Preleviamo questo saggio del poeta romeno Stefan Baciu (1918-1993) da un opuscolo de “Il libero accordo” che non reca alcuna data di pubblicazione (ma che deve essere di pochi anni posteriore alla stesura di Baciu, del 1977). L’opuscolo pubblicava inoltre un testo di Mira Baciu Simian (“deceduta nel 1978 a Honolulu” è ricordato nella prima pagina) sulla Fabula di Urmuz (a sua volta riprodotta anche in traduzione nella versione di Stefania Dorigo). Abbiamo alleggerito alquanto la traduzione di Gaspare Mancuso laddove ci è parsa più tortuosa. In appendice riportiamo il testo della Fabula insieme alla versione di Stefania Dorigo proposta dall’opuscolo. Ricordiamo che l’unica edizione completa in volume delle Pagine Bizzarre di Urmuz, a cura di Giovanni Rotiroti, l’ha pubblicata l’editrice Salerno di Roma nel 1999 (le pagine di Urmuz sono 50).

 

Stefan Baciu

Urmuz lanarchico

 

 

Nel numero 586, del 25 novembre 1923, il giornale “Lupta” (la lotta) di Bucarest, Romania, pubblicava in cronaca la seguente notizia: “Oggi alle sette del mattino, venne ritrovato in un bosco presso l’angolo di via Janiu con la via Dem, Ghica, il cadavere di uno sconosciuto. La sua mano destra serrava un revolver, ciò portò alla conclusione che si trattava di un suicidio.

“Il cadavere presenta certe particolarità le quali provano che la morte sopravvenne circa 7-8 ore prima. Dopo una sommaria osservazione su corpo e abiti, venne rinvenuto un documento intestato a D.Dematrescu-Buzau, Via Apolodor 13. le indagini si conclusero con la certezza che il suicida è Dar. Demetrescu-Buzau, scrivano alla Suprema Corte di Giustizia. Le cause dell’increscioso caso sono state riscontrate nella grave malattia della quale soffriva il suicida”.

Fin qui la stampa. In un documento ufficiale dell’Istituto di medicina Legale di Bucarest stava indicato come causa mortis: “nevrotico”.

Ma chi era lo “sconosciuto”,  “regolarmente vestito”,  che stringeva in mano la rivoltella? Dietro l’identità borghese del magistrato della Suprema Corte (in quel tempo era d’obbligo agli scrivani possedere il titolo di dottore) si nascondeva uno dei primi rappresentanti delle nuove inquietudini universali e dell’avanguardia che proprio in quegli anni si soleva chiamare “dadaismo”, poi “surrealismo” e quindi “assurdo”.

Nato il 17 marzo 1883 nella provinciale Curtea di Arges, in Valacchia, il bambino che i familiari chiamarono col soprannome Mitica ebbe un’infanzia normale, ma con un evento d’eccezione, quando la famiglia – cosa allora piuttosto rara, giustificata probabilmente con la necessità di aggiornamento professionale del padre medico – si trasferì per qualche tempo a Parigi.

Dopo il ritorno in Romania, Mitica seguì i corsi della scuola primaria, finché al liceo la sua curiosità e la sua inventiva lo faranno riconoscere a compagni e docenti come l’architetto di imprese insolite che già portavano l’inconfondibile marchio “dada”. Più tardi, l’autore e teatrologo Gorge Ciprian, suo compagno alle scuole secondarie, avrebbe descritto le avventure di Mitica nel dramma Testa d’oca, rappresentato negli anni ’40 al teatro Nazionale di Bucarest con grande successo.

Studente di diritto, Demetrescu-Buzau ottenne il diploma di laurea e, nel 1913, partecipò alla campagna bellica nei Balcani e poi alla guerra mondiale – ciò che contribuì in buona misura al suo ultimo dramma intimo che lo stava conducendo al suicidio quando, appena compiuto i quarant’anni, si andavano pubblicando i suoi testi con grande fortuna presso le giovani generazioni. Gran parte della vita la divise, tragicamente, fra un’amara solitudine in  misere città di provincia, dove disimpegnò la sua professione di giudice, e l’amore per musica e letteratura – praticate con l’ardore del timido debuttante, lasciando un’opera che non supera le 50 pagine a stampa. Le sinfonie che compose sembrano essere perdute per sempre.

