Il testo che segue entrerà presto a far parte del libro Cul-tura delle edizioni PEA.

Gianluca Trivero

spostamenti progressivi del paniere

E’ indubbiamente il sedere più famoso del mondo. Deve trattarsi dell’unico sedere a essere divenuto oggetto di culto. E’ ovunque, sui giornali musicali, sulle copertine delle riviste, tappezzato sui muri dell’intera città, perché è l’unico sedere che ride ! ”(1). Quando, nel 1927, Georges Simenon scrisse delle esclusive capacità espressive del fondoschiena di Josephine Baker - e c’è da credergli visto che, essendo uno degli amanti della straordinaria diva americana, ebbe certo modo di verificare “de visu” le espressioni del soggetto trattato - la disinibita metropoli francese all’interno della quale viveva, pur essendo a suo dire satura delle immagini del posteriore della ballerina di St. Louis era certo ben lontana dalla proliferazione esponenziale di nudità cui l’universo di immagini occidentale ci ha ormai abituati; in una sorta di fruizione ineluttabilmente narcotizzata, organizzata tra edicole rutilanti di calendari scontatamente nudi e altezzosi settimanali che, per ogni inchiesta, dall’aumento delle tasse all’ultima tendenza “intellettuale”, trovano il modo di mostrarci le terga sferiche o le giberne siliconate di qualche ninfetta catodizzata.

La tristezza del terzo millennio sta proprio nella fine dei sederi che sorridono ( con una certa discrezione, funzionale all’evocazione del desiderio, con manifesti d’antan dai colori pastello ingenuamente allusivi e proprio per questo capaci di consentire appaganti astrazioni) e nell’esplosione dei culi-che-parlano… fino a frastornarci.

Natiche patinate e palestrate, che ottundono in realtà il desiderio, che nell’ostentare non rappresentano né evocano più nulla, che - nello strusciarsi da manifesti stradali, nel finto offrirsi dai lividi riflessi azzurrini dei video notturni saturi di numeri telefonici, nell’incontenibile tristezza delle guaine contenitive strillate dagli imbonitori in canali dai nomi orrendi, nel falso ammiccare di reality shows che non hanno neppure la schiettezza della pornografia - diventano paradossali sagome di costrizione più che di liberazione.

A furia di vedere ovunque ciò che era bello scoprire, intuire, cercare, finiamo col non osservarlo più, reagendo tutti con un pavloviano interesse di pochi istanti, subito distratto da altri segnali assolutamente simili, quindi dimenticabili, come quando col carrello scorriamo al supermercato metri e metri di scatolette colorate, senza davvero notare quella che ci serve, quella che cercavamo, finendo col comprare nulla o peggio, prendendo ciò che non volevamo. C’è probabilmente un dolente interagire tra i troppi culi che “si sprecano” in giro e l’insostenibile proliferare di facce da culo che, fiere della loro protervia, adorati gran sacerdoti di quel plafond di ovvietà che oggi si spaccia per intelligenza, spettacolo o creatività, tracimano dagli schermi serializzati, dai libri e dai giornali, spiegandoci la vita, ciò che noi siamo e “dobbiamo” voler essere e avere.

Eppure il fondoschiena è nato per certi aspetti proprio come uno degli elementi evoluzionistici, cioè di genialità, di “progresso”, dell’Umanità. Prima ancora di quella cottura del cibo  che Levi Strauss ci ha spiegato essere il primo passaggio da uno stato istintuale a uno di riflessione, di intelletto, è stato lo sviluppo dei glutei a dare il via a un vertiginoso gioco di neuroni che ha realizzato prima il perfezionamento della posizione eretta e poi tutte le consequenziali trasformazioni, dall’australopithecus afarensis di quattro milioni di anni fa, fino a Voi che state leggendo.

Il disidratamento della regione orientale africana fece sì che si sviluppassero immensi altipiani d’erba secca, mentre nella zona centro-occidentale equatoriale restassero le giungle, con scimmie che non avevano nessuna intenzione di scendere dalle loro confortevoli frasche.

