Jean Montalbano
Violino, Kosher Nostra
A chi oggi nelle sale da concerto applaude di
tutto andrebbe ricordato quanto Alberto Cantù riporta nel suo Jascha
Heifetz, l’imperatore solo (Zecchini Editore, 2007) : nell’Israele
dell’immediato secondo dopoguerra capitò al riservato e, benché olimpico,
torturato violinista d’origine lituana di essere inseguito, e non per
l’autografo, solo per aver messo in programma Richard Strauss (non Wagner). Per
il resto una carriera concertistica (documentata via via su cera, 78 giri,
ellepi) iniziata in età prepuberale in una Russia presovietica e cresciuta fino
a vette intimidenti (per i tanti rivali) lungo oltre un sessantennio, grazie ad
uno strumento che, è stato sottolineato, più del piano “fa” il fanatismo.
Posava sul palco con la
spietata naturalezza del killer: dopo l’indugiare tardo-romantico, le sue
interpretazioni esibivano una sfrondata asciuttezza che non penalizzava il
canto, lucido e spedito, nell’assoluta trasparenza. Qualcuno provò a demolirlo,
per esempio Virgil Thomson che lo definì “essenzialmente frivolo”, ma la cosa
trovò poco seguito stante l’ammirato stupore provocato nei suoi stessi colleghi
ed eredi, la maggioranza dei quali correligionari provenienti da quel medesimo
est europeo da lui abbandonato (solo in tal senso, scherzando, si parlava di
una “cosa nostra” dell’archetto). In anni di facili schieramenti, i suoi cachet
subito rispettabili, se non la squisita
sottigliezza dell’intonazione, imponevano la deferenza anche al più scettico
dei melomani. Stabilita una base in California, intorno a L.A., sfiorò quella
cultura e quel cinema che a volte lo coinvolse in films tutti musica e buoni
sentimenti (né andranno dimenticate le sue sorprendenti riduzioni di testi
gerschwiniani o più dichiaratamente jazz). Heifetz ne ricavò, nel 1929, un
matrimonio con l’ex signora King Vidor, e mentre altri pativano la fatidica
“crisi”, lui, prima del (noto ai rockettari) “million dollar quartet”, formò
insieme a Rubinstein e Feuermann, un esplosivo trio da un milione di dollari.
Detto che l’incontro
con illustri bacchette, tipo Toscanini, o con illustri pianisti ridotti ad
“accompagnatori” (per auspicate “definitive” Sonate a due) non diede i frutti
sperati confermandone la grandezza solistica prevaricante e poco dialogante,
Cantù ne ribadisce serenamente da un lato la costante ed esemplare eccellenza
interpretativa e dall’altro l’umbratile riservatezza propria di chi si ritrae inorridito
dall’onnipervasivo star-system.
“La Bave”, Septembre 2007