Charles de Jacques
parola di Tom Wolfe
Tom Wolfe: IL
REGNO DELLA PAROLA. Giunti, 2017
Alle
bella età di 85 anni Tom Wolfe è ritornato, dopo una
vistosa attività di romanziere, a quel tipo di saggistica che ai tempi del
"new journalism",
dove abbinava con spiritosa intelligenza la letteratura alla demistificazione,
gli diede una meritata fama. In questa nuova impresa si occupa del linguaggio e
delle sue origini fra teoria dell'evoluzione e "grammatica
generativa", dunque, per far dei nomi, fra Darwin e Chomsky. Il primo
cercò, con non poca immaginazione, di risolverne il mistero all'interno della
sua teoria suggerendo il lento passaggio dal cinguettio degli uccelli alla
parola umana. Il secondo ebbe l'idea di ipotizzare un elemento genetico che
produrrebbe le lingue.
Sia la
teoria dell'evoluzione sia quella delle grammatica generativa rimangono delle
ipotesi non provate, per quanto si siano accumulati ingredienti paleontologici
e antropologici a loro favore. In linea di massima si può dire che sono ipotesi
largamente convincenti e ampiamente condivise. Non per Tom Wolfe.
O meglio, forse lo sono anche per lui, non fosse che preferisce far sorgere dei
dubbi sulla personalità di chi le ha formulate. E, di fatto, più su quella di
Chomsky che su quella di Darwin. Certo dà più soddisfazione dissacrare un eroe
intellettuale contemporaneo e il suo invidiato carisma.
Il
metodo usato da Wolfe per tale dissacrazione è quello
di contrapporre l'eroe universalmente riconosciuto a un altro che da tanta fama
è rimasto oscurato. Eccoci dunque a Wallace contro Darwin - ma qui la faccenda
si sviluppa fra due "scopritori" - e a Everett contro Chomsky - e qui
il primo, dopo un'iniziale accordo, smentisce il secondo. La pugna è quella del
debole contro il forte ed è quindi facile provare simpatia per il debole. Se
Darwin era favorito dall'agiatezza e da una fama acquisita col viaggio sul Beagle, Chomsky lo è dal potere accademico e mediatico che
detiene, usato per giunta con prosopopea perfino nelle sue seguitissime (oggi
forse un po' meno) opere politiche .
La
contestazione di Daniel Everett alla teoria genetica di Chomsky affonda nelle
sue ricerche sul campo in Amazzonia (e giù Wolfe a
dare addosso ai professoroni in cattedra e a esaltare i coraggiosi che si
spingono fra le tribù della foresta). Venuto a contatto coi Pirahã
ne impara la lingua estremamente semplice. L'idea che si fa è che questa potrebbe
essere la prova che la lingua è un prodotto interamente culturale che dalle
forme elementari si è evoluta in quelle complesse.
Personalmente
non so prendere posizione (e nemmeno colgo il perché le ipotesi non possano
integrarsi) ma è difficile trarre dal ritratto che Wolfe
fa di Chomsky, verosimile che sia, gli elementi per buttare nella spazzatura la
sua teoria. Quanto a quella di Everett non credo basti sporcarsi le mani e
dimostrare un coraggio non comune (il racconto di come riuscì a portare i suoi famigliari
in un lontanissimo ospedale è tragicamente emozionante) a inverarla. E non
basta la mena iconoclasta ad allontanare la sensazione che quello di Wolfe sia il racconto di un'invidia: la sua.
“Fogli di Via”, gennaio 2018