L’ ”opera” di Demetrescu-Buzau - conosciuto nel mondo letterario con lo strano pseudonimo di Urmuz, scelto dal poeta Tudor Arghezzi al principio degli anni venti – apparve nel 1922 sulla rivista “Cugetul Romanase” (il pensiero romeno) di Bucarest, ed è ridotta – per quanto ciò possa sembrare incredibile – a una dozzina di testi, un miscuglio difficile da definire: calembour, pittura in parole (ciò che poco più tardi, pure a Bucarest, il pittore Victor Brauner diceva “pictopoesia”), pamphlet, narrazione fantastica, alcune lettere a carattere privato (piuttosto banali e borghesemente affettuose) e una Fabula poetica che definì Cronicari (cronisti).

Fu, innanzitutto, questa breve poesia “assurda” avant la lettre  - all’apparenza totalmente innocente - il primo petardo alla dinamite lanciato in mezzo a una letteratura bucolica, mediocremente tranquilla, nella quale il simbolismo di ispirazione parisien era la voce più osé e meno conformista, praticata con grande successo dal poeta Ion Minulescu. Più tardi Benjamin Fondane l’avrebbe detta “annuncio” dell’avanguardismo romeno. I banditori di un’inquietudine che noi oggi abbiamo il dovere di chiamare “assurda”, furono i compagni di Mitica, i quali, sotto l’usbergo di Ciprian, bazzicavano i bar, i caffè, i ristoranti, i teatri, le strade e i parchi declamando la favola - dietro al cui ritmo infantile e alla cui musica si celava la più pura avanguardia, la violenza e il nulla –  congegnata dall’assiduo frequentatore dell’orchestra filarmonica e scrivano della Corte Suprema di Giustizia, Lic. Demetrescu-Buzau.

Al momento del suicidio di Urmuz erano stati pubblicati unicamente due  dei suoi testi, Palnia  e Stamate e Ismail  e Turnavitu, e ciò fu solo dopo che Tudor Arghezzi scelse lo pseudonimo, dal momento che il magistrato soffriva la cronica paura di esser scoperto letterato, e quindi compromesso, dai suoi superiori, dacché  le sue marionette ridicolizzavano, fino a farne tritume, proprio ciò che i giudici del Tribunale Supremo praticavano.

Dopo la sua morte, la quale causò un forte scossone tra i compagni (ma la stampa e le riviste non pubblicarono alcun necrologio, al di fuori di un breve commento firmato “C”, con tutta probabilità Ciprian), soltanto quattro testi vennero stampati ed è degno di nota che furono riviste d’avanguardia ad osarlo: tre uscirono nel 1925 su “Punct”, edita dal famoso “principe rosso” Scarlat Callimachi, giornalista, libellista, delicato poeta di melanconie provinciali; un altro in “Contimporanul”, i cui direttori erano Ion Vinea e il pittore Marcel Iancu, due dei più decisi promotori delle avanguardie in Romania e in Europa. Ex compagni di scuola, i due, con Samy Rosenstock, pubblicarono a Bucarest, nel 1912, alcuni numeri di “Simbolul”, dove Iancu – figlio di un ricco proprietario tessile - si firmava Maecenos. Insieme a Samy  (o meglio, Samyro, come soleva firmare i suoi pallidi poemi simbolisti), Ianco si mise in viaggio nel 1916 verso la Svizzera, dove fondò con Hugo Ball il Cabaret Voltaire e il dadaismo. Samyro adottò lo pseudonimo di Tristan Tzara, che in rumeno non significa altro che Tristan Paese..

L’ultimo testo che Urmuz aveva consegnato durante la sua vita ad Arghezzi fu Algazy & Grummer (nomi di commercianti pellettieri ben affermati a Bucarest) che uscì nel 1928 in “Biglietti di pappagallo”, l’unico quotidiano esclusivamente letterario d’Europa, forse del mondo.

