Natalino Bruzzone
addio a Florestano Vancini.
regista dell'Italia civile
Ha lasciato alla sua città, Ferrara che aveva sempre amato e dalla quale
non si era mai staccato, l'incarico di annunciare la sua morte a funerali già
celebrati. Così, in riservatezza e in silenzio , a 82 anni, è scomparso, nella
notte tra mercoledì e giovedì in un ospedale romano, Florestano Vancini, una
firma in regia che garantiva impegno e spettacolo attraverso quella stessa
solidità narrativa che in televisione gli procurò il notevole successo popolare
della seconda serie della Piovra.
Ma quando diresse, era il 1986, il seguito della coraggiosa ed estenuante
inchiesta del commissario Cattani contro le tentacolari ramificazioni mafiose,
Florestano Vancini aveva praticamente archiviato la sua avventura nel cinema,
ripresa soltanto nel 2005 per "E ridendo l'uccise", opera
misconosciuta che invece, collocata proprio nel rinascimentale ducato estense,
può essere individuata come segmento testamentario di uno sguardo
sull'arroganza del potere fotografata dal basso, dalla prospettiva del popolo.
Il medesimo punto di vista che ha caratterizzato il film più controverso in
carriera, Bronte (1972). Il
sottotitolo, "cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai
raccontato", fissa la dimensione di un risorgimento tradito, allestito
lungo la sanguinaria repressione delle truppe guidate da Nino Bixio contro la
violenta rivolta in Sicilia per la riforma agraria. Forza di rappresentazione
non manichea, slancio ideale e civile, moralità, rigore e onestà senza cedere
agli impulsi iconoclasti dell'ideologia hanno sempre segnato le scelte
stilistiche di Vancini attraverso una rivisitazione del "come
eravamo" italiano, iniziato sin dall'esordio nel 1960 con La lunga notte del '43 e proseguito con La banda Casaroli (1962), (1972), Il
delitto Matteotti (1973), Amore amaro
(1974) e chiuso nell'evocazione dell'arcaico universo contadino in La neve nel bicchiere ('84).
L'eclettismo di temi e tonalità nella messinscena sono una qualità di Vancini
che ha esplorato sia la crisi, esistenziale e politica, di un intellettuale di
sinistra, Le stagioni del nostro amore (1966), sia quella, mutuata dal
romanzo di Morselli, di un padre nell'incontro con una figlia cresciuta da
altri. Sentimento ed erotismo, passionalità giovanile e adulta compongono poi
le tessere della problematica psicologica che Vancini ha assestato ai
personaggi quando la sua cinepresa indagava anime e personalità senza staccarle
dalla realtà sociale nella quale erano immerse in maniera conflittuale.
La lunga notte del '43 resta il suo
capolavoro tra la memoria di una strage fascista e la fragilità di un piccolo
mondo borghese, lo stesso che nel dopoguerra sarà trascinato dalla sua viltà
all'ipocrisia di una pacificazione che nasconde compromessi e meschinità.
Con l'addio a Florestano Vancini, continua la dissolvenza priva di ritorno di
un cinema italiano che sapeva raccontare, nel male e nel bene dei suoi astratti
e concreti furori, le trasformazioni e le lacerazioni di un paese anormale e
inquieto prima che lo specchio (lo schermo) dello scontento non si rompesse nel
conformismo buonista di una finzione televisiva votata alla mediocrità
“Il Secolo XIX”, 21
settembre 2008