Chi viveva invece nell’alta erba arida delle savane etiopiche doveva correre; non solo, doveva guardare anche dove andava a “finire”.

Nel senso che la corsa  - e l’esistenza - potevano anche concludersi tra le fauci di qualche fiera dai denti a sciabola acquattata nella secca erba giallastra. Rizzarsi sugli arti posteriori diede più possibilità, sia di sguardo che di vita, mentre le mani acquistavano nuove funzionalità e la saldatura tra cranio e spina dorsale – come conseguenza della nuova postura - veniva modificandosi, rendendo possibile anche un maggiore sviluppo della massa cerebrale: “soffermiamoci su quest’idea interessante: le natiche dell’uomo sarebbero, per qualche verso, all’origine dell’evoluzione impetuosa del suo cervello”(2) insinua nel suo magistrale  saggio sulle natiche Jean-Luc Hennig.

Anche se il grande caos oggi esistente sui modi e contenuti dell’evoluzione umana, che mette in discussione le stesse teorie darwiniane, tende oggi a negare questo rapporto di causa ed effetto, è indiscutibile che esista un originario legame tra la parte in qualche modo più materiale, “bassa”, palpabile del nostro corpo e la componente più immateriale, astratta dello stesso, il pensiero, l’energia mentale e le sue infinite direzioni. Sui glutei l’uomo cominciò a immaginare e a produrre metafore magiche e propiziatorie – dunque artistiche - in epoche remotissime. Le più antiche statuette muliebri del primo paleolitico, risalenti ad almeno 20 millenni fa, esaltano in modo centrifugo la rotondità delle terga, sono deretani debordanti, smisurati bulbi lardosi che evidenziavano un richiamo sessuale che era venuto collegandosi allo sviluppo stesso delle natiche, come elemento di attrazione, si pensi - anche oggi - alle donne boscimani.

Come avviene ancora in certe culture africane o mediterranee, più il fondoschiena era voluminoso più il segnale di richiamo all’accoppiamento era evidente. L’accoppiamento  dei primati, come della quasi totalità degli animali - e degli esseri umani del paleolitico - avveniva da dietro, e la grandezza del sedere doveva avere un potere seduttivo irresistibile… Quanto impacciante.

Fu dunque l’ingombro di cuscini di adipe preponderanti a portare - come sostiene Desmond Morris - al coito frontale? O fu una scelta etica prima ancora che pratica, come mette in scena nel suo la Guerra del Fuoco il regista francese Jean Jacques Annaud, che nella posizione avanti individua suggestivamente(e piuttosto fantasiosamente) la ricerca di una maggiore parità tra i sessi, sancita dall’incrociarsi degli sguardi prima ancora che degli umori corporei.

Nel corso della storia sociale la sagoma del sedere, e l’energia vitale che la permea, hanno conosciuto alterne fortune, le trasformazioni del costume occidentale lo hanno visto ora nascondere sotto rigide tuniche o gonne a cupola, ora esagerare – recuperando stereotipi preistorici – quando si diffusero strutture posteriori che trasformavano le gonne delle matrone borghesi di metà ottocento in vere molgolfiere – ora tornare a un minimalismo discreto, si pensi ai vestiti lineari a tubo dei “roaring twenties” - ma resta indimenticabile la riflessione della più grande artista della moda del primo Novecento, Madeleine Vionnet, a Bruce Chatwin, ricordando con nostalgia i corpi delle sue clienti argentine “con le loro natiche ondeggianti da carnivore”(3), fulminea sintesi di ancestrale, spontanea bellezza ferina di un movimento ed estetizzazione del desiderio -.

