Il 21 gennaio 2020 alla Società delle Conversazioni e Letture Scientifiche, Genova, si è svolto un incontro dal titolo “Carlo Vita 1925-2019. Cultura e impresa a Genova nel dopoguerra”. Dell’opera variegata e geniale di Carlo Vita (Vita Carlo Fedeli), narratore, poeta, disegnatore, animatore della Galleria del Deposito di Boccadasse, e della sua collaborazione con la Cornigliano-Italsider di Gian Lupo Osti e con artisti come Eugenio Carmi e Flavio Costantini, hanno parlato Massimo Bacigalupo, Stefano Verdino e Marco Doria. Riccardo David ha letto brani dalle plaquettes di Carlo Vita e dai giovanili Versi per versi*, e il racconto Due cose viste, che affronta di sbieco la feroce realtà industriale. I

partecipanti all’incontro del 21 gennaio hanno concluso che la multiforme attività di Carlo Vita, così centrale per il Novecento ligure in tutti i suoi aspetti, più di un dibattito meriterebbe un convegno. Pubblichiamo qui il racconto Due cose viste  per gentile concessione di Marco e Zeno Fedeli. (m.b.)

*http://sebastianozanetello.blogspot.com/2016/04/carlo-vita-ovvero-versi-per-versi.html

Carlo Vita

Due cose viste

Com’è un morto bruciato Emilio lo sa, perché l’ha visto, anzi ne ha visti due, e non è un bel vedere.

Nel senso che una persona bruciata non è il solito morto in pace, ben accomodato vestito e pettinato, steso nel suo letto con le mani congiunte sulla pancia, che pare stia dormendo. Se si ha presente un pezzo di tronco d’albero con quattro rami, che sia stato messo sulla pietra del camino e che, appena preso fuoco, sia rotolato giù in fiamme e abbia continuato ad ardere sul pavimento fino a consumarsi e diventare carbone, e sia rimasto lì, scomposto, quattro stecchi storti attorno a un resto di ceppo, e in cima un grumo nero che è poi la testa: ecco, questo può dare una lontana idea d’un morto bruciato, ma in realtà è peggio. Difficile da guardare senza sentire un fremito di rifiuto in tutta la pelle.

Perché ci si rende subito conto che prima di bruciare quella cosa non era legno, ma epidermide come quella di Emilio, muscoli tendini viscere ossa sangue sentimenti ricordi parole, tutto ciò che è Emilio. Che fa un essere umano vivente e pensante.

Se brucia, diventa quella cosa nerastra, un tizzone spento con quattro propaggini contorte, che sono poi residui di braccia e di gambe ma senza piedi e mani, per non dire delle dita, le prime ad essere mangiate dal fuoco, assieme a naso, bocca, orecchi e, primissimi, i capelli. Mani e piedi sono, se va bene, dei rigonfiamenti informi alle estremità dei monconi.

Come l’abbozzo confuso di un pittore inesperto, che ricordi pressappoco una figura umana. O come uno di quei simulacri di morti che si vedono nelle teche a Pompei. Però là sono bianchi, perché fatti del gesso colato nel vuoto esatto lasciato nella cenere dai corpi dissolti. Qui, invece, sotto la superficie arsa dal fuoco, che si è mangiato ogni dettaglio, resta non il gesso ma – sia pure disseccato e ridotto a oscuro carbone – quello che era sostanza umana, e non si può dimenticarsene.

A questo stanno certamente pensando anche i quattro personaggi riuniti in silenzio in una stanzetta spoglia e pulitissima dell’obitorio, davanti ai due tronchi neri, posati su due tavoli di marmo così come sono stati trovati sul luogo dell’incendio, in fabbrica.

I quattro personaggi sono, nell’ordine gerarchico, il Presidente, l’Amministratore Delegato, il Direttore Generale e il Direttore di Fabbrica. Tutti ugualmente pallidi e dentro sé certo molto turbati, sconvolti da questa visione, anche se restano, secondo la regola di comportamento che vige tra coloro che hanno il ruolo di capi, apparentemente impassibili.

Sostano così per qualche minuto, poi si girano ‒ un paio segnandosi ‒ e tornano all’aperto, dove rispettosamente li attende Emilio, responsabile dell’Ufficio Stampa. Salgono sempre in silenzio sulle macchine blu e se ne vanno.

I due morti bruciati, Emilio, li ha visti prima che arrivassero i quattro, e il suo ruolo gregario non gli ha imposto di restare impassibile. Ha esitato un po’ prima di entrare nella stanzetta dove giaceva quello che restava dei due operai – non due impiegati o due funzionari o due dirigenti, ma due di quelli che è stabilito debbano essere coloro ai quali spetta il compito di toccare con le proprie mani e qualche volta, come qui, con tutto di sé, i materiali che occorre fondere, arroventare, forgiare, sollevare, saldare, avvitare, imbullonare, manipolare nella fabbrica in vista dello scopo comune e finale da conseguire: il sacrosanto prodotto.

