Il
saggio che segue apparve in origine su “Nuova Corrente” nel 2001 ed è stato rivisto per l’attuale pubblicazione.
Carlo Vita
i taccuini
L'uomo
che sa tutto sui taccuini sta seduto al suo tavolo e pensa. Sostengono i
colleghi che ha un'aria sciocca, specialmente quando pensa, ma se pensa non
dev’essere troppo sciocco (anche se è vero che si può passare la vita a pensare
sciocchezze).
L’uomo
sta pensando ai taccuini. Ha appena smesso di leggere un giornale, spiegazzato
sul tavolo davanti a lui. Un titolo grosso annuncia che sono stati ritrovati i
taccuini di Hitler, rivelatisi subito falsi.
Nel
testo dell’articolo, però, non si parla di taccuini ma di diari, e
l’incongruenza fra titolo e testo è il motivo che ha spinto l’uomo dall’aria
sciocca a smettere di leggere e a buttare il giornale sul tavolo con un gesto
di stizza. Non sopporta, assolutamente non sopporta la mancanza di precisione
dei giornali, il pressappochismo cialtrone di tanti giornalisti.
Non
si può dire che sia un pignolo. “L’uomo dei taccuini” (così lo chiamano i
colleghi d’ufficio, incerti tra ammirazione e derisione), è ordinato,
abbastanza ordinato, questo sì, non però in generale un maniaco dell’ordine. Ma
se si tratta di parole, dell’uso delle parole, qualcosa scatta nel suo cervello
ed egli reagisce in modo esagerato, viene fuori d’un colpo, dicono i colleghi,
tutta l’intolleranza che sonnecchia nel suo carattere.
Non
è un insegnante di lettere o maestro, professioni che giustificherebbero tanto
preoccuparsi delle parole. E’ solo un impiegato di grado intermedio. E, che si
sappia, non è uno di quelli che scrivono nel tempo libero. Gli studi classici e
qualche lettura hanno contribuito ad accentuare la sua naturale inclinazione
all’uso esatto delle parole.
Non
da oggi la questione dei taccuini preoccupa l’uomo. Le notizie sul ritrovamento
di “taccuini” appartenenti (o attribuiti) a personaggi o scrittori famosi sono
ricorrenti sui giornali e, ripensandoci, egli sente crescere dentro di sé lo
sdegno. Assistere all’esplosione del suo risentimento è lo spettacolo
dell’ufficio, ma presto i colleghi si annoiano per la pedanteria delle
argomentazioni.
Perché,
leggendo bene, egli scopre quasi sempre che quei cosiddetti taccuini sono
diari, agende, semplici quaderni di scuola o addirittura i registrini di conto
che i macellai chiamano “libri dei sospiri”, sui quali annotano (o annotavano
una volta), gli acquisti a credito dei clienti, come quelli usati per i suoi
appunti da Beppe Fenoglio.
Su
Fenoglio e sui registrini del padre macellaio, ritrovati negli anni Sessanta
dal signor Giancarlo Molino di Alba “mentre andava a pescare, abbandonati tra i
rifiuti vicino al fiume Tanaro”, l’uomo dei taccuini ha raccolto un vero e
proprio dossier, e ogni volta che lo sfoglia si sente soffocare dalla rabbia.
“Sette taccuini color senape, a righe e con
l’indicazione data, carne, chilo, etto, prezzo, importo”, scrive un giornale, e
nessuno in redazione s’è accorto che tanta esattezza descrittiva è stata
vanificata dall’aver usato la parola “taccuini”. Inutile che si sia aggiunto,
in una parodia di precisione, che i reperti portano sul frontespizio
l’intestazione a stampa Macelleria Fenoglio Amilcare Piazza Rossetti Alba, e
che il loro formato è di centimetri 10,5 per 15,3. Sono registri di macelleria,
non taccuini!
L’uomo
ha un moto d’impazienza quando legge che quelle carte sono state conservate per
decenni in un solaio e alla fine consegnate a uno del mestiere che ne ha curato
la pubblicazione, “scuotendo la cittadella dei critici” e riaprendo annose
diatribe circa le date in cui Fenoglio aveva scritto alcune delle pagine più
belle sulla resistenza partigiana. Sono dettagli che non lo interessano, come
non gli importa di sapere che quei registrini, per il loro formato ridotto,
possono essere portati comodamente in tasca, come difatti li portava lo
scrittore. Nati come registri di macelleria (egli sostiene battendo il pugno
sul tavolo), registri dovevano restare, non trasformarsi in taccuini nella
colpevole approssimazione mentale dei giornalisti, per il solo fatto di essere
stati usati come tali.
