Genesio Tubino
Tilgher, liberalismo
scettico
Adriano Tilgher
Diario politico (Edizioni
della Normale , Pisa 2021)
Disperato ritratto di un'Italia pasticciona impegnata, per vanità e retorica, a menar le mani, queste
pagine di Adriano Tilgher, scritte tra il
'37 e il '41, descrivono
pure, nella cornice di un più
ampio profilo del liberalismo, come si autosopprimono le democrazie. Lasciate in bella copia, come in attesa di un auspicato dopoguerra che ne avrebbe consentito la pubblicazione, furono stampate postume in un'edizione tutt'altro che corretta nel
1946; ora Claudio Giunta le
ripropone emendandone le tante pecche ed
elogiandone il saggismo apparentato alla prosa di un Brancati o di un Savinio o, guardando oltreconfine, di un
Ortega y Gasset, di Spengler o di Simmel. Convinto della caducità delle culture e nutrito di scetticismo storico, Tilgher teorizza il liberalismo
come “diritto di provare, cercare, tentare ed errare”, efficace
garante di pluralismo in ambito morale e sempre tollerante “meno che verso gli intolleranti”
(come suggerito negli stessi anni da Popper). Il liberalismo, accettando i mali
che seguono la libertà (disordine, sperpero, ecc.) non imponendo un ideale all'uomo ma suggerendolo, persuadendo a scegliere tra ideali contrapposti,
può spingersi fino a propagandare (per il suo “Stato”
alleggerito) la socializzazione
dei mezzi di produzione o l'abolizione dell'eredità se li valuta come mezzi utili alla
“libera affermazione del maggior numero possibile di individui”. Da tutt'altra parte vede diretta l'Italia mussoliniana cui rinfaccia d'essersi lanciata nell'avventura giocandosi la vita
fino a perderla “per amore del gesto e della
frase” a conferma del forte
peso della rettorica nella sua storia.
Adesione a miti di
propaganda, celebrazione di eroi
inventati di sana
pianta, costruzione a freddo di leggende: tutto concorre alla creazione di uno stato d'animo
reverenziale verso i nuovi fondatori. “Quante statue che a distanza sembrano d'oro sono fatte
di merda disseccata!” sbotta ad un certo punto passando in rassegna i tanti
idola che
ha sotto gli occhi.
E quanto lontana l'autentica lezione di
Machiavelli di cui tanti contemporanei
dal corto respiro si eleggono maldestri
allievi. Verso gli
stati autoritari dei suoi anni
un Tilgher liberale, pur se non proprio crociano, non lesina disprezzo criticando il machiavellismo di un cattolicesimo che intende servirsi del fascismo o l'azione muscolare dei bolscevichi
(pur ammirandone la rigorosa consequenzialità cospirativa): alla politica di questi e di altri di diverso colore pensa quando
annota che “i governi più duri sono
quelli dei plebei portati al potere dalla rivoluzione...paurosi di perderlo, sono diffidentissimi, e pur di tutelarsi non indietreggiano dinanzi a nessun eccesso o violenza ... avidissimi dei beni della
vita … s'inebbriano di titoli...”.
Proprio come il
Gesuitismo, credendo di servirlo, ha rovinato il Cattolicesimo, Tilgher sentenzia che lo Stalinismo, molto probabilmente, ha per sempre rovinato l'idea comunista.
Per “Fogli
di Via”