La fruizione del sedere, se in epoche lontanissime ebbe probabilmente ben poco a vedere con “la bellezza”, intesa come ricerca di una forma, di un canone di proporzioni e linee adeguate, svolgendo meramente un preciso, prosaico ruolo di segnale, di richiamo sessuale simile a quello degli altri primati, trovò una decisiva fondazione/riorganizzazione estetico-spaziale nella cultura ellenica e romana, ma subì un drammatico annichilimento nel medioevo cristiano, con la sua apocalittica condanna della carne generata primariamente degli scritti di San Paolo, poi dalla Patristica - ma Agostino fece in tempo a togliersi alcune soddisfazioni prima di approdare alla castità – per poi risorgere con l’immaginario rinascimentale e – naturalmente – autocelebrarsi “en plein air” col libertinaggio settecentesco.

E’ davvero emblematico - pur senza dimenticare la cultura indiana, con le sue danze sacre e i suoi arditi bassorilievi - che la civiltà che ha in qualche modo fondato la cultura dell’Occidente abbia dedicato così tanto interesse all’armonia delle natiche, dall’Afrodite Kallipigia ai bronzi di Riace, generando al tempo stesso quella sovrapposizione attrazionale tra maschile e femminile che era una delle costanti della quotidianità del desiderio dell’età classica.

Il fondoschiena ipertonico, di chiara architettura virile, che oggi, almeno nella sua esposizione consumistica, sembra averla avuta vinta sul gluteo più antropologicamente femmineo, morbido e grasso, ampio e più soggiacente alla tirannide gravitazionale, che tanta fortuna ha avuto nella creatività artistica, da Tiziano a Rubens, da Ingres a Fellini, sembra quasi conformarsi a quell’ideale biomeccanico, industrializzato, velocizzato, da cuscinetti a sfera, che pare essere la costante del nostro tempo, dove si scambia la fretta col progresso, la superficialità con la modernità. E’ tipico che alla definizione di queste natiche della “donna d’oggi”, assemblata da spot che la inventano autonoma, aggressiva,  androgina, volitiva, sia  venuta affiancandosi – ma ciò riguarda un po’ tutto il corpo - una dimensione del sedere assolutamente innocua, asettica, di puro nitore alogeno, circondata da deodoranti, creme rassodanti, depilanti, il cui compito è esorcizzare l’indicibile: quell’ano che attira e disgusta, che evacua lordure e contemporaneamente allude a un’opzione sessuale. Parallelamente si è venuto organizzando, specie sulla scia della cosiddetta “liberazione dei costumi” dell’ultimo dopoguerra, e attraverso l’artificioso tam tam massmediologico contemporaneo, un estenuante antagonismo culo/seno; come se il piacere della fruizione di un corpo fosse pateticamente unidirezionale, come se, per compiacere l’onanismo sondaggistico dell’ultimo decennio sempre alla caccia di contrapposizioni bartali/coppi, mazzola/rivera,  certi voyeurismi subliminali, certe pulsioni dell’anima prima ancora che dei ventri, potessero essere standardizzate e incapsulate in numeri e percentuali.

Per trovarci oggi a questo punto, era in effetti accaduto alcune decine di millenni fa che, con la locomozione verticale, quello che prima era “sotto” si fosse trasformato in “davanti”, diventando quindi un’area di vera e propria comunicazione corporea, sviluppando elementi attrazionali prima ignorati o sottovalutati. Nell’evoluzione umana il seno sarebbe dunque venuto acquisendo turgore e appeal in quanto mimesi del deretano. Ricordando la rotondità e la pienezza delle natiche, i seni si sarebbero gonfiati per riprodurre le più ampie mezzelune del fondoschiena. Come i corpetti settecenteschi che spingevano verso l’alto le poppe offerte in generose scollature, o i moderni wonder bra, che duplicano la  fenditura delle chiappe. Che il mostrare il culo si presti a molteplici connotazioni, al di là della mera ostentazione erotica, è una costante di culture diverse, come segno di spregio o burla, di sfida o sottomissione, dai racconti di Geoffrey Chaucer a quelli di Francois Rabelais, da Giovanni Boccaccio ad Alvaro Vitali.