L’uomo
dei taccuini ha, sulla nozione di taccuino, idee precisissime. Che rifiutano,
innanzitutto, le definizioni dei dizionari. I vocabolari, chiusi anch’essi con
scatti d’ira una volta vistane inutile la consultazione, descrivono il taccuino
genericamente come un “quadernetto per appunti, conti, memorie, ricevute e
simili cose”, e aggiungono talvolta (grande concessione) “specialmente
tascabile”. Ma quale “specialmente”: il taccuino è essenzialmente tascabile!
Sulla
caratteristica fondamentale della tascabilità l’uomo dei taccuini porta, oltre
ad esempi illuminanti, una prova indiretta, ma che egli considera schiacciante.
Sua moglie chiama “taccuino” il portamonete. Ecco, vedi, le dice lui sollevando
in alto l’oggetto in discussione, questo non è un taccuino ma un borsellino,
che puoi tenere nella borsa oppure in tasca. Ma il fatto che tu lo chiami
taccuino dice tutto, è l’argumentum quo demonstratur. E se la moglie non si
rifugia in un’altra stanza, le spiega anche che, secondo lui, il taccuino,
quasi per il suono stesso della parola, prevederebbe come il borsellino una
linguetta con sopra un bottone automatico che - tac - si chiude a scatto.
Quello è il vero taccuino da portare in tasca, meglio se con una piccola matita
infilata nella sua custodia sotto la linguetta. Serrando il bottone, tutto
resta ben chiuso e compatto: pagine e matita.
Un
giorno un collega ha chiesto all’uomo dei taccuini: e tu, che taccuino adoperi?
Io? Nessuno, è stata la risposta che ha sorpreso tutti. Allora avrai un
calepino, ha insistito il collega. Ho solo la mia agenda, uguale alla vostra.
Lì c’è posto per tutto quello che ho da scriverci. Per tua informazione, ha
soggiunto rivolgendosi a chi glielo aveva chiesto, il calepino è un’altra cosa.
Non è un sinonimo di taccuino. In origine, nel Cinquecento, era un volume
grosso così, il dizionario latino di Ambrogio da Calepio, un umanista
agostiniano.
Anche
sulla locuzione “quadernetto” le idee dell’uomo dei taccuini sono chiarissime.
Sa che “quaderno” deriva dal latino quaternus , ma si rifiuta di ammettere la
spiegazione data con supponenza dai dizionari come ovvia, e cioè che
originariamente il quaternus fosse formato da quattro fogli piegati in due per
ottenerne sedici pagine. Perché quattro fogli e non di più? Ogni foglio poteva
essere anche ripiegato quattro volte, ottenendone trentaquattro pagine di
formato facilmente tascabile.
“Taccuino”,
a sua volta, deriva dall’arabo tacuïm, tanto che anticamente in italiano si
scriveva “tacuino” con una sola “c”. Tacuïm significa “ordinata disposizione”,
e i dizionari subito saltano al contenuto dei taccuini, che originariamente
erano calendari, almanacchi di ricorrenze astrali, di cose legate insomma a un
ordine sequenziale. Perché, invece, non pensare prima alla carta, ai fogli
ripiegati per bene, tagliati esattamente lungo tre lati e cuciti con cura, in
ordine, sul quarto? Così era, nel Medioevo, il tacuinum sanitatis, raccolta di
prescrizioni sanitarie e igieniche della Scuola
Salernitana. Doveva essere di piccolo formato e solidamente rilegato,
affinché il medico, obbligato a consultarlo spesso, lo potesse tenere
comodamente in tasca o nella borsa appesa alla cintura.
Ma
cosa sanno i giornalisti di tutto questo? Loro fanno di ogni erba un fascio.
Sono come i selvaggi, pensa l’uomo dei taccuini, come i Bororo del Mato Grosso,
per i quali il giallo e il rosso formano una sola categoria linguistica. E i
giornalisti non possono giustificarsi ricordando che in letteratura si usa
definire per estensione “taccuini” tutte quelle raccolte di frammenti, pezzi
vari e senza ordine apparente, che gli scrittori amano buttar giù come le note
su un taccuino (o fingere di buttar giù, in realtà lavorandoci il più delle
volte a lungo, correggendo e ricorreggendo).
I
giornalisti estendono ad arbitrio tutto quello che gli viene comodo di
estendere. Almeno in Italia. E all’estero? Può darsi che sia così anche là, ma
non dappertutto e non in tutti i campi, pensa l’uomo dei taccuini.
Gli
inglesi e gli americani, per esempio, sembrano più seri, almeno per quanto
riguarda il taccuino. Che per loro è notebook e basta. Non si pongono problemi
di ripetizione e di ridondanza che preoccupano tanto gli italiani, sempre alla
ricerca di sinonimi che evitino il fastidio di una stessa parola usata due
volte in una pagina. Se in un paragrafo inglesi e americani devono scrivere due
o persino tre volte notebook, lo fanno. E magari la ripetizione diventa stile.
