Omar Wisyam

(T)ubi consistam

In un numero di “Internazionale” dedicato alle Storie ho trovato un racconto dal titolo inequivocabilmente kafkiano (ma è una ossessione, potrei dire “di sapore mitteleuropeo”, e ci ricadrei). Adesso controllo, è il numero 1390 del 23/12/2020-7/1/2021. Il racconto è di Wang Anyi, “I vicini di casa”. Dovrei sapere che i vicini di casa sono una categoria universale, ma ho preso a leggerlo perché mi sembrava kafkiano. Va precisato che sono convinto che lo spirito di Kafka è emigrato in Oriente. Un fumetto manga dedicato ai più celebri racconti del praghese ha confermato questa mia strana convinzione, quando ha illustrato il significato della “Metamorfosi”, un significato che trascuravo, con la presunzione di chi crede di saperla lunga. La “Metamorfosi” parla della fame. E a vincere il duello è la sorella dello scarafaggio (ma questo lo sapevo). Scrive Satoshi Nishioka: “Gregor si mostrava alla sorella sperando che potesse darle nuovo nutrimento. E in cambio viene condannato a morte da lei”. Il libro è “Kafka. Classic in comics” di Nishoka Kyodai. Il fatto che Kafka sia di casa in Oriente è conseguenza di una lettura precedente, un romanzo, “Gli inconsolabili”, di uno scrittore anglo-giapponese di nome (o cognome) Kazuo (in quanto nome dovrebbe essere importato nel nostro paese dato che si adatterebbe graziosamente a molte teste). Dunque ho iniziato a leggere “I vicini di casa” pensando, chissà perché, a Kafka, ma dalle prime righe mi è giunta alle narici una sensazione provata tanti anni fa (sono sicuro anche se non me ne sono accorto che sono trascorsi quasi quarant’anni), quando abitavo in un appartamentino, un bilocale con terrazzino. La minuscola terrazza si affacciava su un rumoroso e incessante viavai di corriere e godeva, oltre ai gas di scarico, degli aromi esalati dall'impianto di aerazione di un ristorante-pizzeria che faceva affidamento sulla clientela vorace e pendolare dei pullman, rifornendola di tranci di margherite, focacce, bruschette e altre golosità.

La voce narrante nel racconto della scrittrice Wang Anyi è affidata alla protagonista testimone dei fatti, una donna che abita in un appartamento all'undicesimo piano di un palazzo di sedici. Le sconsigliano di allacciarsi alla canna fumaria comune, ma lei non ascolta. E così i fumi dei vicini entrano e invadono la cucina. Le sue riflessioni la portano a concludere che il tubo potrebbe essere condiviso da una dozzina di famiglie che potrebbero spedirle i loro fumi. Ed impara a distinguere le famiglie dagli odori di cucina. Dagli ingredienti, dalle spezie. Ma mi distraggo subito, perché la canna fumaria è un cruccio. Dovrò sostituire la caldaia e quella nuova richiederà una ispezione della canna. Se non è a norma sarà necessario, poiché quella attuale è troppo vecchia e inadatta, collocarne una esterna. Sono orribili e se ne vedono parecchie che scalano le pareti delle palazzine vetuste, ma anche di costruzioni che non diresti. I vicini mi dicono di aver visto dei topi scalare il muro fino a raggiungere le terrazze del terzo e quarto piano. Gli inquilini hanno scoperto di avere degli ospiti, osservando il risultato della loro presenza. Ma la caccia è un'altra cosa. Sono attirati forse dalle pattumiere della differenziata, che stazionano sui balconi. Ma già che ci sono, entrano. Mi viene in mente quando un animale morto cadde all'interno della grondaia, ormai diversi anni fa, diciamo venti. Forse un piccione, ce n'erano tanti in quel periodo. Si dovette sostituire il tratto, e in seguito tutte, ma erano logore e bucherellate. Fu il piccione, o meglio la sua carcassa, a dare il via ai lavori di restauro della casa.