Lo stesso anno, un giovane irascibile, violento, non conformista che viveva a Bustenari, piccola città della regione petrolifera romena, e che si chiamava Gorge (Geo) Bogza (oggi membro dell’Accademia di Bucarest), pubblicò a Campina (altra città petrolifera) alcuni quaderni d’avanguardia ai quali diede come titolo “Urmuz”. L’uscita di questa rivista segnò, a nostro avviso, il primo indizio della resurrezione urmuziana”.

Giovedì 2 ottobre 1930, un giovane medico militare, il dottor Sasa Pana, editore di “Unu” e figura delle più costanti nella dedizione all’avanguardia (la cui casa a Bucarest ne è  oggi un vero museo mondiale) accennava sulla sua rivista queste parole:

“Abbiamo fatto la prima visita alla signora Ionescu-Buzau, la madre di Urmuz …al fine di sollecitare l’autorizzazione a pubblicare nelle edizioni di “Unu” i testi del figlio. Con una certa emozione entrammo nella casetta dove visse Urmuz e da dove uscì senza ritorno. La madre arrivava dal cimitero e si rallegrò al sapere che ci interessavamo al figlio scomparso da sette anni. Parlammo di lui. Piangendo, ci fece vedere i suoi dipinti. Voronca (il poeta Ilarie Voronca, che andò poi a vivere a Parigi e morì nella resistenza) si mise a piangere. Sentì un peso attraversargli il petto. Vidi la fotografia che la signora Ionesco-Buzau ci promise in dono per il frontespizio. Il libro doveva essere pubblicato presto, in novembre. La signora scrisse anche a una figlia, per sollecitare l’invio di qualche possibile altro scritto.

Dandoci l’agognata autorizzazione disse: ‘Aveva uno stile che non era capito da tutti; come sento che non l’abbiamo conosciuto … . Mi voleva molto bene, ma non mi parlava mai di quel che scriveva. Leggeva molto. Ultimamente, Marinetti’.

Uscimmo dalla via Apolodor 7 sotto la pioggia con Voronca e Bogza camminando senza meta. Ci fermammo davanti a una libreria e Voronca, con voce solenne, parlò come se desse un ordine: ‘Urmuz deve uscire in novembre’. E se ne andò. Tornai a far visita per dare un’occhiata al baule dei manoscritti ed ottenere i dati biografici”.

Fin qui il giornale di Sasa Pana (estratto dal suo libro Nato il 02, pubblicato a Bucarest nel 1973).

Intitolato Algazy  e Grummer, con una fotografia dell’autore e la tiratura di soli 250 esemplari, l’opuscolo curato da Sasa Pana uscì, secondo il colophon, il 28 ottobre 1930 (il cronista di queste pagine compiva il giorno prima i dodici anni di età e poco dopo, in condizioni che non ricorda esattamente, acquistò l’esemplare che reca il numero 140). L’opuscolo conteneva otto prose e la conosciutissima Fabula che Ciprian con le sue “brigate dell’assurdo” e , più tardi, “Unu” avevano trasformato in qualcosa come il primo testo folcloristico dell’assurdo europeo, e che ora circola nel mondo in diverse traduzioni.

I titoli dell’opera di Urmuz portano nomi più o meno autentici di commercianti, avvocati, notai, bottegai, militari, ovvero la borghesia dalla quale egli stesso proveniva. Urmuz li descrive e “dipinge” (non si deve dimenticare che Urmuz era scrittore, musicista e pittore) nella luce surreale di un sole nero, usando una tecnica fino ad allora sconosciuta nella letteratura romena (egli fa in realtà dell’antiletteratura) che si giova del microscopio e della dinamite. Una vera autopsia del cadavere borghese. Ciò che Urmuz ottiene, in realtà, è il dare la sveglia per far scoppiare un mondo che riteneva caduco ed anche ingiusto. Da qui si origina l’avversione di cui l’hanno circondato borghesi e stalinisti, i due poli della reazione.

Nello stesso anno, per la prima volta, l’allucinante prosa di Urmuz valicava la frontiera. Non è una coincidenza che il testo scelto fosse il ritratto dei signori Algazy & Grummer. Il testo approdò a Berlino, sulle pagine di “Der sturm”, la famosa rivista espressionista, nel numero dedicato dall’editore (il critico d’arte e compositore Herwarth Walden, scomparso nei campi stalinisti) all’avanguardia romena.

