Eric Stark

un altro ventennio nero

 Nelle piazze del commercio culturale dove, festivaliero, ha ripreso a sfilare, sforzandosi di ripetere i fasti di un agorà oggi eclissata dai centri commerciali, il Filosofo si  mostra smanioso di gettar ponti verso quell’ esperienza quotidiana cui spesso ha voltato le spalle. E’ tutto un proliferare di

“Filosofia e…”, “Filosofia di …” che non ha risparmiato, confortati da una tradizione americana più consolidata e disinvolta, l’arte filmica; le nicciane “cose prossime” ovvero quanto era snobbato come cieco e irriflesso, ora sono ritenute degne della fatica del concetto da quelle stesse nostre facoltà universitarie che un tempo rifiutavano tesi di laurea che non ruotassero sul “silenzio di dio” o l’alienazione in Bergman e Antonioni. I buchi sono tanti, il divario è ampio e va colmato senza andar  troppo per il sottile anche traducendo opere che superato il richiamo in copertina (sia esso titolo di film o di serial  tv) sovente non vanno al di là dei risultati acquisiti dai tanti buoni frequentatori di sale senza titoli accademici.

Lo stesso curatore del presente Platone suona sempre due volte (Piemme 2007 a cura di Mark T. Canard ) è responsabile dei precedenti The Simpsons and Philosophy e di W. Allen and Philosophy. Fin dalle pagine iniziali si accenna ad un’ontologia del film noir, ad un’essenza del film noir, ad una concezione della vita condivisa da vari film, ed in seguito più diffusamente si parla di “esistenzialismo” ed altre questioni volgarmente dette filosofiche presenti nei film noir perlopiù a livello di atteggiamenti presupposti, avendo l’accortezza spesso di  tacere i Grandi Nomi, anche se dietro l’argomento evocato si disegna l‘ombra della filiera che da Kierkegaard, attraverso Nietzsche porta a Camus.

I risultati potrebbero non essere scontati quando, come in questo caso, la definizione dell’oggetto stesso, il film noir americano, sia sfuggente, ma resta comunque alla fine della lettura  un senso di insoddisfazione per le tante superficialità e approssimazioni (siamo ben lontani dall’analitica  a volte sfibrante di un Cavell ) che danno l’impressione di voler elevare la materia trattata.

Certo è che intorno ai dilemmi morali dell’individuo ridotto ad atomo vagante, sciolto dalle antiche regole di moralità, si aggira  parte della raccolta di saggi in oggetto; al di là delle ambiguità morali e delle alternative che allettano investigatori o criminali è l’esame dell’esercizio decisionale etico a consentire lo sfoggio, a volte fuori luogo, delle conoscenze filosofiche.

Furono come si sa i critici francesi a coniare la definizione di noir  per un gruppo di film americani prodotti a partire dal 1940 e per forza di cose arrivati, a valanga, sugli schermi francesi solo con la liberazione; dunque un certo marchio di arrovellata pensosità sembra averne accompagnato la visione fin dalla nascita, pur se privilegiando, come in Europa si tende a fare, il ruolo del regista e quindi l’apporto decisivo della diaspora germanica (Siodmak, Wilder, Preminger…), trascurandone le radici realistiche americane, su cui s’innestavano convenzioni europee, si rischiò di rendere il film noir altrettanto americano quanto lo strudel di mele (i danni di tale prospettiva giungono fino all’odierno abuso del  termine appiccicato a qualsiasi affare criminale appena un poco contorto e infarcito di flashback).

Secondo la “teoria dello specchio scuro” il film noir rifletterebbe, con le sue atmosfere cupe e minacciose, la situazione creatasi con l’entrata in guerra degli Stati Uniti ed i successivi prolungamenti nella guerra fredda, allorché si incrina la convinzione di una perfetta compatibilità tra virtù e prosperità.

Più veridicamente, la farina esistenzialistica non andrebbe riportata al sacco sartiano ma al mulino della narrativa hard-boiled che proprio in quegli anni, con la diffusione del paperback, penetrava capillarmente la vita americana.  

Persiste la consapevolezza della difficoltà di ricondurre ad un’origine essenziale il genere noir: si parla di aria di famiglia cui concorrono influenze letterarie (Dreiser, Norris, Lewis ma anche Wolfe) e psicanalitiche, oltre che dell’espressionismo tedesco (ma pure, per l’ultima fase, del neorealismo nostrano) e della slavina esistenzialistica post-nicciana.

Se alcuni accostamenti proposti paiono superficiali quando per esempio mettono occhiali francofortesi a registi che di una sana cecità fanno il proprio punto di forza (rivelatore il non saper “chi ha fatto cosa” dell’Hawks de Il grande sonno), è comunque intorno allo sguardo, alla visione e al venir  meno di un platonismo che molti saggi ruotano: la decisione etica, l’agire dell’eroe scattano nell’economia di un certo non-sapere.

Così se Spade o Marlowe sono immorali da un punto di vista kantiano, la sconvenienza di quegli stessi atteggiamenti concorre alla costruzione di una loro affascinante integrità.

Ma d’altra parte allorchè l’esistenzialismo divulgato mette l’accento sulla scelta e la decisione, molte trame noir sottolineano quanto di fatale e deterministico agiti l’eroe hollywoodiano.

Tutto sommato (ma è una somma ad addendi instabili) è ragionevole sostenere che, memorizzata la lezione del postmodernismo francese, molti autori riconoscono nell’oggetto noir una costruzione critica discorsiva sviluppatasi nel tempo: il film noir non si modella su un essenza ma implica sensibilità percettive, uno sguardo peculiare sul mondo, un tono e un’atmosfera (P. Schrader): lo stile è il senso. Questo vieterebbe secondo alcuni  lo statuto di genere al noir, mantenendolo al rango di familiarità di stile. Insomma, gli americani facevano e vedevano noir senza saperlo; o, cosa più decisiva, facevano filosofia a suon di film.

La morte di dio produce l’esistenzialismo di qua dall’Atlantico, s’illustra come noir in America, dove la contingenza dell’uomo in un mondo eroso negli assoluti morali è presa in carico innanzitutto da una letteratura debordante oltre i  soliti Hammett, Cain, Chandler o Mc Coy  e dal cinema in seguito (perciò si potranno trovare motivi  noir nello stesso western o nel melo).

Caricando l’intuizione e  forte dell’instabilità “classificatoria” del genere, R. Mercer Schuchardt nel suo paradossale intervento propone Il cantante di jazz (1927), in cui verrebbe meno, con l’ultimo cantore sinagogale, il fondamento della legge, come matrice del noir successivo (a prezzo di espungerne il crimine dai tratti distintivi ). Tesi spericolata più dello spingere troppo in avanti la datazione della buona salute di un genere che, se già era fissata da Borde e Chaumeton agli albori degli anni cinquanta, Renato Venturelli, con abbondanti e documentate pezze d’appoggio, allunga fino al decennio seguente nell’ottimo L’età del noir (Einaudi 2007): il suo tondo ventennio rende, in mezzo migliaio di pagine, un bel servizio alle tante curiosità inappagate dei nuovi cinefili già alle prese con il rilancio di un neo-noir più o meno tarantinesco.