Nelle piazze
del commercio culturale dove, festivaliero, ha ripreso a sfilare, sforzandosi
di ripetere i fasti di un agorà oggi eclissata dai centri commerciali, il
Filosofo si mostra smanioso di gettar
ponti verso quell’ esperienza quotidiana cui spesso ha voltato le spalle. E’
tutto un proliferare di
“Filosofia e…”, “Filosofia di …” che non ha
risparmiato, confortati da una tradizione americana più consolidata e
disinvolta, l’arte filmica; le nicciane “cose prossime” ovvero quanto era
snobbato come cieco e irriflesso, ora sono ritenute degne della fatica del
concetto da quelle stesse nostre facoltà universitarie che un tempo rifiutavano
tesi di laurea che non ruotassero sul “silenzio di dio” o l’alienazione in Bergman
e Antonioni. I buchi sono tanti, il divario è ampio e va colmato senza
andar troppo per il sottile anche
traducendo opere che superato il richiamo in copertina (sia esso titolo di film
o di serial tv) sovente non vanno al di
là dei risultati acquisiti dai tanti buoni frequentatori di sale senza titoli
accademici.
Lo stesso curatore del presente Platone suona
sempre due volte (Piemme 2007 a cura di Mark T. Canard ) è responsabile dei
precedenti The Simpsons and Philosophy e di W. Allen and Philosophy.
Fin dalle pagine iniziali si accenna ad un’ontologia del film noir, ad
un’essenza del film noir, ad una concezione della vita condivisa da vari film,
ed in seguito più diffusamente si parla di “esistenzialismo” ed altre questioni
volgarmente dette filosofiche presenti nei film noir perlopiù a livello di
atteggiamenti presupposti, avendo l’accortezza spesso di tacere i Grandi Nomi, anche se dietro
l’argomento evocato si disegna l‘ombra della filiera che da Kierkegaard,
attraverso Nietzsche porta a Camus.
I risultati potrebbero non essere scontati quando,
come in questo caso, la definizione dell’oggetto stesso, il film noir
americano, sia sfuggente, ma resta comunque alla fine della lettura un senso di insoddisfazione per le tante
superficialità e approssimazioni (siamo ben lontani dall’analitica a volte sfibrante di un Cavell ) che danno
l’impressione di voler elevare la materia trattata.
Certo è che intorno ai dilemmi morali dell’individuo
ridotto ad atomo vagante, sciolto dalle antiche regole di moralità, si
aggira parte della raccolta di saggi in
oggetto; al di là delle ambiguità morali e delle alternative che allettano
investigatori o criminali è l’esame dell’esercizio decisionale etico a
consentire lo sfoggio, a volte fuori luogo, delle conoscenze filosofiche.
Furono come si sa i critici francesi a coniare la
definizione di noir per un gruppo
di film americani prodotti a partire dal 1940 e per forza di cose arrivati, a
valanga, sugli schermi francesi solo con la liberazione; dunque un certo
marchio di arrovellata pensosità sembra averne accompagnato la visione fin
dalla nascita, pur se privilegiando, come in Europa si tende a fare, il ruolo
del regista e quindi l’apporto decisivo della diaspora germanica (Siodmak,
Wilder, Preminger…), trascurandone le radici realistiche americane, su cui
s’innestavano convenzioni europee, si rischiò di rendere il film noir
altrettanto americano quanto lo strudel di mele (i danni di tale prospettiva
giungono fino all’odierno abuso del
termine appiccicato a qualsiasi affare criminale appena un poco contorto
e infarcito di flashback).
Secondo la “teoria dello specchio scuro” il film noir
rifletterebbe, con le sue atmosfere cupe e minacciose, la situazione creatasi
con l’entrata in guerra degli Stati Uniti ed i successivi prolungamenti nella
guerra fredda, allorché si incrina la convinzione di una perfetta compatibilità
tra virtù e prosperità.
Più veridicamente, la farina esistenzialistica non
andrebbe riportata al sacco sartiano ma al mulino della narrativa hard-boiled che
proprio in quegli anni, con la diffusione del paperback, penetrava
capillarmente la vita americana.
Persiste la consapevolezza della difficoltà di
ricondurre ad un’origine essenziale il genere noir: si parla di aria di
famiglia cui concorrono influenze letterarie (Dreiser, Norris, Lewis ma anche
Wolfe) e psicanalitiche, oltre che dell’espressionismo tedesco (ma pure, per
l’ultima fase, del neorealismo nostrano) e della slavina esistenzialistica
post-nicciana.
Se alcuni accostamenti proposti paiono superficiali
quando per esempio mettono occhiali francofortesi a registi che di una sana
cecità fanno il proprio punto di forza (rivelatore il non saper “chi ha fatto
cosa” dell’Hawks de Il grande sonno), è comunque intorno allo sguardo,
alla visione e al venir meno di un
platonismo che molti saggi ruotano: la decisione etica, l’agire dell’eroe
scattano nell’economia di un certo non-sapere.
Così se Spade o Marlowe sono immorali da un punto di
vista kantiano, la sconvenienza di quegli stessi atteggiamenti concorre alla
costruzione di una loro affascinante integrità.
Ma d’altra parte allorchè l’esistenzialismo divulgato
mette l’accento sulla scelta e la decisione, molte trame noir sottolineano
quanto di fatale e deterministico agiti l’eroe hollywoodiano.
Tutto sommato (ma è una somma ad addendi instabili) è
ragionevole sostenere che, memorizzata la lezione del postmodernismo francese,
molti autori riconoscono nell’oggetto noir una costruzione
critica discorsiva sviluppatasi nel tempo: il film noir non si modella
su un essenza ma implica sensibilità percettive, uno sguardo peculiare
sul mondo, un tono e un’atmosfera (P. Schrader): lo stile è il senso. Questo
vieterebbe secondo alcuni lo statuto di
genere al noir, mantenendolo al rango di familiarità di stile. Insomma, gli
americani facevano e vedevano noir senza saperlo; o, cosa più decisiva,
facevano filosofia a suon di film.
La morte di dio produce l’esistenzialismo di qua
dall’Atlantico, s’illustra come noir in America, dove la contingenza dell’uomo
in un mondo eroso negli assoluti morali è presa in carico innanzitutto da una
letteratura debordante oltre i soliti
Hammett, Cain, Chandler o Mc Coy e dal
cinema in seguito (perciò si potranno trovare motivi noir nello stesso western o nel melo).
Caricando l’intuizione e forte dell’instabilità “classificatoria” del
genere, R. Mercer Schuchardt nel suo paradossale intervento propone Il
cantante di jazz (1927), in cui verrebbe meno, con l’ultimo cantore
sinagogale, il fondamento della legge, come matrice del noir successivo (a
prezzo di espungerne il crimine dai tratti distintivi ). Tesi spericolata più
dello spingere troppo in avanti la datazione della buona salute di un genere che, se già era fissata da Borde
e Chaumeton agli albori degli anni cinquanta, Renato Venturelli, con abbondanti
e documentate pezze d’appoggio, allunga fino al decennio seguente nell’ottimo L’età
del noir (Einaudi 2007): il suo tondo ventennio rende, in mezzo migliaio di
pagine, un bel servizio alle tante curiosità inappagate dei nuovi cinefili già
alle prese con il rilancio di un neo-noir più o meno tarantinesco.