L’opuscolo edito da “Unu” si vendette assai poco nelle librerie. Fra le esigue recensioni della stampa, va ricordata quella di Lucian Boz (attualmente esiliato in Australia) su “Exelsior” (4 aprile 1931). Boz situava gli scritti di Urmuz a fianco della Saison en enfer e di Igitur y coup dés. Affermerà più tardi: “non passerà molto che l’opera di Urmuz verrà interpretata come un’apocalissi, una redenzione dello spirito; come la reintegrazione nel paradiso del pensiero purificato e reso semplice. In realtà Urmuz soddisfa i bisogni di una gioventù disponibile alla negazione assoluta. Sotto il suo emblema si vive un nichilismo lirico, un’oscillazione fra invenzioni sceniche e verbali, oltre che teoriche e strettamente logiche. Parlando di “negazione” non si può dimenticare che in quei giorni, nella stessa città, un giovane ancora sconosciuto, Eugèn Ionesco, dopo aver pubblicato un libro di poesie, si dedica a scrivere, con rabbia e passione, uno dei più violenti libelli contro la letteratura: Nu (no). Quest’opera stava causando un memorabile scandalo che indusse la Fondazione Reale per le Lettere e le Arti – che l’aveva premiata insieme ad un’altra, firmata da Emil Cioran – a non pubblicarla, cosa di cui si occupò invece l’editrice Vremea. Oggi Ionesco, come Cioran del resto, è famoso dovunque in veste di scrittore  … francese”.

Nell’articolo del ’31, Lucian Boz scriveva delle “acrobazie assurde”, della “lava sotto pressione” di Urmuz, “araldo di una nuova era”. Scarsa attenzione, abbiamo detto, da parte degli altri critici. Le riviste di sinistra ignorarono totalmente il libretto. Sasa Piana lo distribuì in ogni caso nelle librerie della capitale. Tuttavia, a parte il testo di Boz, altri due articoli sono da segnalare. Uno è firmato da Perpessicius - “il difensore della letteratura romena” , critico fine e poeta – l’altro da Mihail Cruceanu – simbolista, compagno di Mitica, testimone di alcune sue  anarchiche imprese. E’ degno di nota un dettaglio: Cruceanu è un vecchio membro del partito comunista, ma il suo testo è rifiutato dalle riviste di sinistra cui lo propone.

I giovani d’avanguardia non avevano a disposizione nessun giornale, opuscolo o bollettino. Il loro entusiasmo lo riversavano sul quaderno speciale di “Unu” - che recava i contributi di Stephans Roll, Geo Bozca, Ilarie Voronca e Sasa Piana – e nella rivista “Radical” edita a Craiova da Costantin Nissipeanu (più tardi autore di alcuni poemi surrealisti). Un altro giovane magistrato della Corte Suprema, il poeta Numa Cartiianu, annotava: “E’ giunto il tempo di risvegliare l’indolenza orientale del nostro ceppo, prendendo noi in mano lo stendardo della purezza”.

Gli anni che vanno dal 1930 al 1940 rappresentano in Romania la fase di una lenta penetrazione dello spirito urmuziano. Migliaia di giovani lo sostengono e ne imparano le maniere. Nel paese esiste un gruppo di poeti e prosatori “urmuziani” nel quale si distingue Grigore Cugler, poi (dopo il 1944) esiliato (visse e scrisse per vent’anni, pressoché anonimamente, a Lima, in Perù, guadagnandosi da vivere come violinista). Ma vanno ancora ricordati Marcel Abramescu, Jonathan X Uramus, Modlov e Victor Valeriu Martinescu.

La fine della seconda guerra mondiale e gli anni del “realismo socialista”, misero una nuova pietra tombale su Urmuz, censurato e silenziato fino al punto che la semplice menzione sulla parigina enciclopedia della Plèiade costò al saggista Virgil Ierunca una campagna di violenti attacchi.

