caro prezzo ma il cipiglio era autentico. Un altro mondo davvero, di fede e convinzione ben temprate da malafede e inganno. Viceversa di cosa l’artista voglia dire non frega più niente a nessuno, il che, in fin dei conti, si potrebbe anche salutare come un progresso se i critici non pretendessero ormai di far riferimento, per un’opera, a tutta la farragine della varia umanità. Quando arrivano ai critici d’arte, in verità, le cose sono perlomeno di seconda mano, ma non è questo il problema. Un po’ di richiami (che vorrebbero essere) intimidatori a qualche filosofia e un bagno di mode stinte fanno male soltanto a chi male vuol farsi. Non c’è tuttavia oggi altro posto dove la teoria del rispecchiamento estetico, nonostante indirizzi disparati e contraddittori, sia al tempo stesso così spudorata nei fatti e così respinta nelle idee (presunte) come nella critica d’arte. In un’opera sembra esserci di tutto, più ancora che nel libro di Mallarmé.

Dovrei aver timore, nel parlare di Rodolfo Vitone, poiché mi ostino a vedere nei suoi quadri pochi e, anche quando si tratti di motori, discreti elementi. Per essere un critico d’arte mi manca evidentemente l’ indispensabile visione stereoscopica, d’altra parte non sono nemmeno una mosca. Essendo Vitone un ligure, la tentazione di associare il poco alla ruvida capacità espressiva che questo secolo ha visto emergere fra i poeti della sua regione, è forte ma è niente di più che una remota ipotesi da verificare in tutti i sensi, anche nei poeti. Robert Bresson ha detto una volta che cercava in Bernanos "l’assenza" di psicologismi e non sarebbe campato in aria se mi mettessi a fare altrettanto con Vitone, quantunque non debba trascrivere in critica l’opera di un pittore come un regista trascrive nel cinema un romanzo. Credo di non saper bene cosa fare come immagino non lo sappia bene Vitone quando lavora. Ritengo sia un vantaggio su chi sa già tutto, con la differenza che Vitone sembra in grado di raggiungere una leggerezza che mi è proibita.

Il titolo di un gruppo di sue lontane opere, di quelle che per la loro epoca sembrano oggi tanto più interessanti quanto più sono state eluse, è tanto più esplicito quanto più appare forzato e lezioso. L’anacenosi corrisponde, nella retorica, alla "richiesta di suggerimenti e consigli agli interlocutori". Diversamente da molti suoi compagni di cordata in quella che comunemente si chiama "poesia visiva", Vitone non ha dovuto compiere altro sforzo che inventare quel titolo per indicare come avrebbe lavorato, e non perchè gli mancassero i mezzi. Se devo essere sincero, la manifestazione della sua attività che più mi ha lasciato indifferente, è quella di critico d’arte in un giornale della sua città, benché egli abbia adempiuto a un compito allora prezioso. Quei vecchi articoli saranno un giorno magari da riprendere in mano. C’era, anche nel fare la recensione più banale, un’inflessione teoretica che suggeriva un clima battagliero difficile a trovarsi nelle testate più importanti e che oggi non è nemmeno più un ricordo. Dubito però che Vitone abbia obbedito all’ imperativo dei suoi mezzi intellettuali per fare di ogni quadro, come si suol dire, una "dichiarazione di poetica".

Se un critico, a proposito della poesia visiva, discettava di "insubordinazione nei confronti dello spazio del testo", "denuncia del fonocentrismo" o di "messa in crisi del principio di economia linguistica" i compagni di Vitone credo si dovessero rallegrare alquanto. Se il critico si chiamava Filiberto Menna, come nel caso specifico, e aveva fama di possedere un’inusuale spessore dottrinale, la gratificazione trascendeva la semplice attenzione e diventava conferma dei propri obiettivi artistici, delle battaglie comuni. La mia opinione è che Vitone sia rimasto sostanzialmente indifferente a quest’ultimo aspetto, benché mai abbia negato il proprio coinvolgimento alle imprese collettive e in taluni casi le abbia addirittura guidate. Credo che i vari passaggi rinvenibili nella sua opera rispondano più all’esaurimento per sazietà di una maniera che al presunto affinamento di un discorso teorico. Per questa ragione il suo lavoro mantiene una freschezza che prescinde dalla parcelizzazione dei contenuti e dall’individuazione di remote intenzioni.

Attorno alla poesia visiva sembrano essere tornate oggi le premure che merita. Sicuramente è stata in Italia l’episodio artistico più ramificato e vivace degli ultimi cinquant’anni, molto più vero e interessante, volendo intelligente, di quel pasticcio burocratico che passa sotto il nome di "arte povera", che pure occupa la gran parte del proscenio. Sembra anche che nei suoi confronti sia maturata l’attenzione di chi non era ancora nato al momento del suo maggior impatto. A questo proposito è mia opinione che ci sia nell’opera di Vitone una rara capacità interlocutoria. Per chi si rimette a leggere dopo che, come abbiamo visto, si era smesso,. e soprattutto per chi si mette a leggere per la prima volta questo genere di cose, i quadri (le poesie visive) di Vitone ho ragione di credere che possano dare gli stimoli giusti. Questa buona capacità colloquiale si estrinseca attraverso lettere, omini, motori, freccette, fiori, immagini disparate che Vitone ha inizialmente aggredito col colore, ha poi ripulito e austerizzato, di nuovo colorato ma con sobrietà ed infine velato in alcuni particolari e spessorato in altri, poggiando il tutto su tele, legni, cartoni, tele emulsionate e supporti occasionali. Una volta, le sue rappresentazioni plastiche, divennero anche –con una vecchia automobile e degli improbabili fiori finti- l’ironico quanto provvisorio paesaggio d’una importante piazzetta del centro storico genovese. Molte composizioni sono rimaste invariate subendo i vari trattamenti cui Vitone si è dedicato e altre, senza risultare del tutto eccentriche, appaiono singolari. Se non c’è qualcosa di più, e questa cosa potrebbe essere perlappunto la colloquialità, non c’è d’altronde nell’opera di Vitone nulla di meno di quello che presentano opere più ostiche. Ciò nonostante se i critici dovessero insistere nel cercare di vedere nelle opere d’arte di tutto un po’, io resterei dell’avviso che vedendo quel poco che si vede si veda in realtà di più. Sarà probabilmente la presunzione di chi non è un esperto, d’altra parte non sono un medico oculista.