Quanti piccioni, colombi e tortore c'erano. Ma prima, quando ero un ragazzo, nel pieno dell'estate il cielo si oscurava di nuvole di rondini (rondoni, a voler essere precisi) precipitanti nei loro voli capricciosi e sfrenati. E che gridi, avrebbe detto Pascoli. E in autunno passavo il tempo, nei pomeriggi oziosi, a guardare i passeri saltellare di qua e di là. E finivo per affezionarmi di più a loro, perché li sentivo dei compagni di gioco e di vita. Con gli anni si sono rarefatti gli uni e gli altri. Non me ne accorgevo perché ormai avevo altro a cui pensare, però giunge il momento in cui scopri la scomparsa. Venne il tempo dei piccioni, poi quello dei merli e delle gazze. Un giorno sentii un picchio martellare il tronco del bagolare di fronte. Oggi, ma era già ieri, siamo arrivati al capolinea, spadroneggiano le cornacchie, volgari quanto scaltre. Ieri, proprio ieri mattina, ne ho vista una beccare gli occhi di un ratto di fogna sul margine della via. Anche le cornacchie mi fanno pensare a Kafka. Ed infine ci sono i gabbiani, ma qui dove abito non si fanno vedere ogni giorno.

I gabbiani, per associazione di idee, mi hanno rammentato “Kafka sulla spiaggia” di Murakami. Ecco un'altra dimostrazione che il suo spirito non è emigrato in America, come invece ci aveva raccontato inventando Karl Rossmann, ma ha chiesto di essere regolarizzato in Asia. Bello sarà il romanzo (ma lo dico solo per piatta piaggeria) ma che c'entra con Kafka? Se il titolo fosse “Hombie Tombie sulla spiaggia” e se l’alter ego del protagonista, invece di Corvo, cioè kavka, si chiamasse “Frol au vent” (questi nomi assurdi mi piacciono, dovrò usarli ancora) chi nominerebbe Kafka a proposito di questo romanzo?

Temo di invecchiare rapidamente. Per esempio, non mi ricordo perché mai gli Inconsolabili siano inconsolabili, e poi chi sono gli inconsolabili? Rileggere Ishiguro? Di sicuro...

Dalla fognatura risalgono i topi e gli scarafaggi. Ho imparato ad apprezzare le lucertole che da bambino cacciavo, con un fucile a pallini. Questi simpatici rettili ingoiano scarafaggi con grande piacere. Il piacere è anche mio, e talvolta glieli servo, in cortile, se ne trovo uno. Per il vicino del piano di sopra era una ragione di vita. Nel cuore della notte, quel povero vecchio, pace all'anima sua, si risvegliava (e non mi riusciva più di dormire) e cominciava a fare le sue corsettine per schiacciare gli scarafaggi (i cadaveri li gettava davanti alla mia porta, per farmi soffrire di invidia, immagino). Talvolta le battute di caccia proseguivano, di notte, sulla tromba delle scale, quando erano state sterminate le prede dentro casa. Spenti ormai i riflessi, negli ultimi tempi cantava agli uccelli, cioè alle cornacchie, con scarsi risultati, poiché platealmente lo ignoravano (bisogna cercare di immaginare un vecchione novantenne che letteralmente cinguetta in piedi sporgendosi dalla terrazza). All'imbrunire pigolava inutilmente ai pipistrelli. Va detto che ciondolava sempre durante le ore piccole, ma ormai privo di motivi apparenti, cioè di scuse. Credo che si recasse a dormire quando mi vedeva uscire. Per un'abitudine acquisita. Penso di essere stato al centro dei suoi pensieri fino alla fine.

Gli scarafaggi, e non è un'opinione ma un fatto, sono amati da questo popolo italiano composito e discorde. Basta pronunciarne il nome nelle sue diverse parlate, e si sente, sulla lingua, il suono di una indefessa passione, di una affinità istintiva.