E’ il radicamento di Ionesco in Francia che contribuisce, a nostro avviso, alla universalizzazione di Urmuz – avvenuta comunque non senza certi pittoreschi e significativi accidenti.

Vecchio ammiratore, Ionesco si dedica alla traduzione delle pagine di Urmuz. Nelle lettere che invia a Verbanesco (pittore romeno anch’egli residente in Francia) sottolinea la possibilità della loro pubblicazione in francese. “Ho tradotto Urmuz e scritto una prefazione”, scrive Ionesco il 21 luglio del 1949. Nella lettera c’è un dettaglio che consideriamo di trascendentale importanza, poiché vi si afferma che uno scrittore chiamato Urmuz praticò il dadaismo prima di Dada. Ciò potrebbe spiegare una campagna sotterranea che si fece a Parigi affinché la traduzione non venisse pubblicata. Sono da sottolineare in rosso le seguenti parole: “Non ho altre informazioni al di fuori di quelle che lei ha avuto la cortesia di darmi. Non ho visto Victor Brauner… per indolenza o timidezza. Quanto a Tzara, non lo vedrò. Nella mia prefazione suggerisco che con tutta probabilità si formò nell’urmuzismo”. Per coloro che hanno conosciuto l’ambiente letterario e umano di Bucarest negli anni dieci è ovvio quanto annota ionesco: “l’urmuzismo esistette prima del dadaismo”. Cos’era d’altra parte questo urmuzismo se non il più puro dadaismo senza Tzara?

Quello che accadde a Zurigo, dopo l’arrivo in Svizzera di Samy Rosenstock e Marcel Iancu, fu un’esplosione nel più puro stile urmuzista. Molti atti “assurdi” praticati nel Cabaret Voltaire vennero praticati prima a Bucarest da un gruppo di giovani – integrato da Rosenstock, Iancu, Costin, Vinea e altri – i quali mettevano in pratica quanto l’amico Mitica andava inventando.

Il manoscritto di Ionesco venne rifiutato dalle Editions de Minuti e da quelle del Saggitaire come scarsamente commerciale. Altri addussero lo stesso motivo. Per una mera casualità il manoscritto finì da Gallimard.

Ionesco informa Verbanesco: “Queneau ha letto il manoscritto: ne è rimasto entusiasta e cercerà di pubblicarlo sottoponendolo a Jean paulhan, il quale mi ha chiesto di andarlo a trovare. Mi è sembrato interessato. Anticiperà due racconti sui “Cahiers de la Pléiade” e se la reazione sarà buona solleciterà Gallimard a pubblicarlo”.

Quanto a ciò che più precisamente pensava Ionesco di Urmuz, ecco come lui stesso lo sintetizzava nella lettera del 4 febbraio 1950: “Credo che Urmuz sia uno degli autori più crudeli da leggere. Egli rivela l’irrealtà della nostra organizzazione sociale (e di tutte quelle possibili). Dietro vi è il caos universale, l’assurdo dove finirà divorata dopo aver fatto a pezzi logica e civiltà”.

Le forze occulte messe in moto da Tzara e dai suoi amici, impedirono all’ultimo momento la  pubblicazione della traduzione di Ionesco, malgrado l’entusiasmo di Queneau e di Paulhan. In questo modo l’edizione francese rimase insabbiata per 25 anni e soltanto quando l’autore ormai famoso de La cantatrice calva presentò nuovamente Urmuz si può parlare veramente di resssurrezione.

Il primo passo fu la pubblicazione, nel 1965, di un notevole saggio di Ionesco su “Les lettres nouvelles” di Maurice Nadeau. Il saggio era accompagnato da alcune delle traduzioni fatte dallo stesso Ionesco e da  Jacques Costin, il lontano amico di Mitica, anche lui esule a Parigi. Prima di emigrare, Costin aveva pubblicato un interessante libro di testi “assurdi” illustrati da Marcel Iancu: Esercizi per la mano sinistra.

Dopo di ciò, le pubblicazioni si susseguono una dietro l’altra, come sotto l’azione di una bacchetta magica. Nel 1967 la rivista “Arzente” di Monaco presenta il saggio di Ionesco con le traduzioni di Urmuz. Nello stesso anno, a Londra, “Adam” – diretta da M. Grindea, un emigrato – gli dedica un numero.