Negli Stati Uniti si chiama “mooning” l’offrire repentinamente le chiappe, simili appunto a pallide lune piene, a qualche sprovveduto, o a persone che si vogliono fare oggetto di scherzi. Il cinema ne ha lasciato esempi clamorosi, impossibile non citare American Graffiti di George Lucas, con l’occhialuto ragazzino linfatico che si vede scherzato da ridenti chappe di teenagers affacciate dai finestrini di una vettura che gli transita a fianco; e una delle scene iniziali di Fandango, la pellicola che lanciò Kevin Costner come attore e Kevin Reynolds come regista, con il gruppo di studenti nomadici su una freeway texana, che sottopongono allo stesso trattamento un esterrefatto camionista che si vede superato dalla loro sgangherata cadillac.

Il finestrino dell’auto non è tra l’altro nel “mooning” un elemento marginale, in qualche modo incornicia il deretano, generando un’operazione paradossale di straniamento, di decontestualizzazione delle terga, facendole diventare forma pura, fine a se stessa, “arte”: un ready- made surreale. “Questo-non-è-un-culo”! Stessa cosa fanno alcuni dei lavori di queste pagine, che in modo estremamente variegato ci parlano di culi nel momento stesso in cui ne celebrano l’astrazione, la contaminazione con altre figure, immagini e territori.

L’evoluzione estetica che la modernità ha portato è stata soprattutto di quantità: alla riduzione delle misure si è contemporaneamente affiancata la ricerca di un’ostentazione basata sulla qualità della forma e sul modo di “porgerla” nell’iconografia contemporanea. In francese si chiama infatti Cambrure, (gli inglesi dicono Camber, i tedeschi Krümmung) il gesto che inarca e incurva la parte posteriore, esasperandone la sinuosità in un’offerta che a ben vedere solo la fotografia, il disegno o la pittura rendono possibile. Il cambrure è di per sé un atto “d’arte”. Il far sporgere le terga arcuando in modo esasperato la schiena non consente un movimento continuo nel tempo e nello spazio, non è lo storico ancheggiare ondivago di Marilyn Monroe, è un “fermoimmagine” naturalmente innaturale, un’offerta che solo l’otturatore della fotocamera o lo scorrere del pennello sulla tela possono bloccare, in una seduzione senza fine.

Tendere ad altro da sé pare essere una vera, antica vocazione delle natiche, il sedere presenta e rappresenta al tempo stesso, e l’arte ne è stata irresistibilmente avvinta, da Neandhertal a Bacon, da Rubens a Warhol. Tuttavia, e questo libro lo dimostra in modo eterogeneo quanto esauriente, il sedere, così pieno e apparentemente bastevole a se stesso, pare invece richiamare un’incompletezza, un assenza (a differenza del più autonomo seno).  Nella sua narrazione artistica risulta indispensabile un ornamento, un completamento, una cornice, un’inquadratura, si tratti di una mano, un oggetto, uno specchio, un tessuto, un velo.  Il desiderio è generato dal vuoto, dall’incompiutezza, il bisogno di ornarsi e “completare” il sedere è uno degli elementi fondanti sul ruolo dell’abbigliamento in relazione al sesso. E in tale contesto che l’abbigliamento intimo, al di là della sua, pur recente, origine di carattere igienico-protettiva svolge un ruolo decisamente complementare e propedeutico alla celebrazione estetica e alla messa in scena, spesso incontrollabile, delle natiche. Caterina de’ Medici, in periodo rinascimentale, tentò di riproporre nella corte transalpina un indumento che sia l’età romana che il medioevo avevano poco frequentato, dandogli il significativo nome di “briglia delle natiche” e indicandone l’utilità, specie nel particolar modo del tempo di cavalcare di traverso sulla sella lasciando dunque scoperte le pudenda. Più o meno nello stesso periodo il grande erudito e grecista francese Henry Estienne rilevò come l’indumento costituisse anche un ultimo riparo dalle aggressioni dei maliziosi giovanotti che avevano l’abitudine di insinuare le mani sotto le gonne, pur correggendosi subito dopo riflettendo, correttamente, sul fatto che le mutande servissero “ad attirare i dissoluti più che a difendersi dalla loro impudenza”.

