Con
queste brevi segnalazioni, tratte da “La repubblica”-edizione ligure,
Cronemberg, Malick, Avati
A HISTORY OF VIOLENCE (Canada, 2005) di David Cronenberg,
con Viggo Mortensen, Maria Bello
I fans di Cronenberg sono rimasti un po’ stupiti davanti a quest’ultimo
film del regista di “Crash” e “Videodrome”, che
abbandona le sue abituali rotture stilistiche per guardare invece alla nettezza
di scrittura di certi western o gangster film anni ’50. Al
centro della vicenda, un tranquillo padre di famiglia che un giorno affronta
nel suo bar di provincia due serial killer, uccidendoli con precisione
sospetta: puntualmente, arriverà qualcuno a gettare dubbi su chi sia in realtà quell’esemplare “eroe americano”, innescando un apologo
tagliente sia sul vero volto dell’America, sia sul meccanismo di fascino ed
orrore che la violenza esercita sull’individuo. Il tutto raccontato con
una nitidezza che fa ricordare opere d’altri tempi (“La campana ha
suonato”...), ma che a poco a poco svela dietro l’apparente classicità il
lavoro concettuale del regista: dove la tensione percepita sullo schermo non
scaturisce tanto dal racconto in sé, quanto dal rapporto continuamente problematico tra la regia e il racconto.
THE NEW WORLD (Usa, 2005) di Terence Malick, con Colin Farrell
Lasciamo perdere la leggenda di Terence
Malick, il fatto che abbia diretto solo quattro film
in trent’anni e che si compiaccia di vivere nel
mistero, atteggiandosi a Grande Artista Americano alla Salinger:
tutte queste sciocchezze hanno ben poco a che vedere con la qualità o meno dei
suoi film. L’importante è invece che “The New World” prosegua la ricerca
stilistica di “La sottile linea rossa”, mostrando un gruppo di
inglesi che nel 1607 sbarcano in Virginia, cercano di sopravvivere e si
scontrano con gli indiani: ma uno di loro s’innamora della giovanissima
indigena Pocahontas e dà vita con lei ad un doppio
processo di scoperta di un Nuovo Mondo, dove ciascuno è spinto a rinunciare al
proprio nome e alla propria identità per immergersi nell’Altro. Il tutto
raccontato con lentezze esasperanti e abuso di voce fuori campo, ma anche con
una ricerca di linguaggio, una capacità di catturare la luce e i rapporti tra
spazi e corpi che confermano il cineasta di razza al di là
delle ambizioni smisurate.
Anche se da tempo Pupi Avati s’è
chiuso in un suo cinema malinconico, fatto di piccoli moralismi, nostalgie del
passato e gusto per le cose di pessimo gusto, circola sempre nei suoi film
qualche traccia dell’antica vena bizzarra che lo rende in fondo unico nel
panorama dei registi italiani. Quest’ultimo, ad
esempio, è stato letto come l’ennesimo compitino ben
fatto, con tanti elogi per Albanese e qualche sorpresa per la presenza di Katia Ricciarelli. In realtà ci sono dentro fantasie da chierichetto
perverso assolutamente stravaganti, a cominciare dalla
Ricciarelli che per mangiare gli avanzi di un ristorante va a letto con
un laido cameriere tra le navate di una chiesa post-bellica, oppure viene
spinta tra le braccia dei camionisti dal figlio trafficone (Marcoré),
mentre Albanese è un poveraccio che da una vita spasima per la cognata e ha
finalmente l’occasione di coronare i suoi desideri... Tutto impaginato con lo
stile sciolto e lineare di Avati: film di fantasie
stravaganti e un po’ da sacrestia, dietro un’apparenza convenzionale.