Emilio ha sporto il capo oltre la porta, come fa ogni volta che si prepara a un’esperienza nuova, sapendo solo che sarà sgradevole, e s’ illude sempre che, dando una prudente occhiata preliminare, si sentirà più pronto ad affrontare con l’intero proprio corpo l’impatto. Ma quel primo, rapido sguardo è bastato a precipitarlo nell’orrore estremo delle due mostruose cose aliene appoggiate sul marmo solo in pochi punti e per il resto sospese nello spazio, irrigidite, arcuate, secche, contorte dal calore che ha distrutto tutto ciò che fa una persona.

Ha riempito i polmoni e si è obbligato ad entrare. È andato più vicino a quelle forme non forme, e tutta l’aria gli è sfuggita dalla bocca aperta in un grido muto.

Gli è mancato il fiato, e la forza di muoversi. Come non avesse più testa e volontà.

Un rumore proveniente dall’esterno lo ha aiutato a scuotersi. È uscito respirando a fatica. Stavano arrivando, nelle lucidissime auto, i capi.

Bell’eroe. Sullo spiazzo soleggiato davanti all’obitorio, aspettando che i quattro venissero fuori dall’incubo, Emilio aveva ripreso a pensare. Per sentirsi male gli era bastato guardare per un paio di minuti quel che era successo di atroce a quei due sfortunati che avevano condiviso lo stesso suo giogo, ma in condizioni mortalmente rischiose, non nella comoda stanza accanto alla Direzione, concessa a lui. Troppo viziato da una passabile, normale vita, in cui non erano naturalmente mancati momenti spiacevoli e dolorosi, ma ormai metabolizzati dal tempo. Così come sperava avvenisse – benché si rimproverasse subito di sperarlo – anche stavolta. Sarebbe riuscito anzi a convincersi che quel suo malessere fosse stato un modo giusto di sentire e di partecipare al cordoglio, magari servendo alla fine a migliorare lui stesso, a renderlo più serio, più vero.

E poi gli era venuta in mente una fatuità – e l’aveva scacciata con molestia già mentre la evocava, ma ormai era fatta –: quel “fortuito incontro di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo anatomico”, di cui tanto andavano parlando e sentenziando i suoi cari libri d’Arte Moderna.

Bella idea, sovvertitrice di luoghi comuni, gli era parsa – fino a quando non era entrato nella stanzetta –, ma, adesso, gli sembrava una stronzata, non ci vedeva più nessuna dissacrante e divertente bellezza, era solo stupido marcio estetismo. Rifiutarlo diventava, forse, una sorta di riscatto dal senso di colpa che lo stava opprimendo. Ma anche tutto questo, prima o poi, si sarebbe metabolizzato.

Ora Emilio doveva tornare alla sua rassicurante scrivania, e preparare un breve comunicato che spiegasse, con temperato distacco, l’accaduto. Dovuto – stando a quanto sinora emerso – ad una tragica fatalità. Riservando all’autorità inquirente, beninteso, il doveroso compito di accertare la dinamica, la realtà dei fatti.

Com’è un morto bruciato Emilio lo sa, perché l’ha visto, anzi ne ha visti due, e non è un bel vedere.

Nel senso che una persona bruciata non è il solito morto in pace, ben accomodato vestito e pettinato, steso nel suo letto con le mani congiunte sulla pancia, che pare stia dormendo. Se si ha presente un pezzo di tronco d’albero con quattro rami, che sia stato messo sulla pietra del camino e che, appena preso fuoco, sia rotolato giù in fiamme e abbia continuato ad ardere sul pavimento fino a consumarsi e diventare carbone, e sia rimasto lì, scomposto, quattro stecchi storti attorno a un resto di ceppo, e in cima un grumo nero che è poi la testa: ecco, questo può dare una lontana idea d’un morto bruciato, ma in realtà è peggio. Difficile da guardare senza sentire un fremito di rifiuto in tutta la pelle.

Perché ci si rende subito conto che prima di bruciare quella cosa non era legno, ma epidermide come quella di Emilio, muscoli tendini viscere ossa sangue sentimenti ricordi parole, tutto ciò che è Emilio. Che fa un essere umano vivente e pensante.

Se brucia, diventa quella cosa nerastra, un tizzone spento con quattro propaggini contorte, che sono poi residui di braccia e di gambe ma senza piedi e mani, per non dire delle dita, le prime ad essere mangiate dal fuoco, assieme a naso, bocca, orecchi e, primissimi, i capelli. Mani e piedi sono, se va bene, dei rigonfiamenti informi alle estremità dei monconi.

