Gianfranco
Baruchello
Emilio Villa (1914-2003)
un ricordo
25 gennaio 2003
La settimana scorsa il
poeta Emilio Villa è stato sepolto nel cimitero toscano di Sant'Angelo. Solo
tre amici erano presenti. Malato, intristito dalla condanna a una vecchiaia
muta (ma invece della bocca parlavano il suo sguardo e i suoi gesti), Emilio
aveva subìto anche laffronto fisico dell'amputazione di una gamba, operazione
chirurgica alla quale, dopo pochi giorni, è seguita la morte. La morte altrui è
sempre la prova generale della nostra e sempre assistiamo alla fine,
soprattutto degli amici, con uno sgomento quasi fanciullesco che non serve a
nulla e a nessuno e che fa desiderare rimedi quanto mai materiali e generatori
di oblio. Si libava col vino sulle tombe dei lontani padri e ancor oggi
occorrerebbe non offrire fiori ma portare vino da mescere ai partecipanti al
lutto. Credo che a Villa un rito del genere sarebbe andato a genio e forse
anche offerte di cibo a Thanatos le avrebbe approvate, lui amante delle cose
sapide e vere della vita. Solo, in un angolo di un piccolo ristorante di Rue du
Bac, Emilio sedeva solitario e vorace davanti a un piatto con su una trota (o
forse era un «filet de hareng»?) quando nei primissimi anni sessanta io l'ho
incontrato per la prima volta. Emilio era amico dei pittori e a questi portava
anche fortuna con quel suo umore che esprimeva in versi di accompagno e di
presentazione. Pure a me vaticinò eventi che poi realmente successero per il
meglio: l'America, i musei, un briciolo di gloria. Ardente vate ma fustigatore
di supposti tradimenti. Guai a essere anche amico di x o y (suoi effettivi,
immemori epigoni o comunque debitori), ti fulminava per iscritto. Salvo poi
ri-amarti alla prima occasione: ovvero all'ultima, quando mi scoccò un bacio,
lui già colpito dal male, prima di ritirare un premio letterario per il quale
lo avevo proposto. Fu l'ultimo fugace incontro, prima della scomparsa di Nelda
(l'anno scorso) che lo ha lasciato tragicamente solo.«E tu dirai beh ma che
c'entra tutto questo? Eh se centra...», mi vengono in mente ora questi suoi
versi. O meglio: che c'entro proprio io a scrivere, su richiesta, un ricordo di
Emilio? Perché - grande poeta dimenticato (ma non da chi lo conobbe e sempre lo
amò) - egli sia da ricordare oggi a opera di un artista anziché, com'è e sarà
giusto, della critica, degli storici della letteratura e degli editori (questi
ultimi tutti assenti ingiustificati); questo l'interrogativo che mi pongo. Ma
forse una ragione la trovo, al di là dell'affetto e della mia complicità di
frequentatore/produttore di linguaggi e immagini «deliberatamente oscure di
significato». Sono seduto infatti adesso a un grande tavolo nel silenzio totale
della campagna che circonda il mio vecchio studio, la mia precedente dimora,
che dal 1998 è diventata una fondazione che porta il mio nome. Intorno a me la
mia vecchia biblioteca è ora cresciuta fino a raddoppiarsi. Tra gli scaffali di
questa ce ne è però uno - qui davanti - che contiene tutto quello che Emilio ha
lasciato di scritti editi ma soprattutto inediti: vecchie cassette di vini
gremite di foglietti, brandelli di carta strappata a libri, buste usate con
indirizzi e francobolli ricoperti dalla sua grafia svelta, stenografica.
Tantissimi versi da leggere, catalogare, confrontare con possibili edizioni
anche qui presenti (centinaia di cataloghi di pittori, edizioni di avanguardia,
fogli/manifesto ripiegati, piccole riviste scomparse). Ma anche una serie di
scatole da scarpe contenenti schede con annotazioni multilingui, materiali per
un progetto di un grande dizionario etimologico e - altro progetto - di un
dizionario di carattere mitologico. Inoltre scatoloni colmi di cartelline,
fogli sciolti o raggruppati di versi su cui - emozione e pena nel decifrarli -
sono tracciati con mano tremante e non più controllata titoli fatti di
incomprensibili sigle o parole che sembrano inesistenti. Nei materiali figurano
testi in italiano, inglese, greco, spagnolo che si affiancano a studi e
traduzioni che presupponevano la conoscenza dell'antico ebraico. Un coacervo
quindi che richiede grande lavoro di selezione e conservazione, che la
Fondazione Baruchello cura sotto la guida di un comitato, costituito - insieme
con il figlio di Emilio, Franco (un fisico che risiede negli Stati Uniti) - da
Aldo Tagliaferri, Nanni Balestrini, Carla Subrizi, e da me. Il comitato e la
fondazione ne faranno oggetto di studio per studenti o studiosi provenienti da
tutto il mondo. Con la costituzione di questo Fondo Emilio Villa» intendiamo
contribuire alla conoscenza di un'impresa intellettuale che ha segnato
profondamente la letteratura e l'arte del nostro paese e che ha stabilito nessi
sia con le esperienze delle prime avanguardie novecentesche sia con le remote
culture che si situano alle origini della storia europea. Tagliaferri e Balestrini
