Eric Stark

I vinai della Commune

 

Mathieu Leonard: L’IVRESSE DES COMMUNARDS. Prophylaxie antialcoolique et discours de classe (1871-1914). Lux Éditeur, 2022

 

Sulle tracce delle “cantiniere” che utilmente accompagnavano le truppe anche per accenderne la combattività, già ci si era interessati alla funzione politica del vino nell'ambito della Rivoluzione Francese e adesso il testo di Mathieu Léonard, L'ivresse des communards, torna scrupolosamente sulle malefatte della Commune parigina e su uno dei suoi instrumentum regni, secondo gli avversari: la bottiglia. A detta di questi ultimi, la trivialità dell'alcol sviliva e smascherava la sbandierata idealità eroica degli insorti. Paul de Saint-Victor, evocando il vecchio della montagna che utilizzando l'haschisch comandava le gesta dei suoi adepti, addossava all’eccitata Commune e alla bottiglia la responsabilità di tante inutili morti di imbecilli abbruttiti dall'alcol e mandati a farsi massacrare, nel sospetto di un delirium tremens, dalle truppe regolari di Thiers. Ubriachezza spinta, certo, ma che, secondo l'interpretazione reazionaria, facendosi indice di decadenza morale, intaccava in varia misura tutto il corpo della Francia. Alla leggenda nera, oltre che la stampa, diede sostegno la letteratura medica impegnata nella sua lotta contro l'alcolismo e a sostegno delle crociate per la temperanza.

Per i versagliesi di Thiers, avvistare sciami di federati avvinazzati e deboli di mente permetteva di giustificare, senza eccessive remore, i massacri inescusabili che misero fine alla Commune, ma tutto sommato, documentazione alla mano, l’autore non considera l’ubriachezza un fattore determinante della sconfitta militare dei comunardi, preferendo inserire quella già annosa controversia nel più ampio contesto della lotta francese all’alcol e nel progressivo imporsi di tesi eugenistiche e neomalthusiane, da cui non furono indenni nemmeno settori anarco-libertari della pubblica opinione. Insomma, è ancora il lavoro, non la guerra, ad essere la maledizione delle classi bevitrici.

Di certo, oltre i facili slogan tipo “Meglio assaltare una cantina che la Bastiglia”, Léonard nota come, anche per le imperizie di una logistica improvvisata, durante l'assedio di Parigi scarseggiarono pane e latte e non mancarono vino e alcol di ogni gradazione. Se nel 1866, Pasteur, nei suoi Studi sul vino, sosteneva essere il vino la bevanda più sana e igienica, a fronte soprattutto di un’acqua-contenitore di batteri patogeni, in seguito tal Edgar Rodrigues potrà scrivere della Commune come di un carnaval rouge, minimizzando l’efficacia dei decreti (firmati da Vallès e Pouget) volti a mantenere il soldato repubblicano sobrio e casto essendo l’ubriachezza vizio degli eserciti monerchici, tenuto conto però che il vino è una “bevanda igienica” (più dell’acqua raramente potabile) e fa parte dell’alimentazione dei malati, oltre a colmare le carenze caloriche dei più poveri.

Già erano state avanzate letture mediche della rivoluzione del 1848, miscuglio di delirio psichiatrico e idee democratico-comuniste, parlando di “febbre di rivolta contro ogni principio d’autorità” e di una malattia democratica, germe di tutte le rivoluzioni. Secondo alcuni scienziati si trattava di un’epidemia morale che portava il nome di socialismo e di democrazia, malattia grave, cronica di un proletariato di cui bisognava studiare profilo patologico, sintomi e anatomia.

In questa colorazione razziale degli antagonismi sociali rientrava la rilevanza alcolica attribuita alle intemperanze dei comunardi, con l’acquavite, “la bevanda dei miserabili”, a sostituire spesso e pericolosamente il vino tra le abitudini delle classi inferiori. Volendo depotenziarne la minaccia sociale, la sfida igienista contro l’alcolismo, che guastava prima d’ogni cosa le classi lavoratrici, mirava al miglioramento della specie umana, e innanzitutto della razza francese. Da molti anni si denunciavano i danni sociali e sanitari dell’alcolismo (in quanto abuso di vini e liquori) e le statistiche, tra l’altro, ponevano il tasso di cirrotici in Francia al primo posto, mentre alcuni igienisti sospettavano che la tubercolosi si “prendesse” al zinc, al bancone. Comunque, pur interessando tutte le classi sociali, è in quelle inferiori che l’alcolismo dispiegava i suoi dannosi effetti, è tra la classe operaia, numerosa e miserabile, che diventava minaccia ai buoni costumi e all’ordine pubblico. Nelle teste calde degli avvinazzati dei bistrot e cabaret fermentavano idee che incendiavano le strade portando il buon padre di famiglia a degradarsi nel ruolo detestabile del cospiratore.