Se danno dei problemi le canne fumarie, come racconta la scrittrice cinese, altrettanti ne danno gli scarichi fognari. Dipende da cosa ci si getta dentro. Col tempo si finisce per spendere capitali per disintasarli, sempre per colpa altrui, ovviamente. È un catalogo di oggetti vari e talvolta proprio strampalati. Dipende da chi li getta. C'è gente che dovrebbe essere seguita passo passo. Ce n'è stato uno, circa una decina di anni fa, che dovevo controllare. Rubava i fiori di plastica dalle tombe e li piantava a casaccio nell'angusto giardinetto condominiale. Oppure avvolgeva il loro stelo di alluminio intorno a qualche rametto del primo cespuglio o alberello che gli capitava a tiro. Sosteneva beato che rendevano il giardino, già brutto di suo, molto più carino. Un tipo del genere è obiettivamente pericoloso. A parte i fiori illecitamente sottratti ai defunti, le sue decorazioni erano imprevedibili. Oggetti di plastica di qualsiasi tipo: fiocchetti, nastrini, pupazzi, giocattolini, gadget, uccellini, gnometti, funghi, palle di Natale ecc. Poiché aveva qualche problema aveva ricavato un angolo di cortile per i suoi bisognini, mentre accanto vegliava guardandolo intenerita una Madonna bianca di gesso che avrei voluto far lacrimare. Ma sono troppo buono. Ma piantava anche dei vegetali ogni tanto. Una volta ce l'ha fatta. A tutti quanti. Due sequoie ogm a crescita rapida, cioè due tuie. Begli alberi ma che crescono troppo velocemente. E nello spazio risicato del giardinetto crearono dei guai. Cresciute frettolosamente erano diventate così enormi da impaurire gli inquilini del palazzo di fronte. Una fu segata a pezzi fino alla radice, e divelta, da una ditta specializzata mentre l'altra fu abbattuta da una tempesta estiva. Disfarcene ci è costato un sacco di soldi. Tutto accadde dopo la morte del Nostro. È riuscito a non farsi dimenticare.

Ogni storia ha le sue cesure, nella mia mancano, e non per caso, giovani, immigrati, cani, automobili e tante altre cose interessanti.

Se penso alla prima delle tante altre cose, mi viene in mente chi tiene in casa rettili. Non ne vado pazzo e nemmeno degli anfibi perché c'è chi alleva rospi (rospi in salotto!), sperando forse che baciandoli si trasformino in principi e re.

Ho lasciato per strada il raccontino di Wang Anyi. Per forza, perché poi comincia a elencare gli aromi che le entrano in cucina: pepe, peperoncino, cipolla, zenzero aglio e anice. E il cibo? Deve essere saltato e fritto, “fritto: a ogni pasto, a ogni costo”. “I miei vicini non amano solo friggere, i piatti devono anche essere belli carichi”. Ogni tentativo di impedire agli odori di insinuarsi in casa fallisce. “Con il tempo, questi vicini mi sono perfino diventati simpatici, mi sembra che vivano una zelante e operosa vita quotidiana, ordinata, senza stranezze e senza eccessi”. Quel friggere quotidiano le fa pensare a gente solida che mangia pesante.

Non sono sicuro che i miei vicini mangino pesante ogni giorno. Spesso - diciamo così. Chissà dove si riforniscono. Va chiarito però che mi sembra triste invecchiare senza fare qualcosa di bizzarro e originale. Molti ci riescono, tappandosi in casa. Oppure rifugiandosi nei bar i maschi e in chiesa le donne. Ma è un po’ noiosa la faccenda. Si vede che certi preti hanno del fascino a sentire certe vedove. Che tipo di fascino sia non mi interessa.

