Enrico Testa

Elena Salibra. Sicilia, sogni, amore familiare con brividi sottopelle

Elena Salibra è morta il 4 dicembre 2014.

Insegnava Letteratura italiana a Pisa e, nella sua attività di studiosa, si era dedicata soprattutto a poeti e narratori del secondo Ottocento e del Novecento. A partire dal 2004, ha pubblicato anche cinque raccolte di poesie, tra cui Nordiche, uscita pochi mesi fa, con la prefazione di Maurizio Cucchi, presso l’editore Stampa di Varese. Nonostante il suo cronachistico passo d’esordio, questo non è un necrologio. Tutt’al più un piccolo ricordo, condotto nascondendo la commozione dietro la lettura del suo ultimo libro. Anche se è facile e amaro, insieme, dirlo adesso, Nordiche è un’opera, a parer nostro, importante. Cosa ci spinge a pensarlo? Forse la convivenza, in essa, di motivi diversi, di opposti in apparente contraddizione, secondo il senso comune, ma tenuti insieme, come il diritto e il rovescio di un tessuto, da un’insolita forza stilistica, la cui tensione si regge non su sovratoni o pose oracolari, ma su una semplicità contigua a una nicciana leggerezza. Ecco allora tante situazioni diverse: il ricordo delle vacanze, i paesaggi siciliani (Elena era nata a Siracusa nel 1949), i viaggi, i sogni, «uno due scampoli di vita», l’amore familiare (e Nordiche è anche, nel suo costante colloquio con il marito, un piccolo, e raro, canzoniere coniugale), e il resoconto della malattia con i suoi passaggi ospedalieri, vissuti senza un grano di autocommiserazione e spesso inquadrati sulla scena testuale come se fossero toccati in sorte ad un’altra persona, vista dal di fuori, facendo di sé un personaggio su cui talvolta addirittura ironizzare. E con continui slittamenti dal quotidiano alla visionarietà, in cui avviene pure che i parametri del reale e dell’ovvio siano scombinati al punto, nel luogo dove «si imbrogliano i tempi», da profilare non l’irruzione dell’inaspettato ma semplicemente «il ritorno dei vivi»: «varcammo il gate settantuno/sbandierando i vessilli d’un oltre-/frontiera etichettato come fosse/vino d’annata [ … ] il portone/s’aprì si richiuse. rimbombò/sull’androne l’eco d’un timpano/fesso che permise il ritorno dei vivi». A voler trovare una parola-chiave di questa poesia, si potrebbe scegliere il frequentissimo termine «ricetta» con il suo doppio significato: gastronomico e medico: le istruzioni per apprestare i cibi e confortare l’esistenza, segno di una vitalità che resiste sino all’ultimo; e le prescrizioni terapeutiche per – passando dal diritto al rovescio – lenire il male, tenere a bada la morte. Un binomio che si riverbera anche nelle rime, dove, in Un colibrì, «canta» si lega a «schianta», configurando tra l’altro, in maniera esplicita, il tempo a nostra disposizione come un «frattempo» sempre sul punto di farsi uno «spazio vuoto». Ora, la pluralità dei temi e, in essi, il tragitto doloroso di una storia di «liquidi umori» e «prelievi arteriosi», si affidano ad una lingua mobile e iridescente, libera e vibratile, che accoglie, senza attriti o dissonanze, «mix» e «ottobrale», «endorfine» e «vendesi», «elisio» e «coinquilini», «nadir» e «recettori»: un vocabolario e una testualità che solo la distrazione può ascrivere alla tendenza prosastica propria della poesia d’oggi. Se l’andamento è piano e talvolta discorsivo e dialogico, esso è però percorso da brividi sottopelle: richiami fonici tanto più occulti quanto più preziosi e rime mai esibite, la cui collocazione a distanza esalta valori e significati dei termini usati. Quasi che anche qui, sul piano della materia verbale e dei suoi nodi, agisse una sorta di stoicismo sobriamente accompagnato da una leggera e nobile salsa epicurea: senza alcuna concessione al culto del Nulla, la resistenza antiretorica al male e al dolore non rinuncia a gustarsi la vita, a ripercorrerne occasioni e racconti, a parlare con le sue amate figure. Partendo per il suo, e nostro, profondo Nord, Elena ci ha lasciato questo indimenticabile libretto: un’eredità di coraggio e di stile, segnata da una dedizione alla scrittura che è anche responsabilità per gli altri: per chi resta e per il tempo che loro rimane.

“Il manifesto.Alias”, 8 febbraio 2015