Secondo una interpretazione alienista, le truppe insurrezionali, composte in maggioranza da folle popolari, accoglievano individui doppiamente irresponsabili sommando il comportamento patologico delle folle agli attributi delle classi viziose e degli incolti, fino a comporre l’immagine della Commune come «monstrueux accès d’alcoolisme aigu». Poco alla volta la Commune diventava un campo d’applicazione delle teorie deterministe sulla patologia ereditaria: si trattava non tanto di capire le motivazioni delle classi lavoratrici, quanto di ricondurre l’esito brutale della Commune alla fatalità della follia e dei mostri psichici, impedendo che si potessero ripetere ulteriori assalti insensati all’ordine sociale. Nella follia morale della Commune, recita quella tesi, l’agente eccitante di tutte le perversioni del cuore, l’alcol, ha svolto un ruolo immenso. Trascinatori e suggestionati, caporioni e sobillati erano spinti al parossismo distruttivo e folle dalle grandi quantità di bevande alcoliche consumate svuotando le cantine e i depositi delle abitazioni, ville o conventi in cui penetravano. Non erano i fanatici del Terrore e del 1793, cui ancora si concedevano tratti d’integrità e ascetismo morale, ma solo i perversi, ambiziosi e orgogliosi della peggior specie, tutti in diversa misura alcolizzati.

Edmond Goncourt associava Jules Vallès alla bohème delle brasseries in una città dove i cabaret svolgevano l’ufficio di club rivoluzionari; è lì che la convivialità si era affermata pienamente senza bisogno di penetrare nei santuari dell’assenzio, il cui consumo comunque si era democratizzato a partire dagli anni 60 accompagnandosi a crescente nocività dovuta alle falsificazioni e adulterazioni (metanolo, ossido di rame, ecc) nelle misture a buon mercato. (Al proposito, qualche anno dopo, ancora una volta, non mancherà di dire la sua il solito Drumont che, basandosi sulla partecipazione azionaria di una famiglia ebrea in una delle tante aziende produttrici di aperitifs, invocherà la minaccia juive alla salute dei bravi francesi, originando la nascita di assenzi antigiudei).

Una crociata per la riforma non solo morale della classe operaia, dai toni prima sommessi e poi sempre più accesi, precedette dunque e seguì le accensioni comunarde. Ricondotte all’azione di pazzi demagoghi che si trascinavano dietro una folla di creduloni abbruttiti dall’alcol, delle idee della Commune s’interessarono medici riuniti in accademie sotto il cui impulso l’ubriachezza diventò problema politico e materia di sollecita legislazione: una legge, come quella del 1873, avrebbe represso l’ubriachezza sulla pubblica strada, tenendo a distanza un eventuale ritorno del contagio rivoluzionario. L’igienismo, così declinato, avverso al morbo democratico divenne scienza di governo, nelle varianti che vanno dall’igienismo filantropico all’eugenismo razzialista alla Gobineau. Pasteur in una lettera qualificò i fatti della Commune come i Saturnali di Parigi e raccogliendo la sfida patriottica dopo la disfatta di Sedan creò nel 1876 una “birra revanscista”, fornendo ai birrai lieviti artificiali per facilitarne la fermentazione: birra, sidro e vino sono antidoti all’alcol, nella ferma convinzione che con due bottiglie al giorno non si diventa alcolizzati.

Il dottor Gustave Le Bon, elitista ormai disingannato, classificava alcuni episodi della Commune tra gli atti delle folle criminali, segnalando con la diffusione delle idee socialiste da un cabaret all’altro l’avvento nella vita politica delle classi popolari e la loro inevitabile trasformazione in classi dirigenti. Il cabaret aveva sostituito la Chiesa divenendo luogo di risentimento sociale: lì si diventava invidiosi, cupidi, rivoluzionari e scettici, “comunisti in fin dei conti”. Per contagio e ripetizione vi si consolidavano e diffondevano le concezioni operaie, al banco del vinaio s’intossicava l’operaio della grande città esposto al malsano cameratismo delle osterie.

Se l’alcolismo (come la tossicomania) nelle classi privilegiate, vivacchiava nel confort e nella discrezione, al riparo di sguardi riprovatori, tra le classi popolari si accompagnava a forzata visibilità e clamore. Come se un modello comportamentale si degradasse nel suo diffondersi e calarsi, dagli ufficiali dell’esercito e dall’agiato borghese, tra la classi inferiori; finché sul finire dell’ottocento, uno sconsolato medico igienista scriverà che oramai l’operaio vuole imitare la classe borghese, il commerciante, il commesso viaggiatore, l’impiegato, i quali, a loro volta, avevano imitato l’ufficiale. “oggi, concludeva, l’aperitivo ha invaso le campagne”.

Quando l’alcolismo, vettore di follie, vizi e raptus minacciava di far regredire una nazione, eugenisti e neomalthusiani, anche interni ai circoli anarchici e libertari, si sentirono chiamati ad intervenire per arginarne i danni, a rischio di scontrarsi con la potente fazione vitivinicola. Nel contesto del più ampio conflitto mondiale a farne le spese nel 1916 sarà anche Miguel Almereyda, il cui giornale Le Bonnet rouge, riceveva finanziamenti da un lobbista degli alcolici, direttore del Courrier viticole, nel tentativo di contrastare i fanatici della Lega antialcolica. Un barcamenante Almereyda sosterrà che il flagello dell’alcolismo non è dovuto al commercio, di per sé onorevole, delle bevande. Commercio che è un ramo della prosperità nazionale e dà un apporto considerevole alle finanze nazionali.

Per “Fogli di Via”