Anche
su questo l’uomo dei taccuini si è documentato. In Festa mobile, per esempio,
Hemingway torna spesso a parlare dei taccuini che usava, sulla terrasse del
caffè alla Closerie des Lilas, per scriverci i racconti di quand’era “su nel
Michigan”.
“Era
un caffè simpatico, caldo, pulito e accogliente - ricorda lo scrittore - e io
appendevo il mio vecchio impermeabile all’attaccapanni per farlo asciugare, e
posavo il cappello di feltro, logoro e stinto, sulla rastrelliera sopra il
sedile e ordinavo un café au lait. Il cameriere lo portava e io toglievo dalla
tasca della giacca un taccuino e una matita e mi mettevo a scrivere.”
La
parola che Hemingway usa è sempre notebook. Nelle versioni italiane, i
traduttori non resistono alla tentazione di cambiare, poche pagine dopo, le
carte sul tavolino del caffè dove sedeva lo scrittore. “I quaderni con la
copertina blu, le due matite e il temperamatite (un coltello da tasca era uno
spreco eccessivo), i tavolini di marmo, l’odore del primo mattino, con i
camerieri che lavavano e spazzavano il pavimento, e la fortuna: non ti
occorreva altro”. Per Hemingway i “quaderni con la copertina blu” continuavano
ad essere the blue-backed notebooks.
Notebook
è anche per Joyce, nel sesto episodio dell’Ulysses (La discesa nell’Ade), il
taccuino (stavolta tradotto proprio così), su cui il cronista Hynes annota
qualcosa durante un funerale nel cimitero di Dublino: “Hynes jotting down
something in his notebook”. E ancora, nel nono episodio (Scilla e Cariddi),
siamo nella Biblioteca Nazionale e il letterato Mr Best “entrò, alto, giovane,
mite, lieve. Portava in mano, gioiosamente, un taccuino nuovo, grande, pulito,
lustro”, che sarà definito, poche pagine dopo, “brillante” come il suo
proprietario. Joyce dice che il notebook era “grande”. Grande come? Ma è
evidente: delle dimensioni massime tascabili.
Addirittura
a bunch of notebook (“un mucchio di taccuini”) sono quelli che il giovane
Holden di Salinger trova nella cameretta della sorellina Phoebe. Qui notebook
torna tre volte in tre righe (il traduttore ha usato la parola “notes”, ma ha
fatto in modo di farla comparire solo due volte). Poche pagine dopo lo
scrittore non si preoccupa di ripetere altre tre volte notebook in altre tre
righe, e il traduttore si è arreso e ha scritto anche lui tre volte “notes”.
Sempre
a proposito di Salinger, in uno dei Nove racconti, finalmente notebook è
tradotto “un piccolo taccuino da pochi soldi” nelle mani di Teddy, bambino
genio e fratricida, ma più tardi si cede alle varianti e “diario” diventa la
versione di notebook.
Parola
che ha attraversato i secoli: oggi è il nome universale del personal computer
portatile (non ancora tascabile, per il momento), ma l’uomo dei taccuini l’ha
ritrovata anche nel vecchio Circolo Pickwick, sia pure divisa antiquatamente in
due da un trattino, come insistono tuttora a scrivere i dizionari: “Mr
Snodgrass, who had just taken out his note-book...”. Il traduttore italiano ha
voluto far di meglio e così: “Mr Snodgrass, che aveva appena estratto il suo
quaderno di appunti...”.
E
nelle altre lingue? In tedesco, “taccuino” si dice soprattutto Taschenbuch,
cioè libro che sta in tasca, ulteriore prova di tascabilità. Ebbene: in un
viaggio come quello che Goethe fece in Italia, dove il Taschenbuch avrebbe
dovuto farla da protagonista, l’uomo dei taccuini non è riuscito a trovarne
uno, nell’originale, nemmeno una volta. E ricorda di come si stupì e restò
deluso leggendo che il poeta aveva affidato le sue prime annotazioni ed
impressioni di viaggio non solo all’immancabile diario (Tagebuch), ma anche ad
una quantità di foglietti sparsi, che teneva fermi su una Schreibtafel. Che
sarebbe una lavagnetta o qualcosa di rigido su cui il viaggiatore appoggiava le
carte, tradotto impunemente in italiano “taccuino”. Tornato a casa, Goethe si
trovò sommerso da tutti quei foglietti, li mise in un cassetto e per molto
tempo non ci pensò più. Una confusione di appunti inaspettata e insospettata in
uno spirito apollineo e ordinato. E l’uomo dei taccuini pensa alla fatica cui
Goethe dovette sobbarcarsi anni dopo il viaggio per ricucire tutte quelle carte
e tirarne fuori un libro, recuperando perfino le lettere che aveva scritto agli
amici (e alle amiche).