Il 1970 è singolarmente importante poiché col favore di un breve ed insperato “disgelo” culturale in Romania, il fedele e ispirato Sasa Pana riesce a pubblicare, nelle statalizzate edizioni Minerva, un libro di Pagine bizzarre che ai vecchi testi aggiungono altri materiali tratti dall’archivio di Sasa (comprese lettere e cartoline postali di poca importanza). C’è anche una ricca iconografia, c’è un dossier sul suicidio e, infine, Odradek di Kafka, tradotto da Sasa Pana col proposito di provare un’osmosi spirituale fra i due scrittori, ignoti l’un l’altro (si tratta di un lavoro egregio, utile per una futura traduzione in spagnolo, l’unica lingua universalmente circolante nella quale Urmuz è ancora totalmente inedito).

In Ein Hod, nelle israeliane edizioni Mambusch, Marcel Iancu pubblica in tiratura non commerciale un lussuoso album di incisioni ispirate a Urmuz, Fabulation Urmuz Dadà. Il vecchio dadaista perviene qui a una visione sommamente personale del mondo urmuziano e, non per mera coincidenza, il nome di Tzara è indicato soltanto in modo passeggero.

Nello stesso anno le edizioni Dacia pubblicano un saggio di circa 200 pagine del critico romeno Nicolaie Balta intitolato Urmuz. A Honolulo, l’estensore di questi stessi appunti, pubblicava un quaderno urmuziano sulla rivista di poesia “Mele” (poesia, in lingua hawaiana). In quella sede, la Fabula era interpretata (nonché tradotta in svariate lingue) da un testo critico di Mira Simian, che nella sua tesi di dottorato all’Università di Strasburgo, dedicata al teatro di Ionesco, si era soffermata per un intero capitolo su Urmuz. Un anno dopo, la rivista “Quinta parete”, diretta a Torino da Janus,  traduce la favola in italiano e presenta un nuovo saggio di Mira Simian sull’argomento. Infine, nel 1976,  le edizioni Texttkritik di Monaco pubblicano l’opera di Urmuz in tedesco con la traduzione di Oscar Pastior. A questo punto, si chiude provvisoriamente il circolo avviato nel 1922, quando vennero pubblicati i primi testi del precursore.

 

Per fare un bilancio, e luce sui nostri dubbi, ponemmo, in tempi diversi, a Sasa Pana di Bucarest e a Lucian Boz di Sidney, Australia, alcune domande. Ecco cosa ci ha detto (dicembre 1976) Sasa Pana:

 

1 -  Qual’è stato il primo testo pubblicato su Urmuz?

S.P. – Uscì in “Contimporanul” n.45, anno III, Bucarest, aprile 1924, redattori: Ion Vinea e Marcel Iancu. Autore ne era G. Ciprian. Fu 25 mesi dopo la pubblicazione delle prime pagine pubblicate in vita. In quel testo – una pagina e mezzo della rivista con un ritratto a penna di Iancu – il nome di urmuz venne stampato in modo errato: Hurmuz.

 

2 -  Chi e in quali condizioni entrò per primo in contatto con la famiglia onde ottenere i testi di Urmuz?

S.P -  … Il primo contatto con la famiglia, la madre e le sorelle, in vista dell’autorizzazione a pubblicare nelle edizioni Unu l’opera del grande precursore sconosciuto, lo avemmo nella sera del 2 ottobre 1930, quando in compagnia di Geo Bozca feci la prima di una serie di visite in via Apolodor 7 (oggi il numero non corrisponde più a quella casa).

Il giorno 7 novembre 1930, nel settimo anniversario della tragica morte volontaria di colui che nella carta del registri civile si chiamava Demetru Demetrescu-Buzau, il libro dalle dimensioni ridotte ma dalle ampie ripercussioni si trovava negli scaffali delle librerie più importanti.

 

3 – Come giudica i testi di critica pubblicati negli anni trenta da Lucian Boz, testi dei quali si parla così poco?