Anche se ci sarebbero voluti ancora molti decenni perché tale indumento si affermasse definitivamente, cominciando a subire anch’esso i capricci della moda, l’intuizione del gentiluomo francese affermava già la seduzione dell’intimo come ornamento, fonte di offerta proprio nel suo celare, immagine essenziale di feticismo e seduzione. Da secoli “punto” di conflitto tra decenza e carnalità – si pensi alle celebri “mutande” imposte durante la Controriforma persino al “Giudizio Universale” di Michelangelo - tra pudore e libido, oggi più che mai esaltate e mostrate, intraviste o meno. In effetti le mutande non hanno conosciuto una reale “evoluzione” nel tempo, ma sono venute modificandosi secondo i rituali del gusto, le abitudini e le mentalità dominanti nelle diverse epoche storiche e sociali. Inoltre, a differenza di altri orpelli dell’intimo, le mutande si indossano dai primissimi anni, non sono un indumento che segna l’accesso all'età puberale o adulta, esse seguono un’intera esistenza e – volendo - possono anche variare pochissimo di forma, dai 6 mesi ai 95 anni: insomma, le mutande… possono anche non mutare mai, basta si cambino spesso, bien sur! Con probabile grande disperazione di certi appassionati giapponesi che, come tempo fa i rotocalchi televisivi propagandarono, si fanno incellofanare le mutandine che le metodiche, candide studentesse ginnasiali nipponiche in divisa indossano coscienziosamente alcuni giorni, per poi venderle ad appositi negozi, specializzati a soddisfare simili esasperazioni feticistiche.

Tuttavia è indiscutibile che se la loro presenza sia comunque un potenziale elemento d’attrazione è indiscusso che la loro sagoma, il tipo di colore, giochino un ruolo essenziale nell’incorniciare, ricordare ed evidenziare le forme. Se il nero è almeno dall’inizio del novecento il segno della seduzione femminile esiste una plurisecolare lettura simbolica del rosso: considerato fin dall’antichità come segnale di fertilità ed eccesso, e benaugurante per i tempi futuri. Le sarabulle rosse indicavano nell’età romana le signore “espansive” e di facilissimi costumi.

La Pompadour donò al sovrano francese delle brache carminio senza gambe, come simbolo della sua attrazione per Luigi XV.

Tra una guerra e l’altra Napoleone III, travolto sessualmente dalle grazie della Contessa di Castiglione, le  donò un “cache-sex” rosso fuoco dicendole – “le mutande sono una virtù elastica, prima di abbassarle, bisogna riflettere”-.

Le danzatrici di can-can dei locali parigini vestivano mutande rosse negli spettacoli di fine anno, con la speranza di un anno nuovo pieno di “soddisfazioni”. Una scelta propiziatoria che oggi il consumismo ha diffuso in modo esponenziale, con scintillanti boutiques e meste mercerie che espongono nelle feste di fine anno un’inesauribile congerie di slip e tanga rossi, con tanto di carion musicali e improbabili frasi umoristiche.

Certo oggi si assiste, in perfetto parallelismo a ciò che le sta sotto ( O intorno? O di fianco?) a un’ostentazione totale delle mutande, che è più estesa più in proporzione si riduce la superficie del tessuto adoperato. L’inflazione del tanga ne è un esempio, slip ridotto, per l’appunto, all’essenziale, venne - secondo le leggende metropolitane - "inventato" nei primi settanta da una fanciulla intraprendente di Rio De Janeiro, tagliuzzando un tradizionale costume da bagno ai minimi termini, per farsi notare in spiaggia. Il successo fu istantaneo quanto planetario, sapientemente modellato e instradato da vettori pubblicitari, televisivi e cinematografici. I tempi erano ormai maturi per generare il salace motto -“Un tempo dovevi spostare le mutande per vedere le natiche, oggi deve spostare le natiche per vedere le mutande!”-.