Un
disordine che rimanda fastidiosamente alla cialtroneria russa di un tipo come
Solgenitsyn, indefesso annotatore più che su taccuini su piccoli fogli, stando
a quanto scrivono, senza meglio specificare, i giornali. Migliaia e migliaia di
foglietti d’appunti sulla rovina della sua patria, che occupavano un’intera stanza
nella casa del Vermont (secondo i vocabolari, consultati stentatamente, i russi
chiamano il taccuino in modo sbrigativo bloknót, oppure con un giro di parole,
che significa press’a poco “libretto per note”).
Libretti
dello stesso tipo sarebbero dovuti servire anche a Biagio Pascal per annotarvi
i suoi pensieri, interrotti purtroppo dalla morte prematura. Ma il maestro di
Port Royal usava invece grandi fogli, non certo tascabili. Quando volle tentare
un primo riordinamento dei pensieri per la progettata Apologia del
Cristianesimo, suddividendoli per temi, dovette tagliare gran parte dei fogli
in tanti piccoli frammenti, linguette, quadratini di vario formato, che poi
infilò l’uno sull’altro con ago e filo,
annodando i due capi per tenerli assieme, secondo le usanze del tempo.
Così
li trovò il nipote Etienne, riuniti in tanti pacchetti, e credette di capire (e
con lui tanti altri), che fossero note splendide ma discontinue, disordinate,
senza capo né coda. Gli eredi poi, pensando di agire per il meglio, tagliarono
i fili e incollarono il tutto amorevolmente su un grande registro,
preoccupandosi soprattutto di risparmiare spazio nel sistemare sui nuovi fogli
quei foglietti, come si vede nel manoscritto numero 9202 conservato a Parigi
nella Bibliotèque Nationale. Per fortuna, prima di smembrare i pacchetti,
fecero fare delle copie del materiale come lo avevano trovato e nella stessa
apparente confusione.
Se
Pascal, pensa l’uomo dei taccuini, avesse usato taccuini, le cose sarebbero
forse state più semplici sia per lui sia per i futuri scoliasti, che hanno
impiegato quasi tre secoli a riscoprire i buchi di infilatura e a capire
meglio, confrontando i frammenti sulle copie, l’ordine pascaliano, e ancora ci
si stanno rompendo il capo (e qualcuno pensa a un ordine musicale, oltre che logico e cronologico).
Che
i francesi siano quasi sempre imprecisi, almeno quanto gli italiani, in tema di
taccuini, è un fatto incontestabile. Proust usa carnet (‘’les illisibles
carnets’’ dei chimici) nella Prisonnière, e nel 1908 aveva raccolto i suoi
appunti in un Carnet d’un an. Ma nelle Fanciulle in fiore troviamo proprio un
calepin, anch’esso tradotto impavidamente “taccuino”. Il barone di Charlus ne
cava fuori uno davanti al Casino di Balbec, per motivi che il narratore impiega
più d’una pagina ad analizzare. In tutti gli altri autori, una volta trovi
carnet, un’altra volta cahier (che sarebbe il solito quaderno) e la volta dopo
tablettes.
L’uomo
dei taccuini si sente costretto a giustificare, in questo caso, i traduttori
che scrivono “quadernetto” quando il professor Bergeret, nell’Olmo del mail di
Anatole France, tira fuori dalla tasca un suo cahier (addirittura de papier), in cui ha ritratto una classica
vicenda di corruzione da Terza Repubblica.
Lo
turba il fatto che quel cahier potesse stare in una tasca. Forse Bergeret,
pensa l’uomo dei taccuini, aveva tasche molto ampie, o sformate a forza di
infilarci libri. O il quaderno non era delle dimensioni classiche, ma un po’
più piccolo, appunto un quadernetto.
Per
consolarsi dei dubbi, non c’è di meglio che rifarsi ad un esempio luminoso di
tascabilità: Jorge Luis Borges.
Quali
oggetti tira fuori dalle sue tasche (borsillos) il cinese dottor Yu Tsun, spia
per i tedeschi durante la prima guerra mondiale e bisnipote di quel Ts’ui Pên,
autore del romanzo-labirinto di cui si parla nel Giardino dei sentieri che si
biforcano?
L’uomo
dei taccuini fa una pausa ad effetto, guarda gli astanti e, a loro beneficio,
comincia lentamente ad enumerare sulle dita: l’orologio nordamericano, la catena
di nickel con la moneta quadrangolare, il portachiavi con le chiavi
compromettenti e inutili, una lettera da distruggere e non distrutta, il
passaporto falso, una corona, due scellini e alcune pence, la matita rossoblù,
il fazzoletto, la rivoltella con una pallottola e... il taccuino!
