Marco Ercolani
per un’epica minore. Aurelio Valesi
Aurelio Valesi, poeta e traduttore, ha trascorso la
maggior parte della sua vita a Genova, nel quartiere di Sampierdarena, e
soprattutto nella campagna di Mignanego, ma sono della sua giovinezza alcuni
brevi soggiorni a Torino e Parigi. Ha tradotto Sade, Celine, Balzac,
Klossovski, Apollinaire, Rabelais, Michelet, per edizioni come Feltrinelli,
Sugarco, Il Melangolo. Ha raccolto dal 1984 al 2009 quattordici libri di poesia
e i titoli delle raccolte testimoniano la sua ironica arte della variazione: Annuario,
Archivio, Documenti, Deposito, Silenziario, Stilario, Dopo la fucilata. Verso
il Millennio, I nuovi secoli, Taccuino sottoproletario, Al frantoio del verso,
Il mulino dei giorni, Lustri e decenni, Lavoro poetico. Poeta epigrammatico e
appartato, cinico e beffardo, lirico e filosofico, ha costruito una sua
personale “epica minore” ai margini delle mode e delle correnti letterarie.
Fui senza
gioventù: tutto il vigore / si consumò in un’epica minore, / nacqui al
contrasto e alla dimenticanza / al breve alterco senza rilevanza.
Questi versi inediti di Aurelio Valesi – tra i molti
ritrovati dalla moglie Mirella in un faldone polveroso e dimenticato in
soffitta – siglano in modo esemplare l’avventura esistenziale del poeta.
L’”epica minore” è il regno dell’irrilevanza: il regno in cui il poeta ritiene
di avere consumato l’intera vita, da filosofo non programmatico, da osservatore
privilegiato della propria solitudine, del proprio cupio dissolvi.
Di quel che
resta dell’incendio umano / è fatta la mia vita: veditore / dell’operare altrui
colgo la rosa / miracolata dalle distruzioni.
Valesi ha pubblicato tutti i suoi libri negli anni
della maturità, estraendoli con meticolosa attenzione dai suoi inediti e raccogliendoli
in volume secondo una personale strategia compositiva. Pur scrivendo poesia fin
dall’età di undici anni, ha pubblicato il primo volume di versi solo a
quarantanove, alla fine degli anni
Settanta: nel tempo aveva sempre continuato a scrivere, riempiendo quaderni su
quaderni, ma a un certo punto ha voluto dare un ordine al materiale accumulato,
il che gli ha consentito di stampare 14 sillogi in 25 anni, raccogliendo in
ogni libro due terzi di testi “antichi” e un terzo di “attuali”.
Situato al
centro di nemiche cose / di tutte sono un poco e non rimane / di me stesso che
la periferia.
Valesi si è sempre considerato ai margini
dell’esistenza, un essere “impercettibilmente perso”, uno “scapigliato” della
poesia, un nottambulo non redento. E mai ha smesso di dichiarare la volontà
strenua, il rifiuto estremo a uscire dal proprio “recinto” esistenziale, da
sempre rivendicando per sé la periferia perché la presenza di un centro, la
sola eventualità di un centro, sarebbe stata terrorizzante. Essere “ai margini”
è un veleno dolce ma anche consolante: non impegna, non costringe a scelte. Si
può esistere inesistendo, però non smettendo di scrivere, di scriverne.
Chi mi può più
colpire? Tanto è piena / di fori la mia vita: tanti sono / i colpi giunti a segno.
Non c’è spazio / per altre piaghe, miei diletti arcieri.
[…]
Nei giorni
sordi nelle piogge oscure / densamente m’appago: in questo darsi / inferiore
del mondo mi ritrovo.
[…]
Questo non
esser te non puoi capire / se non hai provato quest’assenza / questo divario
fra la tua presenza / e la tua verità, questo patire.
In questo scacco continuo, prolungato da Valesi nei
giorni della vita e nei libri dell’esistenza, c’è sempre un filo sottile di
compiacimento, una forma “elegante” di masochismo dell’essere, che non lo
lascerà fino agli ultimi anni di vita, trasformandosi in una “maniera” del
tutto personale.
Il panico che
prende al ricordare / quelli che non son più ch’eran vivi / è un po’ la tua
agonia non accaduta: / un presentirla, un segno anticipato
Suggestivo pensare all’influenza di un Cioran meno
programmaticamente filosofico, più liricamente abbandonato a un’accidia
dell’anima. Secondo Gianni Priano, Valesi resta un poeta di “turbolenta
coerenza”, che ripete meticolosamente le sue ossessioni.
Coazione a
ripetere è l’inferno: / paradiso il non fare.
Il lavoro poetico di Valesi si consuma e si affina
dentro questa poesia ritmico-filosofica. Lì inizia e finisce tutto quanto ha un
senso, per lui: nel laboratorio segreto della sua mente. Un poeta dell’Ottocento
russo da lui molto amato, Fedor Tjutcev, scrive: «Sappi vivere solo in te
stesso – / nel tuo animo c’è un intero mondo / di pensieri misteriosi ed
arcani; / il rumore di fuori li stordisce / li disperdono la luce del giorno -
/ presta ascolto al loro canto e taci».