S.P. – Il testo di “Exelsior” mi sembra non soltanto giusto, ma anche pieno di calore. Si chiude con una premonizione: “Urmuz è l’araldo di una nuova era”. Per questa ragione l’ho riprodotto in Pagine bizzarre. Mi sembra notevole anche l’altro testo di Boz, Medaglione Urmuz uscito in “Facla” (anno IV, n.320, 1930).

 

4 – La famiglia a chi consegnò i testi la prima volta?

S.P. – I manoscritti di Urmuz vennero consultati da me diverse volte nella casa della signora Ionescu-Buzau. Li trovai in una cassapanca. La metà sovrastante conteneva le prosetrascritte in bella copia decine e decine di volte, piene di correzioni. (nota dell’autore: da notare che il testo della Fabula si era trasmesso oralmente). Scoprii un poema musicale in prosa a carattere erotico-eroico, Fuchsiade, come pure frammenti di Un po’ di metafisica e astronomia. L’altra metà della cassapanca conteneva le composizioni musicali. Prima della guerra la cassapanca fu trasportata in casa del colonnello dr. Popescu Traian, melomane e amico di Mitica. Popescu viveva solo e ritirato. Dopo la guerra seppi che era morto di cancro: La cassapanca era scomparsa, probabilmente bruciata.

 

Per quel che si riferisce ai ricordi urmuziani di Lucian Boz, questi datano 6 marzo 1970:

“Credo di aver letto i primi testi urmuziani sulla rivista “Cugetul Romanese”. Devo sottolineare che non ho mai visto esemplari della rivista “Urmuz”, malgrado fossi amico di Geo Bozca. Quindi, dopo la pubblicazione della mia recensione su “Facla” (1930) la sorella di Urmuz venne a Bucarest da Turnu Severin, facendomi visita in redazione. All’epoca il giornale era al primo piano dell’edificio che al piano terra ospitava la gioielleria Cronos. Fui io a dire alla signora di visitare Sasa Pana. … Non mi ricordo di alcuna reazione del mondo intellettuale alla mia recensione. L’unica persona che si mostrò interessata fu la sorella. Nel mio Libro dei poeti pubblicato nel gennaio ’35 dalle edizioni Vremea, uscì il mio saggio su Urmuz tale e quale lo pubblicai nel ’32 su “Ulisse”. Fui tra coloro che non aspettarono che Urmuz fosse considerato à la page per scrivere di lui”.

 

Fin qui Lucian Boz.

Quasi mezzo secolo dopo aver posto negli scaffali delle librerie il suo libretto urmuziano, Sasa Pana concludeva le sue risposte alle mie domande in questo modo:

“L’anti-scrittura di Urmuz dà respiro ai suoi segreti. Il tempo lavora in suo favore”.

Honolulu, Hawai, Febbraio 1977

 

 

Cronicari

 

FABULA

 

Cicà niste cronicari

Duceau lipsà de salvari

Si-au rugat pe Rapaport

Sa le dea un pasaport.

Rapaport cel dràgàlas

Juca un carambolas

Nestiind cà-Aristorel

Nu vàzuse ostropel,

“Galileu: O, Galileu!”

Strigà el aranci mereu,

Nu mai trage de rechi

Ale tale ghete vechi.

Galileu scoate-o sintezà

Din rendigota francezà

Si exclamà: Sarafoff

Seveste-te de cartof!”.

 

 

 

MORALA

Pelicanul sau babita.

 

Urmuz

Cronisti

 

FAVOLA

 

Ecco la storia di quei cronisti

sol di braghe ormai provvisti.

Al gran capo Rapporto

vollero chiedere un passaporto.

Ma costui carambolava

tutto allegro col biliardo

di saper se ne infischiava

se scalogno oppure lardo

Aristotile mangiava.

Galileo, così testardo

Da tentar continuamente

D’infilarsi gli stivali

Ei gridò terribilmente.

E quell’uomo senza eguali

Antiquato nel vestiario

Fece udir la verità:

anche un rivoluzionario

le patate mangerà.

 

MORALE

Sempre uguale è il pellicano

Non trovarlo affatto strano.

Versione di Stefania Dorigo