sono le uniche persone che possono affermare di essere state amiche di Emilio e
concreti sostenitori della sua opera. Villa, infatti, ignorato dagli altri
editori italiani, è stato pubblicato da Feltrinelli, auspice Balestrini, che ne
era il direttore editoriale negli anni sessanta-settanta, e ha avuto in
Tagliaferri qualcuno di più di un amico e di uno studioso. Aldo è stato infatti
sempre la persona del mondo letterario più vicina a Emilio e, in particolare,
nell'ultima fase della vita di questo, si è portato più da figlio che da
critico. Uno dei tre presenti al funerale è stato lui, ed è stato lui, poco fa,
a dirmi dei malinconici dettagli della sepoltura. Negli ultimi anni Tagliaferri
ha pubblicato testi di cui si ignorava l'esistenza, come quelli sull’arte
dell'uomo primordiale, e mi ha comunicato di averne trovati altri che, quando
saranno resi noti, ci permetteranno di valutare meglio la straordinaria
complessità dell'intero opus. Sfoglio adesso l'ultimo libro di Emilio Villa, Le 12
Sybillae, edito appunto a cura di Tagliaferri presso l’editore Michele
Lombardelli. Sono poesie a cavallo tra latino e italiano, manoscritte a formare
qualcosa di più di un testo, un bel documento visivo tra scrittura e grafismo
pittorico, nel leggere il quale mi appaiono le antiche cadenze dell'esametro
intervallate da colpi mozzi di prosodie inventate intorno ad allitterazioni di
significato duplice o irriverente. Qui e là un intarsio di parole greche e più
oltre quattro versi che leggo a caso e che sembrano giustificare quanto prima
mi veniva in mente a proposito di onoranze funebri: Oinonque Vinumque /
Ubicumque Syllabavit / Auspicia ad Edunda / In Unda Tremorum. Ma da dove veniva
questa sua scienza di scrittore e traduttore da antiche lingue? Villa (era del
1914) aveva studiato in diversi seminari lombardi e aveva proseguito gli studi
di filologia semitica all'Istituto Biblico di Roma, dove si era specializzato
in assiro-babilonese e in ugaritico. Questo suo sapere è stato all'origine
della traduzione dell'Odissea e soprattutto di quella
della Bibbia, impresa gigantesca durata tutta una vita. Come ogni
traduzione delle Sacre Scritture, questa sarà certamente un giorno oggetto di
dibattito e di critiche, ma costituirà un fondamentale contributo alla prosa
italiana del Novecento. Emilio, di ideali anarchici, è stato un grande
indipendente che ha «rivoluzionato» la poesia attraverso una serie di
pubblicazioni che, trascurate se non ignorate dai più, sono oggi considerate
rarità letterarie. Uso di proposito il termine «rivoluzionario» come il più
adatto a descrivere i modi e gli effetti della sua azione. Mentre tanti
letterati e pittori si sono avvalsi dell’effimero sostegno delle ideologie,
Villa ha seguito un suo percorso realmente innovativo. Ha precorso i tempi,
ponendo in rilievo la centralità dei fattori linguistici nella faticosa ricerca
di un'arte che non camminasse sui trampoli di teorie precostituite. Il suo
grande interesse per l'arte contemporanea derivava dalla esperienza di lavoro
in Brasile (nei primi anni cinquanta) presso il Museu de Arte di Sa Paulo di
cui è traccia nell'opera Attributi dell'Arte Moderna (1947-67).
Nel dopoguerra Emilio Villa si era schierato per le nuove forme d'arte quando
la sinistra ufficiale, in polemica contro gli «scarabocchi» dell'arte astratta,
sosteneva il «realismo socialista». Nonostante la grande stima che sempre aveva
professato per Breton, non ne seguì l'esempio ed evitò di associare il destino
dell'arte al futuro del socialismo reale, così come da giovane aveva rifiutato
sia il nazionalismo militarista che le argomentazioni teologiche con cui erano
stati posti ostacoli alla sua libera esplorazione dei testi biblici. Oltrepassò
così gli sbarramenti artificiali eretti dalla cultura istituzionale ed entrò
presto in collisione con la critica d'arte ufficiale. Fu tra i primissimi a
difendere non solo Burri e Fontana, di cui notoriamente fu amico, ma anche
Rothko e Pollock, insieme a Rotella, Turcato, Manzoni, Schifano e altri,
diventati poi i maggiori esponenti della nuova pittura. Da questo punto di
vista Emilio Villa, difensore estremo della tesi secondo la quale non c'è
pratica artistica che possa prescindere dall'esercizio e dalla difesa delle
libertà individuali, si colloca tra le figure più rappresentative dell'intera
intricata storia culturale del Novecento. Diciamo dunque addio a lui, anche a
nome di chi non ne ha letto la poesia ma la scoprirà quando a questo grande dei
nostri tempi verrà resa giustizia onorandone la memoria e pubblicandone l'opera
ancora inedita. La poesia non sparisce, emerge, ritorna a fiorire nella mente
dell’uomo perché, per citare Emilio Villa, è come un filo d'erba che vuol
crescere / sollevando il pietrame che lo pigia.
“Alias-Il manifesto”, 25 gennaio 2003