Del
quale Borges, di solito così attento ai particolari, non descrive le
caratteristiche, lasciandole comunque indovinare dalla parola spagnola la
libreta, che non vuol dire libretto, ma taccuino.
L’autore
di Finzioni mostra invece di non aver dimenticato (tanto da dedicarvi una
nota), i quaderni “a quadretti” (quadernos cuadriculados), su cui Paul Menard
tentava, con la sua scrittura da insetto, di ricostruire il Chisciotte.
Quaderni che egli soleva poi bruciare in allegri falò.
Altri
quaderni tornano così alla mente dell’uomo dei taccuini: quelli di Malte
Laurids Brigge. E ancora una volta si innervosisce. Perché “quaderni” è qui
un’invenzione degli editori (e dei traduttori). In realtà, Rainer Maria Rilke
parla nel titolo di quel libro di Aufzeichnungen, che significa semplicemente
“annotazioni”. Ma agli editori non tedeschi è sembrato, evidentemente, che una
parola tanto banale non suonasse bene per rappresentare lo stato d’animo del
povero Malte nella sua fredda stanzetta, mentre analizzava l’angoscia del mondo
e il senso di morte, tentando di interpretarne il segreto e di affidarlo alla
carta (e perché non, allora, a quella dei “taccuini”?).
E
Kafka? Ma sì, anche nelle storie semplici e insondabili del vecchio Franz,
l’uomo dei taccuini ne ha trovato uno, in Preparativi di nozze in campagna, sul
treno dove viaggia, in un giorno piovoso, l’impiegato Raban per raggiungere (ma
il racconto, pubblicato postumo da Max Brod, non è finito, non si sa se la
raggiungerà), la fidanzata Betty, carina anche se piuttosto attempata.
Due
commessi viaggiatori in generi di merceria (un mestiere che lo scrittore
conosceva bene: suo padre era un grossista nel ramo), siedono vicino a Raban e
discutono sui prezzi del filo. Uno di essi tira fuori da una tasca dei
pantaloni quello che nella traduzione è diventato un “taccuino” (Kafka,
precisissimo come sempre, dice Notizbuck, che al solito non sarebbe poi un
taccuino, ma un’agenda, in questo caso un’agendina) e lo consulta, per avere
conferma dell’esattezza di ciò che sta dicendo. “Reggeva il taccuino semichiuso
nella mano sinistra, il pollice sulla pagina letta, per poter facilmente andare
a vedere, se fosse stato necessario. Il taccuino vibrava perch’egli non
puntellava il braccio ad alcunché e il vagone, nel suo procedere, batteva sulle
rotaie come un martello”.
Rivenendo
ai francesi, la confusione fra carnet e cahier ha contagiato anche un italiano
che ha avuto molte frequentazioni transalpine. Italo Calvino, in una delle sue
“lezioni americane”, chiama ad un certo punto carnets i duecentosessantun
cahiers che Paul Valéry ha riempito per mezzo secolo, tra le quattro e le sette
del mattino di ogni santo giorno. Ma scorrendo, in appendice al primo volume
della Pléiade dedicato all’opera valeryana, la minuziosa lista di quei
quaderni, l’uomo dei taccuini (che la trova affascinante), capisce che Calvino
non aveva tutti i torti a confondersi. L’elenco, in effetti, indica talvolta,
fra tanti cahiers e registri d’ogni formato e colore, anche qualche petit bloc,
un paio di blocchi stenografici, un carnet in cuoio e ben trentanove petits
cahiers, che non potranno essere altro che carnets, taccuini. E dunque
tascabili (proprio come la filosofia, che secondo Valéry dovrebbe essere sempre
“portabile”, e quindi portatile).
Anche
Gide, nei “Sotterranei del Vaticano”, alterna indifferentemente carnet e
cahier, ma specifica, ad un certo punto, che un personaggio trova in un
cassetto un carnet relié en cuir de Russie. E noi ci accontentiamo, pensa
l’uomo dei taccuini, perché almeno sappiamo che il taccuino di Lafcadio Wluiti
era in cuoio di Russia. Un tipo che non gli dispiace, quel Lafcadio, uno che
ammazzerà pure senza nessun motivo, ma che sa punirsi, piantandosi la punta di
un temperino nella coscia, se qualcuno osa mettere il naso nel suo taccuino,
dove egli annota scrupolosamente l’autopunizione.
Un
taccuino simile, di marocchino rosso, è stato infilato da Simenon in una tasca
dell’abito grigio di Kees Popinga (non sarà un parente di Lafcadio?). L’uomo
che guardava passare i treni l’ha comperato per un fiorino (valore degli anni
Trenta), con l’intenzione di annotarvi le mosse vincenti delle partite a
scacchi. Ma la sua vita è poi bruscamente cambiata e, dopo la fuga dal
benessere di una monotona esistenza nella provincia olandese, Popinga comincia
ad annotare sul taccuino altre mosse, quelle della sua nuova, imprevedibile
vita al di là delle regole.