Valesi fa qualcosa di diverso con la sua poesia? Cos’è
la figura del poeta per Aurelio? Questi suoi due versi lo suggeriscono:
Comunichi il
celato a tutti noto / con parole notissime e celate.
Parafrasando una poesia di Lucetta Frisa, grande
amica di Aurelio, vorrei dire che il poeta ha questo compito controcorrente:
trascurare il mondo dei vivi e “parlare solo con i morti, con i folli, con gli
spiriti delle cose balorde e inutili”. E, parlando con questi spiriti,
conservare una propria autentica dignità, anche quando ogni speranza sembra
preclusa. Di questa dignità Valesi è un
ostinato e postumo interprete, come ci ricorda Stefano Verdino: «Valesi
vuole essere un poeta postumo, rifiuta una dinamica di appartenenza del testo
alla vita». Adriano Guerrini, primo critico del poeta, sottolineava l’esigenza
dell’autore di dare, con i suoi “pieni e torniti” endecasillabi, un “ordine al
caos”. E indubbiamente l’ars combinatoria dei libri di Aurelio (sia
nell’originale composizione delle sequenze di ogni silloge sia nella struttura
metrica dei singoli versi) è una strategia compositiva apparentemente semplice
ma sostanzialmente complessa che tende a restituire, a ogni verso, una
ritualità classica, postmoderna e arcaica insieme, la sola in grado di tutelare
il poeta dallo scorrere rovinoso e insopportabile della vita. Valesi
assentirebbe a questo pensiero di Ennio Flaiano su cinema e pittura: «È dunque
sugli schermi (e nei quadri), che la vera vita si volge, e azioni e reazioni si
condensano in ombre e luci, e le filosofie vengono illuminate dalle
composizioni, e tutto si svolge come in un sogno prestabilito. La vita
quotidiana è così affidata al caso ch’io non solo ne ho paura ma anche
ribrezzo».
Escluso brevi soggiorni a Parigi, Aurelio è sempre
vissuto, con riserbo e ribrezzo, alla periferia di Genova, nella campagna di
Mignanego, con la moglie Mirella, in compagnia dei suoi gatti e dei suoi cani,
del tutto appartato dal mondo circostante e dalla società letteraria. L’ictus,
che lo colpì oltre vent’anni fa costringendolo a una seminfermità tra le mura
domestiche, fu determinante nell’accentuare certe caratteristiche del suo
carattere che lo apparentano ad alcuni personaggi della letteratura russa, che
hanno vissuto la loro vita in modo imbronciato e oppositivo, come un’esistenza
superflua. Pensiamo a un racconto di Turgenev che porta proprio questo titolo, Diario
di un uomo superfluo, e a Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, prediletto da
Aurelio fra tutti gli scrittori. Un suo breve aforisma in versi, tratto
dall’ultimo libro edito, è forse la sigla della sua disperata ma anche lieve
poetica: “Son stato un’edizione / riveduta e scorretta della vita”.
Parafrasando il titolo di una celebre commedia di
Hofmannsthal, Valesi è sempre stato un “uomo difficile”: scorbutico e isolato
nella vita privata, non facile a concedere la sua amicizia a nessuno, da sempre
legato all’asprezza della terra ligure, facile alla battuta sulfurea e
spiazzante. Le sue cocciute solitudini si alternavano alle non infrequenti
risate ironiche. Adorava la conversazione, quando era in vena, oppure, al
contrario, si chiudeva in uno scostante silenzio. I suoi versi epigrammatici
dicono e ripetono con insistenza la sua inadeguatezza ad esistere, quasi
sottolineando un certo piacere in questo: piacere come autotrafittura che,
mentre difende dalla vita spaventante, è anch’esso forma di vita, reclusione in
una personale nicchia da prigioniero. Si potrebbe dire che la vita di Valesi è
stata un’“esistenza filosofica”, dove la filosofia è la lucidità di ridurre il
mondo esterno al minimo, e il potere di accrescere la sonda interna
dell’autocoscienza.
Più il tempo
passa più i ricordi sono / simili a sogni: e sogno diverrai / nel ricordo di
chi ti avrà veduto, / prima d’andar con lui nel tempo andato / che non ricorda,
e sogno non diviene.
L’unica
sollecitazione che ha spinto il poeta scrivere sembra essere stata una lunga
conversazione con se stesso. Per il resto, la vita - così come come viene
intesa dall’uomo, progetto, carriera, famiglia – è per lui un incidente, una
sospensione, un irridente “bagno
penale”: lavori forzati a vita nei quali
scrivere le proprie “memorie dal sottosuolo”. Le influenze nichiliste sono
diverse e le letture disparate – letteratura, filosofia, storia. I modelli:
Pascal, Baudelaire, Nietzsche, Dostoevskij.