La sgambatura del tanga è tale che il tessuto posteriore è ridotto a un’unica strisciolina sottile, che lascia il fondoschiena scoperto. I glutei sono separati da una striscia che li divide, ma contemporaneamente li esalta, rendendoli di fatto ancora più nudi. Baudrillard ci ricorda che “certi segni rendono il corpo più nudo che se fosse nudo”. Segni, cioè elementi, oggetti che agiscono in modo simbolico; le calze che finiscono, tagliano, incorniciano le natiche e ne sottolineano tutta la vis seduttiva, il reggicalze che ne inquadra la superficie, il busto che stringe e dunque “apre” verso il basso alla rasserenante rivelazione curvilinea delle natiche. Non è per caso che il film che fece abbandonare il cinema autoriale a Brass e lo lanciò come agiografo nazional-popolare delle natiche di celluloide, “la Chiave”, sia ricordato nelle nostre retine dall’immagine del culone rassicurante di una generosa Stefania Sandrelli, “inquadrato” dalle fasce nere delle calze e dai “tralicci” del reggicalze, prima ancora che dalla cinepresa.

Ha scritto nel suo raffinato saggio sul reggicalze il semiologo Giovanni Bottiroli “Interroghiamo il desiderio, ed esso ci dirà che il reggicalze è una straordinaria architettura sospesa nel vuoto. Infatti, non è tanto la donna che indossa il reggicalze quanto piuttosto il reggicalze che indossa la donna. C’è un vuoto che attira verso il corpo femminile”(4). Le natiche, il ventre, vanno a completare il vuoto che il tessuto, i ganci, i lacci hanno circoscritto, disegnato, ma non saturato. Il sedere, proprio oggi che viene così programmaticamente offerto dalla quotidianità, trova proprio nell’arte – cioè proprio da ciò che nella sua epifania si stacca dal quotidiano per darsi come evento atemporale, infinito - la possibilità di recuperare quell’alterità, quel gioco di non finito michelangiolesco che è la ragione della sua forza iconica da millenni, il bisogno di essere completato da un gesto, una mano, un insidia. Evocato ma non raffigurato, alluso, ma non intruso. 

Secondo il mito dell’androgino narrato nel “Simposio” da Platone, ai primordi esistevano creature in cui i sessi erano riuniti. Agili e vigorose, esse furono così ardite da sfidare le divinità. Zeus li punì tagliandoli in due. Da allora questi esseri divisi vanno alla ricerca della loro metà mancante, verso la quale  provano un’inestinguibile nostalgia. Così uomini e donne si desiderano reciprocamente. Il sedere pare idealmente ricordarci questa comunanza, quest’uguaglianza mitica in cui la realtà dell’evoluzione si trasfigura nell’evoluzione del reale. Spetta all’Arte, come quella “catturata” da questo libro, alla sua ineffabile scansione dalla banalità  dell’osceno, rappresentarne tutte le inebrianti declinazioni. Connotando piuttosto che denotando, interpretando anziché illustrando. Con quell’intensità - ora ludica ora ironica - capace di scardinare ogni ripetitiva serialità.

Gli altri si accontentino pure dei calendari.

 

Note:

1)Citato in Patrick Marnham, L’uomo che non era Maigret, La Nuova Italia, Firenze, 2002, p.132

2)Jean-Luc Hennig, Breve Storia delle Natiche, ES editore, Milano, 1996. p.11

3) Bruce Chatwin, Che ci faccio qui? Adelphi, Milano, 1990, p.115

4) Giovanni Bottiroli, Il Reggicalze, come l’abbigliamento diventò seduzione, Paravia-Gribaudo, Torino, 1995, p.32