Un tipo bizzarro (il grande vecchio) che doveva avere qualche problema personale che lo angustiava, dava la sveglia (in senso metaforico) a tutto il quartiere di case popolari (il mio) con l'inno internazionale dei lavoratori e Avanti popolo sparati ai decibel di un concerto di Vasco Rossi. Sul suo terrazzo troneggiava un corvo imperiale impagliato e garriva al vento una grande bandiera della fu repubblica democratica tedesca. Sull'altro lato della strada conducevano le loro giulive e garrule attività le suore di un apparentemente pacifico asilo infantile. Ma le suore sono un avversario ostico. Infatti suore e asilo, covid o no, sono sempre al loro posto, ma il grande vecchio non c'è più.

L'espressione “il grande vecchio” mi riporta agli anni del terrorismo, alle ipotesi sul cosiddetto grande vecchio delle BR. Furono sospettati parecchi individui, di cui non voglio parlare, tra cui spiccava, malevola parodia, la maschera disambigua di Ugo Tognazzi. Ma perché parlo del grande vecchio? Che c'entra? Il fatto è che il numero della rivista “Internazionale” con la scrittrice cinese è posato sopra un volume dell'Espresso dedicato a Pasolini. In questo libro celebrativo compaiono numerosi interventi di personaggi noti, prevedibili e tuttora noiosi. In un articolo di Leonardo Sciascia si trova la seguente frase: “Secondo l’ortodossia rivoluzionaria, non c’è dubbio che l'azione delle Brigate Rosse è stata, nel caso Sossi, assolutamente ineccepibile sia in ordine alla tempestività che agli effetti”. Sciascia, sulla base di un ragionamento provocatorio, sembra sfidare gli estremisti dell'epoca ad essere conseguenti rispetto all’ideologia vantata: “dico semplicemente che il modo come l'azione è stata condotta e gli effetti che ha prodotto dovrebbero essere riconoscibili e riconosciuti, da parte di individui, movimenti e partiti che si propongono la rivoluzione come rivoluzionari”. E a proposito della loro ideologia scriveva curiosamente che “il termine rivoluzionari, in aggiunta a marxisti leninisti è, o dovrebbe essere, pleonastico”. La provocazione, un po’ troppo schematica per essere divertente, era riferita a una ipocrisia intellettuale, ideologica e no, intorno alla quale egli chiedeva retoricamente se fosse possibile parlare ancora di rivoluzione se il gesto rivoluzionario è temuto nell'ambito stesso delle forze che dovrebbero generarlo. Domanda retorica e provocatoria ma insulsa nel nostro Paese dove tutti sapevano che non si sarebbe mai fatta alcuna rivoluzione (forse una controrivoluzione - questa casomai sarebbe stata più probabile), dove tutti temevano che l'azione delle BR nascondesse interessi e strategie altrui (se non peggio ancora), dove nessuno ha mai creduto nella buona fede dei politici e dove nessuno si è mai fidato dei servizi segreti (bastava leggere “Alan Ford”, giusto per fare un esempio, per essere certi di tutto questo). Sciascia scriveva subito dopo il sequestro Sossi, ed è sufficiente che si arrivi al giugno del 1974 perché le BR uccidano due persone a caso in una sede del MSI a Padova. In sostanza sarebbe stato meglio, a fini della sua beatificazione laica, se Sciascia non avesse pubblicato quell'articolo, che ho sotto gli occhi dopo tanti anni. La riflessione piuttosto amara, e successiva, esposta in “L'affaire Moro” avrebbe corretto il tiro dell'intellettuale e piazzato uno dei suoi migliori successi con la rappresentazione di Moro dolente e ufficialmente, istituzionalmente, non creduto nel momento in cui era più sincero. Questo mi fa pensare non so perché, anzi lo so, a certi orologi a pendolo, i cui rintocchi fragorosi quanto lugubri sono per principio sfasati rispetto all'ora corrente. Ce n'è uno in particolare, troppo vicino alle mie orecchie (pareti di cartone), che ti sembra, ad ogni ora (il numero di rintocchi sbagliato come una questione d'onore), di assistere alla scena finale con duello di uno spaghetti Western a tutto volume. Estraggo le Colt, ma crollo a terra.

Per “Fogli di Via”