Jean Montalbano

Velvet Nico

Serge Féray: NICO. FEMME FATALE. Le Mot et le Reste, 2016 | Philippe Azoury - Joseph Ghosn: THE VELVET UNDERGROUND: SWEET SISTER RAY. Actes Sud, 2016)

Negli anni ottanta del secolo scorso cantò-per-comprarsi-stupefacenti-per-continuare-a-cantare ma con una voce sempre più incerta cui erano venuti a mancare gli estremi acuti e gravi. Si accompagnò con instabili bands di giovanotti reclutati tra morente new wave e nascente “gothic” dal momento che risultava via via più improbabile costruire l'intera performance sul solo harmonium dei tempi andati. Con alle spalle un'adeguata potenza di suono potè allora riprendere, con un pizzico di cinismo (e strambe dediche a Baader) le canzoni di Lou Reed, Tim Hardin, David Bowie o Jim Morrison regalando brividi di sublime nello spettacolo della propria rovina.

Era nata a Colonia la vigilia della “notte dei cristalli” e, a dispetto del brillio glamour che per un po' parve accompagnarne i primi passi di modella e le piccole parti d'attrice, quell'iniziale segno infausto ne governò in effetti la non lunga esistenza. Di lei si usa ricordare la particina ne “La Dolce Vita” ( e prima ancora fu con Mario Lanza in un film di Maté) e il suo ingresso per la porta principale nella Factory di Warhol che, ritenendola “bizzarra e taciturna, misteriosa ed europea, vera dea della Luna” (così in POP-ism) per adeguatamente metterla in scena volle un gruppo sufficientemente “laido”, diversamente decadente. Anche allora nulla faceva presagire per lei un'attività in campo musicale sottratta ai segni della provvisorietà e sporadicità, quasi un ripiego da coltivare nelle pause di un impegno cinematografico: muta, e statuaria, appariva già sul palco apparecchiatole da Malanga e Warhol come per distrarre dalle sgradevolezze dei musicisti. (Al gesto velvetiano colto come “catalogo di trasgressioni”, “matrice” di tutto quanto fa moderno s'applicano, in un altro recente testo transalpino, la coppia “inrockuttibile” Philippe Azoury e Joseph Ghosn The Velvet Underground: Sweet Sister Ray , Actes Sud, 2016). Fu dall'incontro che originò “Velvet Underground and Nico” (1967), storico risultato col senno di poi ma all'epoca meteorite scuro e sgradito nello stagno pacificato dell'estate dei fiori. Il tentativo di accompagnare il canto arabeggiante di una beduina con gli stridori di una sirena antiarea venne accantonato per le poco entusiastiche accoglienze e Nico scelse, in mancanza d'altro, di esporsi in una carriera solista in buona parte sotto l'ala produttiva, per quanto riguarda gli albums, del gallese John Cale, anch'egli ex Velvet. Proprio con l'esordio collaborativo di The Marble Index i due segnarono l'abbandono del folklore elettrico ed urbano privilegiato da Lou Reed per una reinvenzione del patrimonio di leggende nere europee e medievali, seguendo (dietro indicazione di Wordsworth) “i mari estranei del pensiero”. Di arcaismi e addirittura di “trilogia alchemica” scrive Serge Féray in un bel volume, Nico. Femme Fatale (Le Mot et le Reste, 2016) nel tentativo di restaurare la visione di Nico, valorizzare la sua scelta dell'Europa ed il suo doppio esilio, ripercorrendo soprattutto il lungo sodalizio con il regista Philippe Garrel culminato nel film “Le Berceau de Cristal” (1976) passando per “La Cicatrice Intérieure” e “Athanor”. Ogni più piccolo indizio è riletto per sostanziare il taglio interpretativo privilegiato dall'autore ma se il retroterra romantico (sia Schubert, Novalis o Blake) può sembrare affidato all'aleatorietà delle letture, va ricordato che l'ex ragazza del Chelsea Hotel girava spesso con Il Libro Egiziano dei Morti sottobraccio. Fu nel concerto scandalo tenuto nel 1974 nella cattedrale di Reims (insieme ai connazionali Tangerine Dream) che la parabola di Nico toccò l'apice, dopo di che la traiettoria discendente risultò inarrestabile lei stessa compromettendo le esigue chances di affermarsi come star in un decennio non ancora abituato (fuori dal circuito folk) a una donna solista, perdipiù accompagnata da un unico esitante harmonium. Strumento non sempre disponibile, talvolta pignorato per saldare altro: difatti, lasciate in America le celebrities alla Ondine o Ultra Violet, a Parigi si era avvicinata al gruppo degli scoppiati che includeva Pierre Clementi o Tina Aumont. Passarono così sette anni da The End...(1974) prima che Nico riuscisse a completare un altro controverso album, ma ormai la sua esistenza era governata da droghe e alcool e via via velleitari furono i propositi di ritorni in grande stile ridimensionati sempre, come si diceva, sulla dura realtà del piccolo cabotaggio di date in club o teatri (anche oltrecortina) popolati da una rumorosa gioventù dark o gotica che quando non la interrompeva o fischiava (sovrastando l'harmonium) stentava a riconoscere nella Santa Teresa delle Tenebre una sorella maggiore. Ancora pochi anni e sarebbe stata, a sua insaputa (e, se ancora in vita, sicuramente riluttante) nome di riferimento per molte voci femminili della “weyrd america” del nuovo millennio. Dopo gli splendidi (in promesse) anni new-yorkesi, fu l'industriale Manchester, più che la solare Ibiza, la testimone di un'impasse da cui nemmeno occasionali e fuggevoli collaborazioni di rango (come con Martin Hannett, artefice di tanto suono scuro dei Joy Division) sarebbero riusciti a strapparla, esiliata nei giri viziosi di un tracciato ormai disorientato.

“Fogli di Via”, novembre 2016