Bo Botto
Ulmer
Noah Isenberg; EDGAR G. ULMER: A FILMMAKER AT THE MARGINS. University of California Press, 2014
Di registi cinematografici
come Joseph H. Lewis e Edgar G. Ulmer non si fatica oggi a riconoscere
genialità, raffinata maestria e vocazione stilistica per quanto a lungo si sia
guardato loro come ai protagonisti di un cinema trascurabile, magari efficace
sul piano del mestiere, però risolto con indifferenza alle intonazioni del
linguaggio e dell'ispirazione. Se erano “maestri” lo erano dei B movies.
Che questa classe cadetta (ma solo nel budget) potesse eruttare capolavori come
La sanguinaria (Lewis) e Detour (Ulmer) non era chiaro ai critici
dei tempi andati (ma anche di quelli successivi). Chiaro lo fu invece per John
Benton, oggi alla Rutgers University, che negli anni Settanta a proposito di
Ulmer scrisse: “Uno degli artisti più tetri dell'epoca, il visionario dei più
neri fra i film noir, Ulmer è oggi dimenticato, tranne che per una manciata di
ammiratori e di vari imperterriti detrattori." (Howard Hawks, Frank
Borzage, Edgar G. Ulmer, Tantivy press, 1974). Da parte sua Ulmer
(1904-1972) non si lagnava di dirigere film a basso costo, questo gli dava
l'opportunità di far quel che voleva, senza troppe ingerenze da parte dei
finanziatori.
Studente di filosofia e di
architettura a Vienna, Ulmer entrò come scenografo nella compagnia di Max
Reinhardt, che poi seguì in America. Nel 1934 con l'Universal diresse Bela
Lugosi e Boris Karloff in The Black Cat, ispirato al racconto di Poe. Si
impegnò anche a lavorare seguendo le esigenze delle minoranze etniche ucraine,
yiddish, afro e latino americane. Ma è con Detour (1945) e coi film
degli anni Quaranta e Cinquanta che la sua personalità artistica, “il suo
tocco”, assume una precisa fisionomia, coi noir soprattutto, ma anche
con la fantascienza, l'horror, i (castissimi) “nudies” e anche con l'western (The
Naked Dawn, 1955). Diresse anche, alcuni film in Italia con doppio
autografo (Scotese, Bragaglia, Masini, Bianchini in pellicole dove lavorarono
Volonté, Ferzetti, Battaglia e Nazzari) come usava a Cinecittà nel periodo
caratterizzato dai peplum . Fra i primi ad accorgersi delle sue qualità ci
furono Luc Moullet e Bertrand Tavernier che lo intervistarono per i “Cahiers”. Nal 1970 cominciarono le
sessioni di una lunga intervista a Peter Bogdanovich che non poté concludersi ma
venne ciò nondimeno pubblicata nel 1974 da Film Culture, la rivista
fondata dai fratelli Mekas.
Con l’analisi approfondita
dei film, di questa carriera che si è consumata ai margini di Hollywood, Noah
Isenberg – che si è formato a Monaco, Berlino e Vienna - fornisce adesso numerosi
dettagli (comprese le millanterie del regista a proposito degli anni
giovanili). Bogdanovich ha definito questo libro “meticoloso e affascinante”.
Molly Haskell ha parlato di “una biografia che per la prima volta raccoglie i
pezzi di una delle carriere più strane e sfuggenti di Hollywood”.
“Fogli di Via”, marzo-luglio 2014