Non
se ne trovano più di taccuini così, rilegati con amore in buona pelle, con i
bordi dorati e il nastrino di seta da sistemare tra i foglietti di leggera
carta giallina, elastica e resistente, solcata delicatamente da piccole righe
grigiazzurre. All’uomo dei taccuini piacevano anche perché non c’era tanto
spazio per scrivere, eventualmente solo poche parole ben scelte. Quei taccuini
gli apparivano (allora era un ragazzo) tanto belli e preziosi che si proponeva
di annotarvi a matita, con calligrafia minuta, solo pensieri essenziali, brevi
ma straordinari, eccezionali, folgoranti. Però non riusciva mai a trovare idee
abbastanza importanti da scrivere, e così i taccuini finivano per rimanere
bianchi.
Le
banche, una volta, offrivano ai clienti più affezionati regaletti del genere,
che però non erano taccuini ma agendine, con la paginette già divise in giorni
e mesi. E questo disturbava l’uomo dei taccuini, che non voleva tenere un
diario ma segnare pochi appunti ogni tanto, quando gli venivano in mente, senza
tener conto delle date.
E
nemmeno ci sono più quei taccuini a minime righe, a forma di sottile libretto,
tanto comodi e piacevoli, ma solo bloc-notes con i foglietti strappabili,
tenuti assieme da punti metallici o da spirali di plastica. Si sfogliano dal
basso in alto, e le pagine sono quasi sempre a squallidi quadretti, buoni per i
ragionieri, i geometri, i bottegai. Il trasandato tenente Colombo ne ha uno
così, sia pure a righe.
L’uomo
dei taccuini chiede invano ai cartolai quello che cerca, e gli spiega che, se
non di cuoio, vorrebbe almeno un taccuino con la copertina di cartoncino
leggero e di colore sobrio. Leggero perché le pagine si possano sfogliare
facilmente, e di colore sobrio perché un taccuino deve essere sobrio. Non la
copertina in similpelle o plastificata, odiosamente sgargiante, con disegni
cosiddetti “di fantasia” contro l’horror vacui, con le figurine di Paperino e
dei Puffi. E nell’interno, non le solite righe larghe da scuola, ma righine
strette, senza gli orribili filetti verticali blu, che segnino i limiti entro
cui scrivere.
Il
fatto è che la gente non bada più a queste cose, non sente più il piacere del
taccuino. O forse se ne infischia del supporto e della sua forma, e punta al
concreto. Basta che sia un blocchetto di carta qualsiasi, magari riciclata, per
scarabocchiarci su a zampe di gallina quello che serve al momento, la nota
della spesa, un numero di telefono o qualche banalità sgrammaticata.
Di
cuoio era anche il carnet che Antoine de Saint-Exupéry portava sempre in tasca
e che scomparve con lui al largo della Corsica, quando l’aviatore-scrittore fu
abbattuto in volo da un Focke-Wulf tedesco, il 13 giugno 1944.
Ma
era un taccuino “spesso”, come sostengono i giornali, o “sottile”, come sta
scritto nella prefazione al libro dei Taccuini che ne ha reso noto il
contenuto? L’uomo dei taccuini azzarda una sua ipotesi: poteva essere una
foderina di pelle in cui lo scrittore inseriva di volta in volta un taccuino
nuovo, quando quello vecchio era riempito di appunti. Oppure un carnet a fogli
mobili, che poteva contenerne pochi o molti, a seconda delle circostanze.
Bisognerebbe, pensa, andare in Francia, esaminare sul posto le carte rimaste.
Gli piacerebbe farlo, magari nelle prossime ferie.
“Vedere
com’erano fatti”: è uno dei sogni dell’uomo dei taccuini. Che ha avuto un altro
scatto d’ira quando ha letto l’articolo d’un giornalista che si dilungava a descrivere
la propria emozione nel tenere tra le mani un taccuino di Pirandello, senza che
gli venisse in mente di spiegare com’era fatto, quel prezioso reperto...
Si
sa invece benissimo che i “diari” attribuiti a Mussolini (forse un falso
predisposto da lui stesso per giustificare il suo operato a guerra perduta),
sono cinque agende della Croce Verde dal ’35 al ’39, non “taccuini”, come
dicono approssimativamente i giornali.