Come l’abbozzo confuso di un pittore inesperto, che ricordi pressappoco una figura umana. O come uno di quei simulacri di morti che si vedono nelle teche a Pompei. Però là sono bianchi, perché fatti del gesso colato nel vuoto esatto lasciato nella cenere dai corpi dissolti. Qui, invece, sotto la superficie arsa dal fuoco, che si è mangiato ogni dettaglio, resta non il gesso ma – sia pure disseccato e ridotto a oscuro carbone – quello che era sostanza umana, e non si può dimenticarsene.

A questo stanno certamente pensando anche i quattro personaggi riuniti in silenzio in una stanzetta spoglia e pulitissima dell’obitorio, davanti ai due tronchi neri, posati su due tavoli di marmo così come sono stati trovati sul luogo dell’incendio, in fabbrica.

I quattro personaggi sono, nell’ordine gerarchico, il Presidente, l’Amministratore Delegato, il Direttore Generale e il Direttore di Fabbrica. Tutti ugualmente pallidi e dentro sé certo molto turbati, sconvolti da questa visione, anche se restano, secondo la regola di comportamento che vige tra coloro che hanno il ruolo di capi, apparentemente impassibili.

Sostano così per qualche minuto, poi si girano ‒ un paio segnandosi ‒ e tornano all’aperto, dove rispettosamente li attende Emilio, responsabile dell’Ufficio Stampa. Salgono sempre in silenzio sulle macchine blu e se ne vanno.

I due morti bruciati, Emilio, li ha visti prima che arrivassero i quattro, e il suo ruolo gregario non gli ha imposto di restare impassibile. Ha esitato un po’ prima di entrare nella stanzetta dove giaceva quello che restava dei due operai – non due impiegati o due funzionari o due dirigenti, ma due di quelli che è stabilito debbano essere coloro ai quali spetta il compito di toccare con le proprie mani e qualche volta, come qui, con tutto di sé, i materiali che occorre fondere, arroventare, forgiare, sollevare, saldare, avvitare, imbullonare, manipolare nella fabbrica in vista dello scopo comune e finale da conseguire: il sacrosanto prodotto.

Emilio ha sporto il capo oltre la porta, come fa ogni volta che si prepara a un’esperienza nuova, sapendo solo che sarà sgradevole, e s’ illude sempre che, dando una prudente occhiata preliminare, si sentirà più pronto ad affrontare con l’intero proprio corpo l’impatto. Ma quel primo, rapido sguardo è bastato a precipitarlo nell’orrore estremo delle due mostruose cose aliene appoggiate sul marmo solo in pochi punti e per il resto sospese nello spazio, irrigidite, arcuate, secche, contorte dal calore che ha distrutto tutto ciò che fa una persona.

Ha riempito i polmoni e si è obbligato ad entrare. È andato più vicino a quelle forme non forme, e tutta l’aria gli è sfuggita dalla bocca aperta in un grido muto.

Gli è mancato il fiato, e la forza di muoversi. Come non avesse più testa e volontà.

Un rumore proveniente dall’esterno lo ha aiutato a scuotersi. È uscito respirando a fatica. Stavano arrivando, nelle lucidissime auto, i capi.

Bell’eroe. Sullo spiazzo soleggiato davanti all’obitorio, aspettando che i quattro venissero fuori dall’incubo, Emilio aveva ripreso a pensare. Per sentirsi male gli era bastato guardare per un paio di minuti quel che era successo di atroce a quei due sfortunati che avevano condiviso lo stesso suo giogo, ma in condizioni mortalmente rischiose, non nella comoda stanza accanto alla Direzione, concessa a lui. Troppo viziato da una passabile, normale vita, in cui non erano naturalmente mancati momenti spiacevoli e dolorosi, ma ormai metabolizzati dal tempo. Così come sperava avvenisse – benché si rimproverasse subito di sperarlo – anche stavolta. Sarebbe riuscito anzi a convincersi che quel suo malessere fosse stato un modo giusto di sentire e di partecipare al cordoglio, magari servendo alla fine a migliorare lui stesso, a renderlo più serio, più vero.

E poi gli era venuta in mente una fatuità – e l’aveva scacciata con molestia già mentre la evocava, ma ormai era fatta –: quel “fortuito incontro di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo anatomico”, di cui tanto andavano parlando e sentenziando i suoi cari libri d’Arte Moderna.

Bella idea, sovvertitrice di luoghi comuni, gli era parsa – fino a quando non era entrato nella stanzetta –, ma, adesso, gli sembrava una stronzata, non ci vedeva più nessuna dissacrante e divertente bellezza, era solo stupido marcio estetismo. Rifiutarlo diventava, forse, una sorta di riscatto dal senso di colpa che lo stava opprimendo. Ma anche tutto questo, prima o poi, si sarebbe metabolizzato.

Ora Emilio doveva tornare alla sua rassicurante scrivania, e preparare un breve comunicato che spiegasse, con temperato distacco, l’accaduto. Dovuto – stando a quanto sinora emerso – ad una tragica fatalità. Riservando all’autorità inquirente, beninteso, il doveroso compito di accertare la dinamica, la realtà dei fatti.