Dichiara
Valesi, nella sua conversazione con Carlo Romano: «Ero reduce da una
giovinezza-nubifragio e da una rovinosa adolescenza. Ho cercato nell’oscurità
le perdute socialità diurne. A volte in ambienti allucinanti, al limite della
legge (che non infrangevo soltanto per accidia o stolidità). Me ne allontanavo
camminando per nottate intere, percorrendo a volte decine di chilometri (fino e
da Savona, fino e da Rapallo e così via) forse presagendo futuri impedimenti.
Famiglia non ne ho avuto, avendola per decenni, come tanti. Quanto a mia
moglie, è lei che mi ha evitato di uscire di scena anzitempo, digerendo insieme
a me il piattino avvelenato servitomi in precedenza al mio domicilio di
scapolo. Non ho cercato le scapigliature per gusto o principio. Non ho mai
cercato niente salvo me stesso. L’ambiente era quel che era, quello in cui mi
venivo a trovare».
Il
luogo preferito dal flâneur Valesi era Galleria Mazzini, a Genova. Al principio
– 1963-1967 – per ragioni di comodità, dato che abitava nel centro storico. In
seguito per corrispondenza di amorosi sensi, tanto che, come afferma in
un’intervista, «da Sampierdarena (dove mi ero trasferito) scendevo
quotidianamente alla Galleria e ne tornavo, in autobus o a piedi. La galleria è
sempre stata del resto un luogo dello spirito…Per me rappresentava, con la sua
grande volta protettiva, una maternità sottratta e ritardata nel tempo - mia
madre era stata una persona sensibile e intelligente, ma priva dell’energia che
richiedeva il ruolo».
Di
quell’energia Aurelio si riteneva privo. Non essendo “attrezzato
all’esistenza”, viveva scansando i pericoli del vivente. Pur nella sua sfiducia
per la situazione politica internazionale e nel suo cosmico pessimismo per il
destino dell’uomo, Valesi soffriva profondamente i disastri dell’attuale
situazione politica e sociale italiana, una sofferenza che in lui diventava dolore
psicosomatico, conferma di una tristezza senza speranza.
La
mia posizione di amico e di psichiatra potrebbe autorizzarmi a diagnosticare
nel poeta un qualche “disturbo di personalità” che giustificherebbe
clinicamente il suo “ritiro” dal mondo. Io mi sottraggo con decisione a questo
compito: credo che Aurelio, al di là di un’etichetta che definisca il suo disagio,
abbia vissuto e costruito scrupolosamente
una sua risentita e sdegnata volontà di isolamento, un suo polemico voler
“essere” dentro il quieto rifugio della casa e dei libri piuttosto che nella
vita disordinata e volgare del mondo. Questa scelta difensiva, talvolta
incoerente, di “immunità” da disastri esterni e interni, è una scelta forse non
adulta, ma certo caparbia e consapevole, quasi un’ossessione privata.
Un’ossessione che lo ha spinto a osservare con distacco gli altri “vivere”,
come il giovane Tonio Kroger, nel racconto eponimo di Thomas Mann, vede danzare
i giovani da oltre i vetri della sala da ballo e se stesso “scrivere”, irrimediabilmente
lontano dalla loro gioia.
Le
carenze dell’esistere hanno alimentato l’energia di una scrittura originale e
aforistica, ben tornita nel descrivere l’inadeguatezza assoluta del vivere,
munita di una sua lirica scabrezza e di una sua cinica indifferenza. (Ma non
del tutto; Valesi aveva un suo modo di stare in contatto con il mondo: il tifo
per il Genoa fatalmente perdente; leggere le poesie degli amici e sottolineare
a matita i versi migliori: cercare artisti che commentassero con disegni i suoi
volumi di versi; dedicare le sue opere a letterati; a volte chiedere le loro
introduzioni, da Verdino a De Nicola, da Guerrini a Boero, da Rosa Elisa
Giangoia a me stesso, eccetera).
Ma
il poeta ha scansato le trappole della retorica confinando (sconfinando?) la
sua scrittura dentro una classicità che la rimanda agli epigrammi dell’antica
romanità, come fosse lui stesso un Marziale apocrifo, dalle venature sbarbariane,
perché in fondo tutti i tempi si assomigliano e uno vale l’altro, commenterebbe
sarcasticamente l’autore. Se oggi lui fosse presente a una giornata
commemorativa su di lui, non ci risparmierebbe un ghigno sornione e forse si
allontanerebbe dalla sala, non senza provare un certo ambivalente
compiacimento.
Poeti puri uomini da
niente.
Noi,
suoi contemporanei (ma chissà, nessuno può dirsi veramente contemporaneo
dell’arcaico Aurelio), riflettiamo oggi sulla sua opera, che appare più come un
trattato filosofico in versi che come un programmato percorso poetico. Ma
questo trattato minimo è, simultaneamente, un ironico sberleffo al mediocre vivere
comune, una cinica preghiera a qualche dio nascosto e un inno segreto alla
bellezza imperitura della poesia. Anche se
È un mistero intessuto di
chiarezze / l’esperienza vitale, una vecchiaia / fatta di diecimila giovinezze
[…]
Ti alimenti / con i tuoi
fallimenti / ti resta la disgrazia anche nei denti