L’uomo
dei taccuini sa tutto anche sui taccuini di Bruce Chatwin, viaggiatore irrequieto,
perché ne ha visto la riproduzione su una rivista: a righe, e di formato
ineccepibile, da viaggio. Lo ha eccitato moltissimo leggere l’articolo in cui
si riferiva che un certo critico aveva rimproverato allo scrittore errabondo di
usare “quaderni neri”, con la copertina definita in moleskine (in realtà non di
pelle di talpa, come dice la parola, ma di tela cerata), che egli si procurava
in una vecchia cartoleria di Parigi. Perché mai, si chiedeva il critico, a
Chatwin non bastavano quei quaderni che troviamo tutti sotto casa?
L’uomo
dei taccuini ha cercato, senza riuscirci, di rintracciare nome e indirizzo del
critico. Avrebbe voluto scrivergli, per farlo partecipe della sua gioia di aver
scoperto finalmente qualcuno con cui intavolare una discussione seria sulle
caratteristiche fisiche dei taccuini. E, nello stesso tempo, per rimproverargli
di non saper apprezzare che uno scrittore avesse eletto un particolare tipo di
taccuino su cui annotare i propri appunti di viaggio. Taccuino (e non quaderno)
usato, a quanto pare, anche da Céline e dallo stesso Hemingway, quando non
scriveva sui notebooks con la copertina blu. Probabilmente, se fosse stato
costretto a servirsi di “quaderni trovati sotto casa”, Chatwin avrebbe
rinunciato a prendere appunti o, addirittura, a viaggiare.
L’uomo
dei taccuini vorrebbe illuminare quel critico un po’ troppo severo, fargli
capire l’importanza d’un taccuino ben scelto e indurlo a lavorare con lui ad un
gran progetto sul quale fantastica da tempo: raccogliere in un libro, o meglio
in una serie di libri, le liste dei taccuini usati dagli scrittori, carnets,
cahiers normali e cahiers d’écolier, grands cahiers, petits cahiers con spirale
e no, in moleskine o in semplice copertina cartonnée, registri, registrini,
notebooks, bloc-notes, blocchi stenografici, fogli protocollo o foglietti
sciolti. Prendendo a modello l’ineguagliato inventario valeryano e completando
il catalogo con i taccuini dei pittori, musicisti, matematici, ricercatori,
inventori, architetti, antropologi, archeologi...
Nelle
pause della sua esaltazione egli si rende conto che è un’idea irrealizzabile,
non solo perché destinata a pochissimi lettori, ma anche perché un discorso
globale sui taccuini tende all’infinito, è uno di quei sogni deliranti che i
soliti intellettuali amano chiamare vertiginosi e labirintici. Ma perché non
sognare?
Tornando
alla realtà, uno dei pochi narratori che sa quasi sempre quello che scrive è
Antonio Tabucchi. Se nei suoi racconti un giornalista segue un processo, ha un
“blocchetto per appunti”. Se invece il protagonista sta andando in treno verso
un improbabile appuntamento con una Alice non si sa quanto inventata da lui
stesso, si siede e tira fuori proprio un taccuino, per scrivervi altrettanto
improbabili messaggi. Sempre su un taccuino prende appunti confusi una ragazza
che fantastica su un viaggio in Africa, mentre, in un’altra storia, la
segretaria di uno scrittore appena morto “sedeva con un bloc-notes sulle
ginocchia”. Ma anche Tabucchi cade nella trappola: nella stessa pagina, esattamente
nell’ultima riga, la segretaria “guardava il suo taccuino”(se la frase scorreva
nella pagina seguente, pensa l’uomo dei taccuini, è probabile che lo scrittore
ripetesse “bloc-notes”).
Un
americano che merita grande considerazione è Jack Kerouac, che è stato un
tremendo ubriacone ma anche uno dei pochissimi , assieme ad Hemingway, ad aver
descritto esattamente su che cosa (su che supporto) stesse scrivendo. “Sedevo
là come un idiota al buio annotando la voce delle onde nella pagina del
taccuino (taccuino da segretaria) che riuscivo a intravedere bianca
nell’oscurità e pertanto a scarabocchiarvi senza l’ausilio della lampada”.
Kerouac
scriveva dunque non su un taccuino come dice la traduzione ma su uno di quei
bloc-notes a righe larghe , talvolta usato anche da Valéry, su cui le
segretarie stenografano le parole dei capi. Ubriaco, stenografava le parole del
mare.
L’uomo
dei taccuini ha cercato un’edizione inglese di Big Sur per riscontrare il testo
originale, ma non è riuscito a trovarla in Italia. E ora gli è venuta un’idea:
telefonare a Fernanda Pivano, che tutti concordano nel dire grande amica,
testimone, confidente di tanti scrittori d’America, traduttrice bravissima e
rivelatrice della beat generation agli italiani. E’ stata proprio lei a
scrivere, ricorda l’uomo dei taccuini, che Arnoldo Mondadori, al quale la
Pivano stava sollecitando la pubblicazione di Sulla strada, “tirò fuori dalla
tasca un piccolo taccuino, che per combinazione era proprio come quelli che
adoperava Kerouac per gli appunti”. La Pivano deve sapere tutto sui taccuini di
Kerouac, normali e da segretaria.
