Carlo
Vita
Tony Harrison, amaro
edonista
Quando, nel 1999, Ted Hughes morì e andò a
ricongiungersi nelle Isole Elisie alla moglie Sylvia Plath, qualcuno fece il
nome di Tony Harrison come suo successore nel ruolo di poeta laureato lasciato
vacante dallo scomparso. In Inghilterra il poeta laureato è il “poeta della
regina”, titolo anacronistico ma prestigioso, compensato annualmente per
tradizione con 300 sterline e due damigiane di vino di Malaga.
Harrison, poeta scurrile e maccheronico,
antimonarchico conclamato, provocatore di polemiche, ne approfittò subito. Per
togliersi clamorosamente dalla lista di candidati alla carica di
“accalappiatopi della regina”, come egli dice, scrisse una poesia, Laureate’s Block, che mandò per
fax al “Guardian”, su cui era già uscita la sua
Ode per l’abdicazione di Carlo III,
auspicio di un’Inghilterra repubblicana. Dedicato “alla Regina Elisabetta”, il
nuovo poemetto è in trenta quartine a rima alternata (il contrasto tra
contenuto dissacrante e rigorosa forma classica è sempre curato
implacabilmente). L’irriducibile Tony vi inserì un lunga citazione da una
lettera con la quale, nel 1757, un altro poeta intollerante di vincoli, Thomas
Gray, aveva rifiutato e irriso lo stesso incarico. Ricorrendo ad uno dei suoi
consueti giochi a incastro, Harrison racconta di aver appreso della morte
dell’amico stimato Hughes mentre seguiva a Stratford-upon-Avon la compagna Sian
Thomas, nota attrice impegnata nel ruolo di Elisabetta nello shakespeariano Riccardo III. E, calato
il sipario, va a letto con la (sua) regina Elisabetta, “libero di mandare a
quel posto Tony Blair”.
Le poesie di Harrison sono quasi sempre storie così,
prese dalla cronaca, dalla vita. Il modo in cui vi sono intramati fatti, idee,
riferimenti, si gusta meglio se, alle pur esplicite parole del poeta, soccorre
una spiegazione. Nel caso di L’inceppo
del laureato, essa ci è adeguatamente fornita da Massimo Bacigalupo,
curatore della raccolta In coda per
Caronte (Einaudi, Torino 2003, pp. XVII+157), come già di un
precedente memorabile volume einaudiano di Harrison, V. e altre poesie (1992). Versioni agili e abili,
rispettose del testo originale e pronte a offrire in italiano corrispettivi
coerenti, districandosi tra le piroette verbali e una sintassi talvolta
complicata, anche perché destinata alla comprensione intuitiva di un pubblico
di ascoltatori.
Tony sta invecchiando (Hughes non era molto più
anziano di lui), ma il pensiero della morte non trova il poeta mutato. Non
viene meno il piglio ironico, arguto, anticonvenzionale. La taglia delle
camicie è passata da small a large, ma per tornare alla giovanile
snellezza dello slim occorrerà indossare il sudario…
Harrison medita in un museo, a Creta, sul teschio
cinto d’alloro di un poeta. Reca ancora in bocca la moneta che avrebbe dovuto
offrire a Caronte per il passaggio nell’aldilà. La coda di chi aspetta
l’imbarco si allunga sempre di più: ai morti dei bombardamenti di Londra e di
Dresda, agli ebrei dei campi, si aggiungono nuove vittime d’odio razziale, come
in Bosnia, dove Harrison fu corrispondente nel 1995 e raccontò in distici
saccheggi e stragi. E sul terribile argomento egli esprime in due versi (“La
poesia dopo l’olocausto/ è una clandestina sullo Stige”), un sentimento che
completa poeticamente – e con maggior forza – l’aforisma adorniano, più volte
corretto, sull’impossibilità di scrivere poesia dopo Auschwitz. Giustamente
Bacigalupo osserva che le poesie “giornalistiche” di questo inglese fuori dei
ranghi tradizionali della letteratura sono destinate non alla terza ma alla
prima pagina, dove i “fatti” dello scandalo devono essere gridati, sia pure
sotto il segno del grottesco e del sarcastico.
Colpisce e diverte ed emoziona in Harrison l’intreccio
che egli sa tessere e padroneggiare tra più motivi, diramazioni, coincidenze,
senza perdere di vista lo scopo, secondo il metodo “della complessità
ricomposta in unità”. E’ un gioco, oltre che di parole e di motti di spirito
(in cui egli è maestro, come in tanti titoli e nelle rime), di folgoranti
associazioni di idee, secondo la consolidata tradizione britannica, da Locke a
Sterne. Se non “della regina”, Tony è certamente un poeta di tutti noi, è l’amaro
edonista del tempo presente, in cui tutti finiamo amaramente per
ritrovarci.