La
prima volta che va a Milano, l’uomo dei taccuini cerca il numero della Pivano.
Sull’elenco non c’è e allora telefona al giornale, dove glielo danno senza
problemi.
Risponde
in persona la Pivano.
Sto
cercando, dice l’uomo dei taccuini, un’edizione originale di Big Sur, ma non
riesco...
Certo,
dice cordiale e disponibile la Pivano, subito coinvolta nel problema, in Italia
non la trova, al massimo c’è On the Road, ma che cosa vuol sapere?
Beh,
guardi, vorrei sapere come Kerouac dice in inglese “taccuino da segretaria”:
lei lo sa certamente, anche senza consultare il libro.
Come?...
“Taccuino da segretaria”? (la voce si fa opaca, la Pivano sembra non
ricordare).
Sì,
lei sa, nel capitolo settimo...
Aspetti,
dice la Pivano.
L’uomo
dei taccuini sente passi che si allontanano solleciti. Indovina che la Pivano
sta cercando il libro. I passi si riavvicinano.
Eccomi,
mi dica la pagina.
La
pagina non la so. So quella dell’edizione italiana, di Mondadori, nella
“Medusa”, che non corrisponde certo...
Eh,
ma non si può! Come faccio così a trovarlo? Lei deve dirmi la pagina!
Guardi,
posso dirle solo che nell’edizione italiana è a pagina quarantadue. E’ la
seconda del settimo capitolo, quasi in fondo alla pagina, mi pare.
Signore,
lei mi dice “mi pare, mi pare, quasi in fondo...” E’ troppo approssimativo. Ma
le sembra possibile? Come si fa a trovare?...Io non ho tempo...Mi sono dovuta
inginocchiare per cercare il libro. Non ho tempo per queste...
Ma
intanto la Pivano sta sfogliando le pagine e a un tratto dice: Eccolo! L’ho
trovato: secretarial notebook... Ma a cosa le serve saperlo? (la voce assume un
tono costernato, come a voler dire: ma non mi si può disturbare per una
sciocchezza del genere).
Beh,
mi interessava..., mi interessa tutto quello che riguarda i taccuini.
I
taccuini! Ma che taccuini? (la Pivano si sta spazientendo, forse arrabbiando,
ma la sua voce resta accorata). Senta, signore, la prego, non mi si può
chiamare per queste cose. Mi lasci tornare al mio lavoro.
E
chiude la conversazione.
L’uomo
dei taccuini resta lì con il telefono in mano. Probabilmente la Pivano, deposto
il microfono, avrà mormorato “stupido”, o “rompiscatole”. Ma lui sta solo
pensando a come ha sentito se stesso balbettare al telefono inqualificabili
approssimazioni. Quel “quasi in fondo, mi pare”, che si è lasciato sfuggire! E
pensare che sapeva perfettamente non solo che nell’edizione della “Medusa” la
parola era in fondo alla pagina quarantadue, ma conosceva anche la riga, la
terzultima, vedeva addirittura la posizione esatta della parola stampata! Non
l’aveva detto perché gli sembrava una precisazione inutile, visto che era
nell’edizione italiana. Invece no, bisogna sempre essere precisi, anche quando
non serve. Dev’essere una regola di vita. Si era lasciato andare persino ad un
“mi pare”, che voleva essere il solito modo familiare di dire “credo di sì”,
col soggetto logico nel dativo, una gentilezza discorsiva (che lui non usa mai,
ma stavolta si era sentito in soggezione). Fosse stato più sveglio, meno
intimidito, meno imbranato, avrebbe potuto essere preciso come sempre, sicuro
al millimetro di quel che diceva. Avrebbe potuto anche fare il furbo, prenderla
un po’ larga, chiedere prima qualcos’altro, per esempio come Kerouac avesse
interpretato nell’originale la voce del mare (che, tra parentesi, poteva essere
interessante), oppure com’era il taccuino che usava Mondadori.
Mentre
posa il telefono, l’uomo dei taccuini ha uno dei suoi gesti di stizza. Con quel
suo “quasi in fondo, mi pare” ha fatto una ben magra figura, proprio in
un’occasione così importante. E chissà per quanto tempo gli brucerà.
Gli
sembra incredibile che una specialista come la Pivano non si sia ricordata
subito del “taccuino da segretaria”. Evidentemente, ognuno ha i suoi limiti.
Forse si è arrabbiata proprio perché non si ricordava.
Però
è riuscito ad avere l’informazione che cercava. Le sue indicazioni, alla fin
fine, erano esatte, tanto che la Pivano ha trovato subito la parola. Comunque
sia, un altro tassello è andato a posto.